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martedì 4 dicembre 2018

TONY CHICHIARELLI - Il Principe dei Falsari.

toni chicchiarelli

Tony Chichiarelli




1984 La morte

1984 sono le 3 di notte, in via Martini, quartiere Talenti, a due passi da viale Jonio, Chicchiarelli rincasa a bordo della sua Mercedes 190, insieme alla compagna ventunenne Cristina ed al figlioletto di appena un mese  sul sedile posteriore dell'auto.

Ha appena abbandonato una cena, ai commensali dice che il cappellano di Regina Coeli lo deve far entrare di nascosto per parlare con qualcuno.

Arrivato a casa un anonimo assassino attende che la compagna di Chichiarelli scenda dall'auto per aprire il portone di casa e le spara a bruciapelo un colpo con una pistola munita di silenziatore.

La pallottola trapassa un occhio della vittima ed esce dalla parte posteriore del cranio.

La donna viene raggiunta all'occhio sinistro, braccio ed avambraccio destro dai colpi d'una pistola calibro sei e trentacinque e s'accascia priva di conoscenza accanto allo sportello aperto della Mercedes 190.

Chichiarelli allora scende di corsa dall'auto all'inseguimento dell'assassino, ma questi ad un certo punto si volta e gli scarica addosso l'intero caricatore della pistola: prima lo colpisce due volte al torace, Chichiarelli fugge ma il killer lo raggiunge nell'attigua via Landini e lo finisce con due colpi alla testa.

Al rumore degli spari, due metronotte, si precipitano fuori e si danno all'inseguimento dello sparatore, un giovane"di piccola statura, poco più d' un metro e sessanta, con indosso calzoni jeans ed un giubbetto forse di colore verde".

La ragazza si salva, ma Chichiarelli muore, a trentasei anni, alle sette del mattino, senza avere ripreso conoscenza.

Muore dopo alcune ore all'ospedale, nella prima mattina del 28 settembre; lo sparatore che lo ha centrato con sette colpi su dieci, un vero professionista ingaggiato da ignoti era l'esecutore di un tipico "regolamento di conti".

Il primo mistero di quest'omicidio riguarda l'identità del vero bersaglio dell'agguato. Sembra probabile che non fosse Chichiarelli il vero obiettivo, ma la sua compagna.

Un'intimidazione che ebbe un esito non previsto: l'assassino spara a Chichiarelli solo dopo che questi aveva iniziato ad inseguirlo.

La tipologia dell'agguato, inoltre, sembrerebbe esser riconducibile sia ad un regolamento di conti tra malavitosi, che ad un'intimidazione tipica della guerra di spie.

A parte la dinamica dell'omicidio, anche la mancata autopsia sul cadavere non permise di appurare dati assai importanti concernenti il calibro dei proiettili.

Ma i misteri più fitti emersero in seguito alla morte del falsario.

A casa di Tony vengono reperite due rivoltelle calibro 38 special con matricola abrasa e, dentro un contenitore di pellicole fotografiche, un cartoccetto di polvere bianca.

All'interno della cassaforte giacciono 37 milioni in contanti, gioielli e oggetti di grande valore ed una videocassetta.

Vi era registrato lo "Speciale Tg1" sulla rapina alla Brink' s Securmark di soli sei mesi prima.

Vennero pure trovate delle fotografie "Polaroid". In esse era ritratto Aldo Moro vivo nella "Prigione del Popolo" brigatista.

La vita

Danilo Abbruciati
Antonio Giuseppe Chichiarelli, soprannominato Tony, nasce il 16 gennaio 1948 a Rosciolo, frazione di Magliano dei Marsi (AQ), un paese dell'Abruzzo arroccato sugli Appennini.

Nel 1951 rimane orfano di madre, dopo le medie, nel 1962 lascia la scuola dove l'unica passione è per il dipinto.

Nel 1968/1969 espletò il servizio di leva nel corpo degli Alpini. Una volta congedatosi, partì per Roma.

Nel 1970 fu arrestato dalle Forze dell'Ordine per possesso di pistole e mitra, ma venne rilasciato quasi immediatamente.

I primi anni nella capitale furono anni difficili furti, scippi, truffe e ricettazione gli consentirono di avere auto, moto e donne, ma anche i primi guai con la legge, venendo arrestato due volte.

Inoltre, nel 1976, simpatizzando per l'estrema sinistra gravitò nell'ambito dell'Autonomia capitolina.

Nel corso della seconda carcerazione, a Regina Coeli, divenne molto amico di uno dei futuri capi della Banda della Magliana, Danilo Abbruciati, implicato nello spaccio di droga e nel giro delle rapine, e con contatti con l'estremismo di destra e con la Mafia.


La banda della Magliana

Tramite Abbruciati, Tony fece la conoscenza con il rappresentante di Cosa Nostra nella capitale, Pippo Calò, e col Clan dei marsigliesi, che – a quel tempo – si dividevano il mercato della droga nella capitale.

Anche Flavio Carboni ed agenti dei servizi segreti erano in contatto con Abbruciati e per suo tramite con Chichiarelli.

Pippo Calò
Nel corso del 1977 incontrò Chiara Zossolo, che possedeva una galleria d'arte a Trastevere e che lo introdusse nel mercato dell'arte, in cui cominciò a realizzare e vendere Falsi d'autore.

In quell'anno aprì un negozio di mobili ed attrezzature per l'ufficio: proprio dal suo negozio uscì la macchina da scrivere con cui fu redatto il falso comunicato n. 7 delle Brigate Rosse durante il rapimento di Aldo Moro.

Nel gennaio del 1978, Tony prese in affitto, per una cifra allora assai elevata (950.000 lire mensili) una lussuosa villa in Viale Sudafrica, nell'esclusivo quartiere dell'EUR, dove andò a vivere con Chiara, che di lì a poco divenne sua moglie.

Nonostante le sue simpatie politiche per la sinistra extraparlamentare, Tony, in qualità di componente della Banda della Magliana (legata a filo doppio con i NAR), non esitò a frequentare terroristi di stampo neofascista quali Francesca Mambro e suo marito Giuseppe Valerio Fioravanti, Alessandro Alibrandi, Massimo Sparti, Massimo Carminati ed altri esponenti di spicco dell'eversione di destra. Tramite la moglie, Tony fece pure la conoscenza di un trafficante di materiale tecnologico con la Libia, nonché informatore dei Carabinieri, tal Luciano Dal Bello.

Dal Bello, divenuto amico di Tony, stilò un rapporto su di lui, mettendolo nel contempo in contatto con elementi del tentato Golpe Borghese, soprattutto con un informatore della Polizia, tal Giacomo Comacchio.

1978 il caso Moro

I cinque processi del Caso Moro hanno accertato che fu lui a confezionare il falso comunicato numero sette delle Brigate Rosse ("Il comunicato del Lago della Duchessa", fingendo che fosse stato composto dalle Brigate Rosse) durante i 55 giorni del sequestro, ma non venne mai accertato chi fu a commissionarglielo.

Tony fu certamente a conoscenza dei tentativi di giungere a una conclusione positiva del rapimento di Moro: lo Stato incaricò i Servizi Segreti nella persona di Enzo Casillo di trattare con Raffaele Cutolo quale intermediario per giungere alla prigione di Moro grazie all'aiuto della Banda della Magliana e, forse, fu a conoscenza dell'informazione data ad un altro esponente dei Servizi Segreti, Antonio La Bruna, circa l'esatta localizzazione del covo brigatista di Via Gradoli.

