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martedì 4 dicembre 2018

TONY CHICHIARELLI - Il Principe dei Falsari.

toni chicchiarelli

Tony Chichiarelli




1984 La morte

1984 sono le 3 di notte, in via Martini, quartiere Talenti, a due passi da viale Jonio, Chicchiarelli rincasa a bordo della sua Mercedes 190, insieme alla compagna ventunenne Cristina ed al figlioletto di appena un mese  sul sedile posteriore dell'auto.

Ha appena abbandonato una cena, ai commensali dice che il cappellano di Regina Coeli lo deve far entrare di nascosto per parlare con qualcuno.

Arrivato a casa un anonimo assassino attende che la compagna di Chichiarelli scenda dall'auto per aprire il portone di casa e le spara a bruciapelo un colpo con una pistola munita di silenziatore.

La pallottola trapassa un occhio della vittima ed esce dalla parte posteriore del cranio.

La donna viene raggiunta all'occhio sinistro, braccio ed avambraccio destro dai colpi d'una pistola calibro sei e trentacinque e s'accascia priva di conoscenza accanto allo sportello aperto della Mercedes 190.

Chichiarelli allora scende di corsa dall'auto all'inseguimento dell'assassino, ma questi ad un certo punto si volta e gli scarica addosso l'intero caricatore della pistola: prima lo colpisce due volte al torace, Chichiarelli fugge ma il killer lo raggiunge nell'attigua via Landini e lo finisce con due colpi alla testa.

Al rumore degli spari, due metronotte, si precipitano fuori e si danno all'inseguimento dello sparatore, un giovane"di piccola statura, poco più d' un metro e sessanta, con indosso calzoni jeans ed un giubbetto forse di colore verde".

La ragazza si salva, ma Chichiarelli muore, a trentasei anni, alle sette del mattino, senza avere ripreso conoscenza.

Muore dopo alcune ore all'ospedale, nella prima mattina del 28 settembre; lo sparatore che lo ha centrato con sette colpi su dieci, un vero professionista ingaggiato da ignoti era l'esecutore di un tipico "regolamento di conti".

Il primo mistero di quest'omicidio riguarda l'identità del vero bersaglio dell'agguato. Sembra probabile che non fosse Chichiarelli il vero obiettivo, ma la sua compagna.

Un'intimidazione che ebbe un esito non previsto: l'assassino spara a Chichiarelli solo dopo che questi aveva iniziato ad inseguirlo.

La tipologia dell'agguato, inoltre, sembrerebbe esser riconducibile sia ad un regolamento di conti tra malavitosi, che ad un'intimidazione tipica della guerra di spie.

A parte la dinamica dell'omicidio, anche la mancata autopsia sul cadavere non permise di appurare dati assai importanti concernenti il calibro dei proiettili.

Ma i misteri più fitti emersero in seguito alla morte del falsario.

A casa di Tony vengono reperite due rivoltelle calibro 38 special con matricola abrasa e, dentro un contenitore di pellicole fotografiche, un cartoccetto di polvere bianca.

All'interno della cassaforte giacciono 37 milioni in contanti, gioielli e oggetti di grande valore ed una videocassetta.

Vi era registrato lo "Speciale Tg1" sulla rapina alla Brink' s Securmark di soli sei mesi prima.

Vennero pure trovate delle fotografie "Polaroid". In esse era ritratto Aldo Moro vivo nella "Prigione del Popolo" brigatista.

La vita

Danilo Abbruciati
Antonio Giuseppe Chichiarelli, soprannominato Tony, nasce il 16 gennaio 1948 a Rosciolo, frazione di Magliano dei Marsi (AQ), un paese dell'Abruzzo arroccato sugli Appennini.

Nel 1951 rimane orfano di madre, dopo le medie, nel 1962 lascia la scuola dove l'unica passione è per il dipinto.

Nel 1968/1969 espletò il servizio di leva nel corpo degli Alpini. Una volta congedatosi, partì per Roma.