Aldo Moro
Martedì 18 aprile 1978 alle ore 09.25 a.m., alla redazione de Il Messaggero, una telefonata anonima annuncia che in un cestino di rifiuti di piazza Gioacchino Belli a Roma è nascosta una copia del comunicato n. 7 delle Brigate Rosse.

È una fotocopia di un comunicato numero 7 che annuncia l'avvenuta esecuzione di Moro, il cui corpo si troverebbe nel lago della Duchessa. I Brigatisti generalmente lasciano dei ciclostilati.

Il messaggio si presenta subito con caratteristiche completamente diverse dai precedenti: è molto breve, ironico e ha al suo interno diversi errori di ortografia.

Non ci sono gli immancabili slogan conclusivi, l'intestazione "Brigate rosse" è scritta a mano. Nonostante ciò la relazione degli esperti garantisce l'autenticità del comunicato.

L'Italia conosce il dramma della avvenuta esecuzione, e apprende che "il corpo del Presidente è nei fondali del Lago della Duchessa", in Abruzzo.

L'autore di quel falso è Tony Chichiarelli, che ne parla agli amici nel suo piccolo laboratorio dove continua a riprodurre qualunque cosa, soprattutto i suoi quadri.

Chi gli ha commissionato il falso comunicato aveva certamente uno scopo che appare ancor oggi ignoto e neppure è dato conoscere quale fosse il messaggio trasversale che tale comunicato volesse lanciare.

Chichiarelli era stato pure l'artefice di altri documenti e materiali di provenienza apparentemente brigatista, ma in realtà apocrifi, fatti ritrovare a Roma in quattro occasioni diverse, tutte successive alla conclusione della vicenda Moro: la prima delle quali il 20 maggio 1978, altre due nel 1979, e l'ultima il 17 novembre 1980. 

Falso comunicato N° 7:


«Oggi 18 aprile 1978, si conclude il periodo "dittatoriale" della DC che per ben trent'anni ha tristemente dominato con la logica del sopruso. In concomitanza con questa data comunichiamo l'avvenuta esecuzione del presidente della DC Aldo Moro, mediante "suicidio".

Consentiamo il recupero della salma, fornendo l'esatto luogo ove egli giace.

La salma di Aldo Moro è immersa nei fondali limacciosi (ecco perché si dichiarava impantanato) del lago Duchessa, alt. mt. 1800 circa località Cartore (RI) zona confinante tra Abruzzo e Lazio.

È soltanto l'inizio di una lunga serie di "suicidi": il "suicidio non deve essere soltanto una "prerogativa" del gruppo Baader Meinhof.


Inizino a tremare per le loro malefatte i vari Cossiga, Andreotti, Taviani e tutti coloro i quali sostengono il regime. P.S. - Rammentiamo ai vari Sossi, Barbaro, Corsi, ecc. che sono sempre sottoposti a libertà "vigilata". 18/4/1978 Per il Comunismo Brigate Rosse'.»

Pecorelli

Carmine Pecorelli fu il direttore di un'agenzia di stampa specializzata nella divulgazione degli scandali politici durante gli anni settanta, Osservatorio Politico (OP).

La sera del 20 marzo 1979 fu ucciso all'interno della sua automobile, nel quartiere Prati di Roma, in via Tacito, poco lontano dalla redazione del suo giornale, con quattro colpi di una pistola calibro 7,65.
I proiettili trovati nel suo corpo sono molto particolari, della marca Gevelot, assai rari sul mercato, anche clandestino, ma dello stesso tipo di quelli che sarebbero poi stati trovati nell'arsenale della Banda della Magliana nascosto nei sotterranei del Ministero della sanità, arsenale a cui attingevano pure i terroristi neofascisti dei NAR.

Omicidio Pecorelli
Chichiarelli fu l'uomo che qualche tempo dopo il delitto Pecorelli confezionò e fece trovare in un taxi romano una serie di false "schede brigatiste" a carico di personaggi pubblici, insieme a oggetti che riportavano ai misteri del sequestro Moro (come una testina rotante IBM da macchina per scrivere, simile a quella usata per stilare i comunicati dei terroristi).

Circa un anno dopo l’uccisione di Aldo Moro, il 14 aprile del 1979, tre ragazzi americani trovano, sul sedile posteriore di un taxi, un borsello da uomo e lo consegnano al comandante del reparto operativo dei Carabinieri di Roma, colonnello Antonio Cornacchia.

Il borsello, contiene una pistola con la matricola abrasa, undici munizioni calibro 7,65 e una di grosso calibro (Moro era stato assassinato con dodici colpi di arma da fuoco, di cui undici di piccolo ed uno di grosso calibro), una testina rotante per macchina da scrivere marca IBM, la stessa usata dalle BR nei vari comunicati diramati durante il sequestro, un mazzo contenete nove chiavi, nove come il numero dei membri del commando che rapì Moro e uccise la sua scorta, due flash marca Silvana, come quelli usati nelle uniche due foto polaroid scattate durante il sequestro, un pacchetto di fazzoletti marca Paloma, come quelli usati per tamponare le ferite di Moro e ritrovati sul suo cadavere, una carta stradale con indicato il Lago della Duchessa, una bustina contenente delle pillole come quelle che i medici avevano prescritto a Moro, delle pagine dell’elenco del telefono relative ad alcuni ministeri, con su scritte le cifre di un codice numerico, analogo a quello usato nel comunicato in codice numero uno, e quattro schede di cui la prima contenente un piano per l’eliminazione delle guardie del corpo del presidente della Camera Pietro Ingrao, un’altra riguardante il piano per l’eliminazione del procuratore della Repubblica di Roma Achille Gallucci, incluso il numero di telefono di casa della vittima risalente agli anni sessanta, la terza indicante il piano per il rapimento del presidente dell’ordine degli avvocati di Roma Giuseppe Prisco di Milano, ed in ultimo un piano per l’eliminazione del giornalista Mino Pecorelli, ucciso il 20 marzo 1979, 25 giorni prima del ritrovamento del borsello.

Nella scheda relativa a Pecorelli oltre alla scritta “da eliminare”era annotato l’indirizzo della sua abitazione, il tipo ed il colore della sua auto, inclusa la targa.

Nella scheda veniva anche specificato di agire entro e non oltre il 24 marzo, aggiungendo che l’avergli concesso ulteriore tempo avrebbe creato altri problemi.
Si specificava inoltre di non rivendicare assolutamente l’omicidio, ma al contrario veniva sottolineata l’esigenza di depistare.

In fondo alla scheda compariva la scritta: “Martedì 20 ore 21:40 giunta notizia operazione conclusa positivamente: recuperato materiale non completo, sprovvisto dei paragrafi 162, 168, 174, 177”.

Probabilmente i paragrafi a cui si fa riferimento sono quelli del memoriale scritto da Aldo Moro durante i 55 giorni di prigionia, in possesso delle BR, di cui risulta ne avessero fatto anche una fotocopia.
Come sappiamo il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, su indicazione di Giulio Andreotti, aveva fatto in modo attraverso un suo uomo di fare sparire il memoriale dal covo di via Montalcini a Roma prima dell’arrivo dei magistrati.

Secondo la testimonianza dei pentiti della Banda della Magliana, Chichiarelli aveva affermato di esser deluso per la magra ricompensa ai suoi servizi resi durante la prigionia di Moro.

Chiara Zossolo riferì alla Corte perugina un suo ricordo del 1981: al Senato era in corso la polemica sulla famosa cena al ristorante "la Famjia piemonteisa", nel corso del quale il senatore Claudio Vitalone e altri personaggi dell'entourage andreottiano avevano offerto soldi a Pecorelli perché cessasse di attaccare Andreotti sul suo giornale, "OP".

Commentando quel fatto, Chichiarelli spiegò di conoscere il vero motivo della morte del giornalista: "Pecorelli - disse l'uomo alla moglie - è stato ucciso perché aveva appurato delle cose sul sequestro Moro: era un brav'uomo e non meritava purtroppo di morire".

A rendere ancora più pesante questo riscontro è una seconda deposizione, resa dalla testimone Franca Mangiavacca, segretaria e ultima compagna di Pecorelli.

La signora Mangiavacca ha infatti riconosciuto, in mezzo a decine di fotografie, quella di Chichiarelli.

È lui l'uomo che ha pedinato lei e Pecorelli nei giorni precedenti all'omicidio del giornalista.

Riassumendo, i giudici hanno stabilito con sufficiente certezza che Chichiarelli, poi a sua volta assassinato, partecipò alla fase di preparazione del delitto Pecorelli.

Chichiarelli dice alla moglie di conoscere il motivo per cui il giornalista è stato ucciso, e questo motivo è lo stesso indicato molti anni dopo da Buscetta.

Da qualche altra menzione, infine, sembra accertato che Chichiarelli fosse a conoscenza della fine di Mauro De Mauro, da mettersi in relazione col fallito Golpe Borghese e dal fatto che, ad organizzare quel tentativo di putsch, fossero stati i servizi segreti, come - peraltro - indica anche il colonnello Amos Spiazzi.

L'indagine aperta all'indomani del delitto Pecorelli coinvolse nomi come Massimo Carminati (esponente dei Nuclei Armati Rivoluzionari e della Banda della Magliana), Licio Gelli, Antonio Viezzer, Cristiano e Valerio Fioravanti, tutti poi prosciolti il 15 novembre 1991.

Secondo le rivelazioni di Buscetta, dal "caso Pecorelli" si passa al caso del cosiddetto memoriale Moro nelle due versioni: quella "censurata", trovata nel 1978, e quella integrale rinvenuta soltanto nel 1990.

È probabile, secondo i magistrati, che il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa abbia avuto tra le mani, fin dal 1978, la versione integrale.

Ed è altrettanto probabile che Dalla Chiesa e Pecorelli si siano incontrati almeno due volte dopo il rinvenimento del primo memoriale.

Dalla Chiesa
Terza cosa - certa - è che Pecorelli sapeva bene che il memoriale pubblicato dai giornali è monco:
"La lettura del testo del memoriale Moro - scrive su "OP" Pecorelli il 24 ottobre 1978, due settimane dopo il ritrovamento da parte degli uomini di dalla Chiesa - ha già sollevato dubbi sulla sua integrità. Esiste infine un altro memoriale in cui Moro sveli importanti segreti di Stato?".


Articoli sgraditi anche perché nei successivi numeri di "OP" Pecorelli comincia a pubblicare notizie e documenti esclusivi proprio su quegli argomenti - scandalo Italcasse, caso Sindona, riferimenti velati all'operazione Gladio - che sono contenuti nel memoriale integrale, quello che diventerà pubblico solo nel 1990. Ancora poco chiaro è il nome di colui che passò a Pecorelli queste notizie.

Come ignoto è il nominativo di colui che passò a Pecorelli la notizia, in anteprima, che il messaggio del Lago della Duchessa fosse un falso creato ad arte.

1984 La rapina del secolo

La sede romana della Brink's Securmark, società di trasporto valori, si trova al chilometro 9.600 della statale Aurelia. Negli anni settanta, uno degli azionisti della società era il bancarottiere Michele Sindona.

A posteriori, in tribunale, la moglie Chiara Zossolo indicherà che fu Tony a progettare una delle più grandi rapine avvenute in Italia, quella dei 35 miliardi di lire sottratti nel caveau della Brink's Securmark.

Un colpo magistrale, addirittura fin troppo facile, a detta degli inquirenti. Non è certo che Tony avesse cooperato con gli altri colleghi della Banda della Magliana.


identikit rapinatori  della briks a destra Chichiarelli


Pare che gli altri appartenenti alla banda non parlassero con un accento romano (tipico dei membri della Banda della Magliana), bensì piemontese.

Appare certo che esistessero almeno un paio di basisti appartenenti all'istituto vittima del furto, un dipendente ed un ex-dipendente.

Michel Sindona
Inoltre, le indagini hanno appurato che Chichiarelli avesse compiuto un sopralluogo qualche settimana prima del fatto addirittura entro il perimetro della banca, dopo l'orario di chiusura.

Circa la banca, Chichiarelli conosceva la planimetria in modo dettagliato, così come i turni di sorveglianza ed i nominativi delle guardie.

Per la riuscita del colpo, inoltre, aveva utilizzato un furgone in tutto simile a quello di proprietà della banca, di cui conosceva accuratamente e specificamente ogni movimento.

La Brink's Securmark non era propriamente una banca, bensì si trattava di un deposito che faceva capo a una catena bancaria di Michele Sindona.

La sera del 23 marzo 1984, un sabato, quattro uomini con il volto coperto da maschere, prelevano, verso l'ora di chiusura, una delle guardie giurate, Franco Parsi, al momento di rincasare.

Il custode avrebbe dovuto iniziare il nuovo turno soltanto la mattina di lunedì 25 marzo, due giorni dopo.

Lo condussero a casa, dicendo a lui ed ai famigliari di essere un commando delle Brigate Rosse.

Lo tennero in ostaggio fino all'alba della mattina successiva insieme alla moglie, alla suocera ed ai figli.

Poi uno dei rapinatori rimase nell'abitazione per tenere a bada i familiari, virtualmente degli ostaggi veri e propri, mentre gli altri tre condussero la guardia giurata, che aveva le chiavi, al caveau della banca, dove disarmarono altri due agenti e senza sparare un colpo portarono via denaro liquido, traveller's cheque, oro e preziosi per una cifra astronomica, che fu stimata intorno a 35-37 miliardi (stima fatta dalla banca stessa, che stanziò due miliardi di ricompensa a chi avesse fornito informazioni utili al recupero della refurtiva).

Chichiarelli, invece, parlò alla compagna di almeno 50-55 miliardi, di cui due dati ai basisti ed altri venti ceduti ai complici con cui aveva condotto in porto l'impresa.

In pratica, almeno 30 miliardi erano tutti per il solo Chichiarelli.

Non fu una rapina qualsiasi: sul bancone gli ignoti lasciarono una serie di oggetti che stavano simbolicamente a rappresentare il vero significato dell'impresa.

Una granata Energa, sette proiettili calibro 7,62, sette piccole catene e sette chiavi. La bomba Energa era dello stesso tipo usata durante l'agguato al colonnello Varisco (il tenente colonnello Antonio Varisco, comandante del nucleo dei carabinieri del Tribunale di Roma, venne ucciso dalle Brigate Rosse il 13 luglio 1979) e proveniva dall'armeria di via List.

Le sette chiavi e le sette catene furono lette come un chiaro riferimento al falso comunicato delle Brigate Rosse sul lago della Duchessa, mentre i sette proiettili calibro 7,62 riportano all'omicidio di Mino Pecorelli, e c'erano anche le cinque schede, identiche a quelle ritrovate dentro il borsello abbandonato nel taxi da Tony Chichiarelli all'epoca dell'omicidio del giornalista: gli oggetti lasciati intenzionalmente sul luogo della rapina facevano così affiorare lo stretto collegamento tra la fine del direttore di OP e il rapimento e la morte di Aldo Moro.

Furono lasciati anche falsi volantini di rivendicazione brigatista della rapina e le immancabili foto Polaroid scattate ai guardiani legati con, sullo sfondo, il drappo raffigurante la stella, emblema del gruppo terroristico.