Nel 1970 fu arrestato dalle Forze dell'Ordine per possesso di pistole e mitra, ma venne rilasciato quasi immediatamente.

I primi anni nella capitale furono anni difficili furti, scippi, truffe e ricettazione gli consentirono di avere auto, moto e donne, ma anche i primi guai con la legge, venendo arrestato due volte.

Inoltre, nel 1976, simpatizzando per l'estrema sinistra gravitò nell'ambito dell'Autonomia capitolina.

Nel corso della seconda carcerazione, a Regina Coeli, divenne molto amico di uno dei futuri capi della Banda della Magliana, Danilo Abbruciati, implicato nello spaccio di droga e nel giro delle rapine, e con contatti con l'estremismo di destra e con la Mafia.


La banda della Magliana

Tramite Abbruciati, Tony fece la conoscenza con il rappresentante di Cosa Nostra nella capitale, Pippo Calò, e col Clan dei marsigliesi, che – a quel tempo – si dividevano il mercato della droga nella capitale.

Anche Flavio Carboni ed agenti dei servizi segreti erano in contatto con Abbruciati e per suo tramite con Chichiarelli.

Pippo Calò
Nel corso del 1977 incontrò Chiara Zossolo, che possedeva una galleria d'arte a Trastevere e che lo introdusse nel mercato dell'arte, in cui cominciò a realizzare e vendere Falsi d'autore.

In quell'anno aprì un negozio di mobili ed attrezzature per l'ufficio: proprio dal suo negozio uscì la macchina da scrivere con cui fu redatto il falso comunicato n. 7 delle Brigate Rosse durante il rapimento di Aldo Moro.

Nel gennaio del 1978, Tony prese in affitto, per una cifra allora assai elevata (950.000 lire mensili) una lussuosa villa in Viale Sudafrica, nell'esclusivo quartiere dell'EUR, dove andò a vivere con Chiara, che di lì a poco divenne sua moglie.

Nonostante le sue simpatie politiche per la sinistra extraparlamentare, Tony, in qualità di componente della Banda della Magliana (legata a filo doppio con i NAR), non esitò a frequentare terroristi di stampo neofascista quali Francesca Mambro e suo marito Giuseppe Valerio Fioravanti, Alessandro Alibrandi, Massimo Sparti, Massimo Carminati ed altri esponenti di spicco dell'eversione di destra. Tramite la moglie, Tony fece pure la conoscenza di un trafficante di materiale tecnologico con la Libia, nonché informatore dei Carabinieri, tal Luciano Dal Bello.

Dal Bello, divenuto amico di Tony, stilò un rapporto su di lui, mettendolo nel contempo in contatto con elementi del tentato Golpe Borghese, soprattutto con un informatore della Polizia, tal Giacomo Comacchio.

1978 il caso Moro

I cinque processi del Caso Moro hanno accertato che fu lui a confezionare il falso comunicato numero sette delle Brigate Rosse ("Il comunicato del Lago della Duchessa", fingendo che fosse stato composto dalle Brigate Rosse) durante i 55 giorni del sequestro, ma non venne mai accertato chi fu a commissionarglielo.

Tony fu certamente a conoscenza dei tentativi di giungere a una conclusione positiva del rapimento di Moro: lo Stato incaricò i Servizi Segreti nella persona di Enzo Casillo di trattare con Raffaele Cutolo quale intermediario per giungere alla prigione di Moro grazie all'aiuto della Banda della Magliana e, forse, fu a conoscenza dell'informazione data ad un altro esponente dei Servizi Segreti, Antonio La Bruna, circa l'esatta localizzazione del covo brigatista di Via Gradoli.

Aldo Moro
Martedì 18 aprile 1978 alle ore 09.25 a.m., alla redazione de Il Messaggero, una telefonata anonima annuncia che in un cestino di rifiuti di piazza Gioacchino Belli a Roma è nascosta una copia del comunicato n. 7 delle Brigate Rosse.