A differenza di quanto avvenne per il falso comunicato del Lago della Duchessa, in questa occasione gli specialisti riconobbero immediatamente come falsi sia i volantini di rivendicazione, che le fotografie.

Dopo la rapina miliardaria alla Brink's Securmark del 1984, nella quale pare fosse il capo del commando, Chichiarelli iniziò ad investire il frutto della rapina nel mercato immobiliare ed in quello degli stupefacenti.

Egli venne ucciso sei mesi più tardi, a fine settembre di quell'anno, in circostanze mai chiarite.




Le varie ipotesi sul suo omicidio


  • Una vendetta della malavita per il florido commercio di stupefacenti nel frattempo avviato dal falsario.
  • Un regolamento di conti all'interno della malavita (la banca rapinata era collegata all'impero di Michele Sindona).
  • Una "eliminazione preventiva" ad opera dei servizi segreti, essendo il Chichiarelli un personaggio poco discreto, come accertato in aula giudiziaria dalle testimonianza della moglie, della compagna e dei conoscenti.
  • Uno sgarro ai suoi compagni della Banda della Magliana nel caso la rapina fosse stata compiuta da esponenti non appartenenti alla banda stessa, oppure, qualora i proventi della rapina non fossero stati divisi con gli appartenenti alla banda medesima, in base al patto di sangue che legava i componenti dell'associazione criminale.
  • Una eliminazione volta allo scopo di recuperare i documenti compromettenti stipati nel caveau della Brink's Securmark, tra i quali le famose polaroid che ritraevano Aldo Moro vivo nel carcere brigatista: al processo infatti fu avanzata l'ipotesi che il falsario rapinatore non avesse rispettato i patti coi servizi segreti, intenti a recuperare quello scottante materiale, alla base, fu detto, del vero movente della rapina stessa.
Sull'ultimo punto da sottolineare come i complici di Chichiarelli dichiareranno che sembrava più interessato ai documenti che ai soldi.




Luigi Cipriani, Intervento in Commissione stragi sull'affare Moro 15 aprile 1992. 
Allegato alla relazione finale del gruppo sui ritrovamenti di via Montenevoso.


"Signor presidente, concordo con la relazione presentata dal gruppo di lavoro sul caso Moro.

Vorrei però che fossero allegate alcune integrazioni su elementi accennati nella relazione, ma che sono a mio avviso molto importanti, per cui andrebbero ulteriormente ampliati.

Uno di questi riguarda la vicenda Toni Chichiarelli. Toni Chichiarelli è un personaggio romano legato alla banda della Magliana, con tutto ciò che ne consegue: conosciamo infatti i collegamenti della banda della Magliana con la mafia, con la destra eversiva, con i servizi segreti. Toni Chichiarelli era in contatto con un informatore, un agente del Sisde, tale Dal Bello, un personaggio di crocevia tra la malavita romana in collegamento con i servizi segreti e la banda della Magliana.

Toni Chichiarelli interviene nella vicenda Moro dimostrando di essere un personaggio assai addentro alla vicenda stessa (questo è quanto scrive il giudice Monastero che ha condotto l'istruttoria sull'assassinio di Toni Chichiarelli), come dimostrano due episodi.

Il primo, che è stato chiarito, è il seguente: Toni Chichiarelli è l'autore del comunicato n.7, il falso comunicato del Lago della Duchessa; ed è anche l'autore del comunicato n.1 in codice, firmato Brigate rosse-cellula Roma sud.

Toni Chichiarelli fece trovare un borsello sul taxi; all'interno di questo borsello erano contenuti alcuni oggetti che facevano capire che lui conosceva dal di dentro la vicenda Moro.

Fece trovare infatti nove proiettili calibro 7,65 Nato, una pistola Beretta calibro 9 (e si sa che Moro è stato ucciso da undici colpi, dieci di calibro 7,65 e uno di calibro nove); fece trovare dei fazzolettini di carta marca Paloma, gli stessi che furono trovati sul cadavere di Moro per tamponare le ferite; fece trovare quindi una serie di messaggi in codice, e una serie di indirizzi romani sottolineati; fece trovare dei medicinali e anche un pacchetto di sigarette, quelle che normalmente fumava l'onorevole Moro; inoltre un messaggio con le copie di schede di cui farà ritrovare poi l'originale in un secondo episodio.

Vi è un secondo aspetto.

Dopo la rapina della Securmark, ad opera della banda della Magliana con Toni Chichiarelli come mente direttiva, quest'ultimo fa trovare -lo scrive il giudice Monastero- una busta contenente un altro messaggio con gli originali di quattro schede riguardanti Ingrao ed altri personaggi.

Questa volta, come dicevo, ci sono gli originali: si tratta di schede relative ad azioni che erano state programmate e previste; fa trovare però anche un volantino falso di rivendicazione delle Brigate rosse.

Il giudice poi scrive: "Si rinveniva una foto Polaroid dell'onorevole Moro apparentemente scattata durante il sequestro".

Viene eseguita una perizia di questa foto, e si rileva che non si tratta di un fotomontaggio.

Come sappiamo, delle Polaroid non si fanno i negativi; è quindi una foto originale di Moro in prigione che Chichiarelli, dopo l'episodio del borsello, fa ritrovare in questo secondo messaggio, con le schede originali che riguardano Pietro Ingrao, Gallucci, il giornalista Mino Pecorelli, che sarà in seguito ucciso, e l'avvocato Prisco. 

Sulla scheda riguardante l'avvocato Prisco si parlava di questo famoso gruppo Mauro. Anche nel documento della registrazione che il Sisde ha fatto avere ai magistrati, si parla del gruppo Mauro che operava nella zona di Fiumicino e avrebbe dovuto avere in sequestro l'onorevole Moro.

In sostanza emerge il famoso elemento di cui si è sempre parlato, ossia come la gestione del rapimento Moro abbia avuto due fasi; e la seconda fase è confluita nel ruolo giocato dalla banda della Magliana, all'interno della quale conosciamo la parte che hanno sempre svolto i servizi segreti e la mafia.

La vicenda Chichiarelli è quindi centrale all'interno del sequestro Moro, ma i magistrati non l'hanno mai approfondita, sia perché nel Moro-quater si è prestato fede a tutto quello che ha detto Morucci e non si è quindi voluti entrare nel merito di altri aspetti, sia perché il giudice Monastero ha dovuto archiviare ed ha lasciato in sospeso tutte queste parti, perché non erano di sua competenza.

Tuttavia, egli ha fatto delle affermazioni molto precise sul ruolo svolto da Toni Chichiarelli all'interno della vicenda Moro. Vorrei perciò che quanto ho detto fosse allegato alla relazione, perché ritengo che sviluppando questa tematica si capirà molto meglio cosa è accaduto nel rapimento Moro.




sabato 5 novembre 2016

CARDINAL POLETTI

                                          cardinal poletti 



“Riguardo al fatto di Emanuela Orlandi, per trovare la soluzione del caso, andate a vedere chi è sepolto nella cripta della Basilica di Sant’Apollinare e del favore che Renatino fece al cardinal Poletti, all’epoca” (telefonata anonima)





Ugo Poletti, 

nato ad Omegna il 19 aprile 1914, fu ordinato sacerdote il 29 giugno 1938.
Fu prima pro-vicario e poi vicario generale della diocesi di Novara. Papa Pio XII, il 12 luglio 1958 lo elesse vescovo titolare di Medeli ed ausiliare di mons. Gilla Vincenzo Gremigni, arcivescovo-vescovo di Novara, che lo consacrò il successivo 14 settembre nella cattedrale della diocesi.
Il 7 gennaio 1963, alla morte del proprio vescovo, venne eletto vicario capitolare di Novara, per essere chiamato, l'anno successivo, a Roma a dirigere le Pontificie Opere Missionarie.
Il 26 giugno 1967 fu nominato da papa Paolo VI arcivescovo di Spoleto.
Due anni dopo, il 3 luglio 1969 fu nominato arcivescovo titolare di Cittanova e secondo vicegerente di Roma, divenendo così uno dei più stretti collaboratori del cardinale Angelo Dell'Acqua, vicario di Roma, alla cui improvvisa morte, venne nominato, il 13 ottobre 1972, pro-vicario generale di Roma.


Papa Paolo VI lo elevò al rango di cardinale nel concistoro del 5 marzo 1973 con il titolo dei SS. Ambrogio e Carlo. Il 6 marzo fu nominato Vicario Generale della Diocesi di Roma e il 26 marzo successivo anche arciprete dell'Arcibasilica di San Giovanni in Laterano.
Sempre polemico nei riguardi delle amministrazioni della capitale, il 12 febbraio 1974, insieme a don Luigi Di Liegro, organizzò un convegno rimasto celebre con il titolo "Sui mali di Roma", anche se il titolo ufficiale era "La responsabilità dei cristiani di fronte alle attese di giustizia e di carità nella diocesi di Roma". Iniziato nella basilica di San Giovanni in Laterano, il convegno segnalò le debolezze e le carenze di Roma, indicandone i responsabili.
Partecipò ai due conclavi del 1978.
Nel 1986 nominò padre Gabriele Amorth esorcista della diocesi di Roma, chiedendogli di affiancare l'allora esorcista in carica padre Candido Amantini.

enrico de pedis tomba apollinare
Enrico De Pedis
Il 26 agosto 1986 fu incaricato da papa Giovanni Paolo II di erigere il primo Seminario Redemptoris Mater a Roma, dopo che gli iniziatori del Cammino neocatecumenale avevano presentato l'idea al Pontefice.
Dal 1985 al 1991 fu presidente della Conferenza Episcopale Italiana. In tale veste firmò con Franca Falcucci, allora Ministro della Pubblica Istruzione, l'intesa per l'insegnamento della religione cattolica nelle scuole italiane.
Il 17 gennaio 1991 rinunciò, per raggiunti limiti d'età, agli uffici di cardinale vicario di Roma e di arciprete dell'Arcibasilica Lateranense, contestualmente venne nominato arciprete della Basilica di Santa Maria Maggiore.


Come risulta dai documenti trovati dalla giornalista RAI Raffaella Notariale nel 2005, fu lui ad autorizzare la sepoltura del criminale Enrico De Pedis (membro della banda della Magliana) nella cripta della Basilica di Sant'Apollinare: tale richiesta venne perorata dall'allora vicario di Sant'Apollinare, don Pietro Vergari, e si giustificava con la presunta attività filantropica verso i poveri della basilica svolta dal De Pedis.


Sabrina Minardi: "Il cardinale stava molto, molto, molto in confidenza con Renato. Grandi sorrisi, chiacchieravano amabilmente. Si misero a chiacchierare pure in disparte, mi ricordo ancora le mosse di Renato: si metteva le mani in faccia, a coprire la bocca, mentre parlava. Quando doveva parlare di cose serie e c'era gente faceva così: non si fidava neanche dei muri".
Il suo nome compare nella lista Pecorelli, pubblicata il 12 settembre 1978 sulla rivista OP Osservatore Politico dal giornalista Mino Pecorelli, la quale conteneva i nomi degli appartenenti alla massoneria nell'ambiente ecclesiastico, assieme a quelli di vescovi e cardinali come Paul Marcinkus, Dino Monduzzi, il vescovo di Albano Luigi Bonicelli, l'arcivescovo di Ravenna Salvatore Baldassarri, il cardinale Pappalardo e molti altri.(Loggia Vaticana)
Si spense, per un improvviso attacco cardiaco, mentre era ricoverato presso il Policlinico Gemelli per erisipela, il 25 febbraio 1997. È sepolto nella Basilica di Santa Maria Maggiore.





venerdì 19 dicembre 2014

ANTONIO MANCINI "Accattone"

banda della magliana

L’OPERAZIONE EMANUELA ORLANDI È FUMO NEGLI OCCHI. “IL RAPIMENTO DECISO DA MAFIOSI E TESTACCINI. PIÙ DI 200 MILIONI DI $ CHE NON RIENTRAVANO E CHE LA BANDA AVEVA RICICLATO PER LO IOR E CHE NON AVEVA PIÙ RIVISTO”


Antonio Mancini

detto Accattone (Castiglione a Casauria, 4 febbraio 1948), iniziò la sua carriera criminale in giovane età come membro di una banda (in gergo batteria) specializzata nell’assalto ai treni, di cui era membro, tra gli altri, anche Gianfranco Urbani detto Er pantera.
Nell’ambiente era conosciuto con il soprannome di accattone poiché veniva giocosamente preso in giro dai compagni essendo andato a vedere l'omonimo film di Pasolini diverse volte. Ma anche per la somiglianza con i ragazzi di vita tratteggiati nei racconti del poeta.
Durante i suoi soggiorni nel carcere di Regina Coeli, rafforzò i legami con numerosi esponenti della malavita romana e non, tra cui Nicolino Selis, componente di una "batteria" che operava tra Acilia ed Ostia (anch’essa tra l’altro specializzata nell’assalto ai treni in cui militò il primo futuro pentito di quella che sarà la banda della Magliana, Fulvio Lucioli detto Er sorcio). Il contatto con Selis sarà importante per l’"accattone", poiché sarà grazie a costui che sposerà a pieno il progetto di partecipare alla creazione di una forte organizzazione malavitosa composta di soli romani e volta al controllo in esclusiva dei traffici criminali nella capitale. In tale progetto, il duo Selis-Mancini coinvolse molti criminali di loro conoscenza che da lì a poco tempo sarebbero diventati celeberrimi boss del nuovo sodalizio criminale: Edoardo Toscano detto l’"operaietto", Giuseppe Magliolo il killer, Angelo de Angelis detto "Er catena", Giovanni Girlando detto "er roscio" e Libero Mancone.


La Banda della Magliana

Membro storico della banda della Magliana, nell’ambito della quale svolgeva principalmente il compito di drizzare i torti (ovvero di “persuadere” eventuali debitori morosi o altri temerari che si ribellavano alla lex de imperio della banda), Mancini era legato da profonda amicizia al boss testaccino Danilo Abbruciati detto "Er camaleonte", che accompagnò diverse volte a Milano nel periodo in cui il bandito Francis Turatello era sotto processo; con il "camaleonte" formò il plotone d’esecuzione di Antonino Leccese, nell’ambito della medesima spedizione che portò all’eliminazione dell’ex compare e compagno di detenzione Nicolino Selis (cognato di Leccese) il 3 febbraio 1981, per dissidi interni alla banda. Poco più di un mese dopo prese parte all’ agguato di via di Donna Olimpia a danno dei fratelli Proietti detti "pesciaroli", accusati da quelli della Magliana di essere gli esecutori dell’omicidio del loro leader Franco Giuseppucci detto "Er negro" avvenuto il 13 settembre 1980.

La sera del 16 marzo 1981, Antonio Mancini e Marcello Colafigli intercettarono Maurizio Proietti detto "il pescetto" e il fratello Mario soprannominato "palle d’oro" nei pressi di via di Donna Olimpia n°152 a Monteverde (quartiere di Roma): nel furibondo scontro a fuoco che ne seguì perse la vita MaurizioProietti, mentre i due banditi della Magliana furono feriti. Nel tentativo di evitare l’arresto e aprirsi un varco, Colafigli e Mancini inscenarono il rapimento di uno dei figli dei Proietti, senza riuscire nell’intento. In seguito ai fatti di via di Donna Olimpia, per Mancini si aprirono le porte del carcere, in particolare quelle della fortezza di Pianosa dove fu trasferito con l’accusa di essere il mandante dell’omicidio di Sisto Nardocchi. Venne condannato a 28 anni di reclusione. L’esperienza a Pianosa durò meno del previsto, infatti fu trasferito inaspettatamente a Busto Arsizio; il pentito racconterà in seguito che l’intercessione di Enrico "Renatino" De Pedis presso “qualcuno al ministero” si rilevò determinante per il raggiungimento di questo inatteso risultato. Nel 1986 rifiutò, insieme a Toscano, di evadere al termine di un’udienza del maxi processo alla banda della Magliana dall’aula Occorsio del tribunale di Roma, episodio ancora oggi famoso e per certi versi scandaloso che vide alla fine protagonista un altro membro della banda, Vittorio Carnovale detto Er coniglio. Mancini era infatti vicino a ottenere un regolare permesso dopo ben sei anni di detenzione.
Una pagina particolarmente importante della vita di Mancini fu quella riguardante la relazione con Fabiola Moretti, l'ex compagna di Abbruciati nel frattempo ucciso a Milano il 27 aprile 1982. Con la Moretti, legata tra l’altro a Enrico De Pedis da una profonda amicizia (legame che predilesse temporaneamente allorquando costui, entrato in conflitto con l’ala maglianese della banda di cui Mancini era esponente, venne ucciso in via del Pellegrino il 2 febbraio del 1990), visse intensi anni al limite della legalità: trascorse con lei l’ultimo periodo da criminale, fino all’arresto avvenuto nella primavera del 1994 che precedette di poco la decisione di collaborare con la giustizia.







Il pentimento

Le dichiarazioni dell’"accattone" aiutarono gli inquirenti a svelare molti dei misteri che ancora avvolgevano la banda e numerosi fatti di cronaca nera degli ultimi trent’anni: dal delitto Pecorelli (secondo Mancini a sparare fu Carminati), ai rapporti con i servizi segreti e il ruolo della banda nelle ricerche della prigione di Aldo Moro. Nel corso degli interrogatori di Mancini, la sua convivente Fabiola Moretti fu vittima di strane visite e atti intimidatori, non ultimo l’irruzione in casa di misteriosi ladri, avvenimento assai strano per un boss del calibro dell’accattone.



Nel 2006 Mancini tornò alla ribalta della cronaca affermando di riconoscere nella voce di “Mario”, il misterioso telefonista del rapimento di Emanuela Orlandi, un killer al servizio di Enrico De Pedis. In una intervista concessa ad un giornalista di Repubblica Mancini ha raccontato di aver affidato, prima di essere arrestato, un miliardo e trecento milioni di lire a Enrico Nicoletti, considerato il cassiere della banda. Quest'ultimo li avrebbe girati a Danilo Coppola, imprenditore romano. Questo getta un'ombra sulle attività di Coppola e sul potere finanziario che ancora oggi la Banda della Magliana avrebbe negli ambienti della capitale.
Adesso Antonio Mancini sta scontando agli arresti domiciliari gli ultimi scampoli di pena; inoltre, si dedica all’assistenza di ragazzi disabili.



“A PORTARE A WOJTYLA LA FOTO SCATTATA IN PISCINA CON LE SUORE FU GELLI IN PERSONA”

MORO: “FUMMO NOI A TROVARE IL COVO DI VIA MONTALCINI. LA NOTIZIA A FLAMINIO PICCOLI. LE BR ERANO COMPLETAMENTE ETERODIRETTE DAI SERVIZI, INFILTRATE DALLO STATO” 

“NICOLETTI GESTIVA I NOSTRI SOLDI E QUELLI DI ANDREOTTI, CONTEMPORANEAMENTE” 

“PECORELLI L'ABBIAMO UCCISO NOI E I SICILIANI. DE PEDIS AVEVA LA PISTOLA CON CUI ERA STATO AMMAZZATO E DORMIVA A VILLA BORGHESE IN UNA CASA DEI SERVIZI SEGRETI”

STRAGE DI BOLOGNA? FURONO I FASCISTI MANOVRATI DALLO STATO. FORSE DELLE CHIAIE” -


DOCUMENTI
   

mercoledì 3 dicembre 2014

MASSIMO CARMINATI

 


« Quelli della Magliana? Sanguinari, certo, però erano una banda di accattoni straccioni» M. Carminati 4/5/2014



Massimo Carminati nasce a Milano nel 1958 e si trasferisce a Roma con la famiglia negli anni settanta:nella capitale frequenta la sezione del MSI di Marconi e poi quella del Fuan di via Siena, al quartiere Nomentano. Milita per qualche tempo anche in Avanguardia Nazionale partecipando alle manifestazioni e agli scontri di piazza degli anni di piombo cominciando ad accumulare un certo prestigio personale negli ambienti dell'estrema destra romana, grazie alla sua fama di duro e di picchiatore per cui venne denunciato più volte per reati di rissa, violenza ed aggressione.
Compagno di scuola all'Istituto Paritario Mons. Tozzi, nella zona di Monteverde, di Alessandro Alibrandi, Franco Anselmi (con il quale dividerà poi un'abitazione a Perugia, ove entrambi frequentarono per qualche tempo la locale università) e Valerio Fioravanti con cui si incontra spesso al «Fungo», il bar all'Eur ritrovo di neofascisti, ma anche di criminali e malavitosi romani. Attraverso queste frequentazioni, Carminati iniziò a percorrere la doppia strada della militanza politica eversiva e della malavita comune, a mero scopo di lucro, diventando in breve il vero prototipo del criminale mercenario.

L'eversione nera con i NAR
« Massimo Carminati nasce nell'ambiente dell'estremismo di destra come amico e compagno di scuola di Valerio Fioravanti, al quale si lega in modo forte, e di Franco Anselmi. In breve diviene un personaggio carismatico di uno dei gruppi fondanti dei Nar: quello cosiddetto dell'Eur. Pur partecipando solo marginalmente a scontri, sparatorie ed episodi della miniguerra che ha insanguinato la capitale intorno al 1977 fra estremisti di destra e di sinistra, Carminati gode di grandissimo prestigio. Probabilmente perché è la persona dell'ambiente di destra maggiormente legata già allora alla malavita romana, alla nascente Banda della Magliana. »
(Un attimo...vent'anni di Daniele Biacchessi)
Valerio Fioravanti, che lo considera come "uno che non voleva porsi limiti nella sua vita spericolata, pronto a sequestrare, uccidere, rapinare, partecipare a giri di droga, scommesse, usura" ritiene quindi, il suo profilo criminale, adatto per un percorso di lotta armata che i suoi NAR intendono seguire, tanto da coinvolgerlo in molte azioni criminose, oltre che utilizzarlo come intermediario con la malavita romana, grazie alle diverse conoscenze che nel corso degli anni Carminati aveva accumulato, alla sua dimestichezza con gli ordigni esplosivi e alla disponibilità di materiale esplodente che poteva vantare in quegli anni.
Il 27 novembre 1979 partecipa, assieme a esponenti dei NAR e di Avanguardia Nazionale come Valerio Fioravanti, Domenico Magnetta, Peppe Dimitri e Alessandro Alibrandi, alla rapina ai danni della filiale della Chase Manhattan Bank di piazzale Marconi all'EUR. Successivamente parte del bottino, consistente in traveller cheque, verrà riciclato da Carminati e Alibrandi i quali lo affidarono nelle mani di Franco Giuseppucci, boss della Banda della Magliana che, nell'organizzare l'operazione di ripulitura, venne poi arrestato con l'accusa di ricettazione, nel gennaio del 1980.
Sempre nel 1979, Carminati assieme ad altri militanti neri, si attivò per la liberazione di Paolo Aleandri, un giovane neofascista orbitante nella galassia dei Nar a cui Franco Giuseppucci, boss della Banda della Magliana, aveva affidato in custodia un borsone pieno di armi mai riconsegnate che, utilizzate da vari esponenti della destra eversiva, erano andate disperse. Aleandri, più volte sollecitato, non era più stato in grado di restituirle ed era stato quindi rapito, il 1º agosto, dagli uomini della Magliana. A quel punto Carminati e altri militanti si attivarono rimediando altre armi (due mitra MAB modificati e due bombe a mano) in sostituzione delle originali andate perdute e dopo 31 giorni di prigionia, Aleandri venne liberato.
Quei due mitra modificati entrarono poi far parte dell'arsenale che la banda della Magliana nascose nei sotterranei del Ministero della Sanità e uno dei due venne addirittura riconosciuto, dal pentito Maurizio Abbatino, tra quelli rinvenuti sul treno Taranto-Milano, nel tentativo di depistaggio legato alla strage alla stazione ferroviaria di Bologna del 2 agosto 1980.
Il 13 gennaio 1981, infatti, in una valigetta rinvenuta su quel treno, contenente un fucile da caccia, due biglietti aerei a nome di due estremisti di destra, del materiale esplosivo T4 dello stesso tipo utilizzato per la strage di Bologna venne rinvenuto anche un mitra Mab proveniente dal deposito/arsenale della banda all'interno del Ministero della Sanità Analizzando proprio quell'arma, gli inquirenti poterono risalire ai legami tra la Banda e la destra eversiva dei Nuclei Armati Rivoluzionari. Per questa vicenda, il 9 giugno 2000, nel processo di primo grado, Carminati venne condannato a 9 anni di reclusione assieme al generale del Sismi Pietro Musumeci, al colonnello dei carabinieri Giuseppe Belmonte, al colonnello del Sismi Federigo Mannucci Benincasa e a Licio Gelli. Dell'episodio vennero infine ritenuti responsabili, con sentenza definitiva, i soli Musumeci e Belmonte, mentre Carminati verrà poi assolto in appello.
Mino Pecorelli
Secondo alcuni pentiti Carminati effettuò, per conto della Magliana, anche un altro omicidio affidato ai NAR, quello cioè del giornalista Mino Pecorelli, direttore del settimanale Osservatorio Politico O.P., iscritto alla loggia P2 e uomo vicino ai servizi segreti. Pecorelli fu assassinato con tre colpi di pistola calibro 7,65 a Roma, la sera del 20 marzo 1979 e secondo Antonio Mancini, pentito della Magliana interrogato l'11 marzo 1994: "fu Massimo Carminati a sparare assieme ad Angiolino il biondo (Michelangelo La Barbera, ndr). Il delitto era servito alla Banda per favorire la crescita del gruppo, favorendo entrature negli ambienti giudiziari, finanziari romani, ossia negli ambienti che detenevano il potere."
Dopo tre gradi di giudizio, però, nell’ottobre del 2003, la Corte di cassazione emanò però una sentenza di assoluzione "per non avere commesso il fatto" sia per i mandanti che per gli esecutori materiali dell'omicidio (Carminati e La Barbera), valutando le testimonianze dei pentiti come non attendibili e lasciando il caso (ancora oggi) irrisolto.
Massimo Carminati venne arrestato il 20 aprile 1981 quando, colpito da mandato di cattura per le azioni con i Nar, venne catturato nel tentativo di fuggire all’estero in compagnia dei due avanguardisti Domenico Magnetta e Alfredo Graniti. Arrivati nei pressi del valico del Gaggiolo (in provincia di Varese) e con l'intento di espatriare clandestinamente in Svizzera, i tre sono bloccati dalla polizia che li aspettava alla frontiera (probabilmente grazie ad una soffiata di Cristiano Fioravanti, fresco di pentimento) e che apre il fuoco su di loro, convinti che nell’auto ci fossero i capi superstiti dei Nar: Francesca Mambro, Giorgio Vale e Gilberto Cavallini. Mentre gli altri due se la cavano illesi, Carminati verrà ferito gravemente e perderà poi l'occhio sinistro e l'uso di una gamba.
Il 28 maggio 1982 viene rinviato a giudizio insieme ad altri 55 neofascisti del gruppo dei NAR a cui, il gruppo il giudice istruttore, contesta diversi capi di imputazione che vanno dalla strage alla rapina, all'omicidio, alla violazione della legge sulle armi, al danneggiamento doloso. Ad agosto di quell'anno viene però scarcerato per motivi di salute ma tornerà ben presto in carcere, il 6 ottobre, con altri 21 militanti neofascisti accusati di banda armata e associazione sovversiva.



I legami con la Banda della Magliana
Dopo gli anni della militanza politica e, successivamente, della commistione fra eversione politica e malavita comune, preferendo alla lotta ideologica obbiettivi legati all'utilità economica, Carminati finì per convogliare tutti i suoi sforzi nella criminalità organizzata che, in quella seconda metà degli anni settanta era contraddistinta, nella capitale, da una pressoché totale egemonia da parte della Banda della Magliana.
Già nel 1977, soprattutto frequentando il bar Subrizi in via Fermi o più spesso il bar di via Avicenna, nella zona di Ponte Marconi e ritrovo dei criminali della Banda della Magliana, Carminati entra in contatto con i boss Franco Giuseppucci e Danilo Abbruciati che, grazie anche alla sua fama di duro e per la sua spregiudicatezza ed il coraggio dimostrato nelle azioni, lo prendono sotto la loro ala protettiva sia per coinvolgerlo nelle proprie attività illecite che per la possibilità di ricercare un terreno comune di reciproco beneficio e di scambio di favori. Inizialmente alla base di questa cooperazione vi furono alcune attività di reinvestimento di proventi provenienti da rapine di autofinanziamento che gli estremisti effettuarono con Fioravanti e soci, in modo da poterli investire in altre operazioni illecite quali l'usura o lo spaccio di droga.
« Franco Giuseppucci era un accanito scommettitore e, per tale sua passione, frequentatore di ippodromi, sale corse e bische, ambienti nei quali non disdegnava di prestare soldi "a strozzo", dietro interessi aggirantisi attorno al 20-25 per cento mensili. Il denaro che riceveva dal Carminati, consentiva ai due di ripartire tra loro il provento degli interessi: al Carminati veniva corrisposta una "stecca" del 10-15 per cento. Dal momento che il denaro riciclato in tal modo veniva conteggiato sulla base di lire 10 milioni per volta, il Carminati, per ogni dieci milioni di lire veniva a percepire mensilmente dal Giuseppucci, da un milione ad un milione e mezzo di lire, fermo restando che Franco Giuseppucci garantiva la restituzione del capitale. Sempre Franco Giuseppucci aveva messo il Carminati in contatto con Santino Duci, titolare di una gioielleria in via dei Colli Portuensi, il quale ricettava i preziosi provento di rapine ad altre gioiellerie ed orefici, liquidando al Carminati il contante che questi, col metodo sopra specificato, riciclava e reinvestiva mediante lo stesso Giuseppucci. »
(Interrogatorio di Maurizio Abbatino del 3 dicembre 1992)
Per contro, Carminati e gli altri, si adoperarono in azioni di recupero crediti, danneggiamenti e di vero e proprio killeraggio, nei confronti di alcuni personaggi entrati in conflitto con gli affari della Magliana.
« I contatti avvennero in epoca precedente alla morte di Franco Anselmi. Successivamente essi furono mantenuti dal gruppo che faceva capo ad Alessandro Alibrandi, Massimo Carminati e Claudio Bracci (...) e ricordo, in particolare, che quelli della Magliana davano indicazione dei luoghi e persone da rapinare anche al fine di dare il corrispettivo di attività delittuose compiute per loro conto dagli stessi giovani di destra. Ricordo infatti che Alibrandi e gli altri due avevano la funzione di recuperare i crediti di quelli della Magliana e di eliminare alcune persone poco gradite. Tali persone da eliminare gravitavano nell'ambiente delle scommesse clandestine di cavalli: in particolare il Carminati mi disse, presumibilmente intorno al febbraio '81, di aver ucciso due persone: una di queste era stata "cementata" mentre l'altra era stata uccisa in una sala corse »
(Interrogatorio di Cristiano Fioravanti)
Secondo le rivelazioni del pentito Walter Sordi, ad esempio, nell'aprile del 1980 Carminati, Alibrandi e Claudio Bracci uccisero con tre colpi di pistola calibro 7,65 il tabaccaio romano Teodoro Pugliese, omicidio ordinato dalla Banda perché d'intralcio nel traffico di stupefacenti gestito da Giuseppucci.
« A uccidere Teodoro Pugliese sono stati Alessandro Alibrandi, Massimo Carminati e Claudio Bracci. Me l'ha raccontato proprio Alessandro, secondo il quale il delitto fu commesso per conto di Franco Giuseppucci, uno della banda della Magliana che era in stretti rapporti d'affari con loro, in particolare con Carminati. Entrarono in due, Alibrandi e Carminati, vestiti con degli impermeabili chiari, trovarono Pugliese e un'altra persona. Uno dei due chiese un pacchetto di sigarette, il tabaccaio si girò e loro spararono tre colpi di pistola, Alessandro mi ha detto che l'hanno colpito alla testa e al cuore. Poi sono saliti a bordo di una macchina, e durante la fuga hanno avuto un incidente, ma sono riusciti ad arrivare ugualmente al punto in cui si doveva fare il cambio auto. So che la pistola usata era una Colt Detective. »
(Interrogatorio di Walter Sordi da Ragazzi di malavita di Giovanni Bianconi)
Con il passare del tempo, poi, Carminati verrà affiliato definitivamente al gruppo criminale della Magliana e, durante questo periodo ottenne addirittura il controllo congiunto, per conto dei NAR, del deposito di armi della Banda nascosto negli scantinati del Ministero della Sanità, in Via Liszt, all'EUR e rinvenuto poi, dalla polizia nel corso di una perquisizione, il 25 novembre del 198].
« A Massimo Carminati venne consentito, in un secondo momento, di accedere liberamente al Ministero. La decisione di consentire l'accesso con maggiore libertà al Carminati, venne presa da me, nell'ottica di uno scambio di favori tra la banda e il suo gruppo. Le armi custodite nel deposito della Sanità appartenevano a tutte le componenti della banda, rispondeva pertanto unicamente a esigenze di sicurezza limitare alle persone che ho indicato il libero accesso al Ministero, anche per non creare dei problemi ulteriori all'Alesse. »
(Interrogatorio di Maurizio Abbatino del 3 dicembre 1992)

I processi e le condanne
Il lungo curriculum criminale di Carminati maturato all'ombra dei NAR e della Banda della Magliana, anche in virtù della sua figura di anello di congiunzione tra la criminalità romana ed i gruppi eversivi di estrema destra, fu oggetto di diversi processi nei confronti dell'estremista nero, alcuni dei quali riguardanti i misteri più controversi della Repubblica Italiana e da cui, Carminati, uscì praticamente quasi sempre indenne.
Successe nel caso del procedimento per l'omicidio del giornalista Mino Pecorelli o in quello per il tentativo di depistaggio legato alla strage alla stazione ferroviaria di Bologna in cui, in entrambi i casi, venne assolto per non aver commesso il fatto.
Stessa sorte nel processo per l'omicidio di Fausto e Iaio (Fausto Tinelli e Lorenzo Iannucci), i due militanti di sinistra assassinati a Milano, la sera del 18 marzo 1978, con 8 colpi di pistola. Con Carminati vennero indagati altri due neofascisti romani, Claudio Bracci e Mario Corsi per i quali, il 6 dicembre 2000, il Giudice delle Udienze preliminari del Tribunale di Milano, Clementina Forleo decretò l'archiviazione del procedimento a loro carico mettendo così la parola fine a un’inchiesta durata 22 anni e indirizzata, sin dall'inizio, negli ambienti dell'estremismo neofascista ma che, come recitano le conclusioni di quel documento: "pur in presenza dei significativi elementi indiziari a carico della destra eversiva ed in particolari degli attuali indagati, appare evidente allo stato la non superabilità in giudizio del limite appunto indiziario di questi elementi, e ciò soprattutto per la natura del reato delle pur rilevanti dichiarazioni."
Nel processo che, invece, vide alla sbarra l'intera Banda della Magliana, iniziato a Roma, il 3 ottobre del 1995 e in cui 69 appartenenti al clan furono chiamati a rispondere a reati quali traffico di sostanze stupefacenti, estorsioni, riciclaggio, omicidio, rapina e soprattutto associazione a delinquere di stampo mafioso, il pubblico ministero Andrea De Gasperis chiese, per Carminati, una pena pari a 25 anni di carcere. Istruito grazie alle rivelazioni del pentito Maurizio Abbatino che, la mattina del 16 aprile 1993, portarono in carcere boss, seconde linee e fiancheggiatori dell'organizzazione capitolina, nella maxi-operazione di polizia denominata "Colosseo", dopo due gradi di giudizio, il 27 febbraio 1998, Carminati venne condannato a 10 anni di reclusione.

Sviluppi recenti
Carminati è attualmente indagato per il furto al caveau della Banca di Roma interno al Palazzo di Giustizia di Piazzale Clodio, a Roma, avvenuto il 17 luglio del 1999 e compiuto da una banda composta da circa 23 persone, compresi i complici interni, che trafugarono da 147 cassette di sicurezza di "proprietà" di dipendenti del palazzo, oltre a 50 miliardi di lire, anche documenti riservati che sarebbero serviti per ricattare alcuni magistrati.
Nel maggio del 2012 Carminati è di nuovo tornato alla ribalta delle cronache nell'ambito dell'inchiesta sul calcioscommesse per il quale vennero indagati e arrestati alcuni calciatori italiani. Il suo nome è emerso nel corso delle indagini su Giuseppe Sculli, centrocampista del Genoa e nipote del boss Giuseppe Morabito, detto u tiradrittu e legato alla criminalità organizzata calabrese.





Il 2 dicembre 2014 viene arrestato insieme ad altre 27 persone con l'accusa di associazione a delinquere di stampo mafioso nell'ambito dell'inchiesta Mondo di Mezzo della procura di Roma riguardante le infiltrazioni della sua organizzazione mafiosa nel tessuto imprenditoriale, politico ed istituzionale della città, attraverso un sistema corruttivo finalizzato ad ottenere l’assegnazione di appalti e finanziamenti pubblici dal Comune e dalle aziende municipalizzate, con interessi anche nella gestione dei centri di accoglienza degli immigrati e nel finanziamento di cene e campagne elettorali (tra cui quella dell'ex sindaco Gianni Alemanno che figura tra gli indagati).







UPDATE: Processo Mafia Capitale, parla Carminati





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