È una fotocopia di un comunicato numero 7 che annuncia l'avvenuta esecuzione di Moro, il cui corpo si troverebbe nel lago della Duchessa. I Brigatisti generalmente lasciano dei ciclostilati.

Il messaggio si presenta subito con caratteristiche completamente diverse dai precedenti: è molto breve, ironico e ha al suo interno diversi errori di ortografia.

Non ci sono gli immancabili slogan conclusivi, l'intestazione "Brigate rosse" è scritta a mano. Nonostante ciò la relazione degli esperti garantisce l'autenticità del comunicato.

L'Italia conosce il dramma della avvenuta esecuzione, e apprende che "il corpo del Presidente è nei fondali del Lago della Duchessa", in Abruzzo.

L'autore di quel falso è Tony Chichiarelli, che ne parla agli amici nel suo piccolo laboratorio dove continua a riprodurre qualunque cosa, soprattutto i suoi quadri.

Chi gli ha commissionato il falso comunicato aveva certamente uno scopo che appare ancor oggi ignoto e neppure è dato conoscere quale fosse il messaggio trasversale che tale comunicato volesse lanciare.

Chichiarelli era stato pure l'artefice di altri documenti e materiali di provenienza apparentemente brigatista, ma in realtà apocrifi, fatti ritrovare a Roma in quattro occasioni diverse, tutte successive alla conclusione della vicenda Moro: la prima delle quali il 20 maggio 1978, altre due nel 1979, e l'ultima il 17 novembre 1980. 

Falso comunicato N° 7:


«Oggi 18 aprile 1978, si conclude il periodo "dittatoriale" della DC che per ben trent'anni ha tristemente dominato con la logica del sopruso. In concomitanza con questa data comunichiamo l'avvenuta esecuzione del presidente della DC Aldo Moro, mediante "suicidio".

Consentiamo il recupero della salma, fornendo l'esatto luogo ove egli giace.

La salma di Aldo Moro è immersa nei fondali limacciosi (ecco perché si dichiarava impantanato) del lago Duchessa, alt. mt. 1800 circa località Cartore (RI) zona confinante tra Abruzzo e Lazio.

È soltanto l'inizio di una lunga serie di "suicidi": il "suicidio non deve essere soltanto una "prerogativa" del gruppo Baader Meinhof.


Inizino a tremare per le loro malefatte i vari Cossiga, Andreotti, Taviani e tutti coloro i quali sostengono il regime. P.S. - Rammentiamo ai vari Sossi, Barbaro, Corsi, ecc. che sono sempre sottoposti a libertà "vigilata". 18/4/1978 Per il Comunismo Brigate Rosse'.»

Pecorelli

Carmine Pecorelli fu il direttore di un'agenzia di stampa specializzata nella divulgazione degli scandali politici durante gli anni settanta, Osservatorio Politico (OP).

La sera del 20 marzo 1979 fu ucciso all'interno della sua automobile, nel quartiere Prati di Roma, in via Tacito, poco lontano dalla redazione del suo giornale, con quattro colpi di una pistola calibro 7,65.
I proiettili trovati nel suo corpo sono molto particolari, della marca Gevelot, assai rari sul mercato, anche clandestino, ma dello stesso tipo di quelli che sarebbero poi stati trovati nell'arsenale della Banda della Magliana nascosto nei sotterranei del Ministero della sanità, arsenale a cui attingevano pure i terroristi neofascisti dei NAR.

Omicidio Pecorelli
Chichiarelli fu l'uomo che qualche tempo dopo il delitto Pecorelli confezionò e fece trovare in un taxi romano una serie di false "schede brigatiste" a carico di personaggi pubblici, insieme a oggetti che riportavano ai misteri del sequestro Moro (come una testina rotante IBM da macchina per scrivere, simile a quella usata per stilare i comunicati dei terroristi).

Circa un anno dopo l’uccisione di Aldo Moro, il 14 aprile del 1979, tre ragazzi americani trovano, sul sedile posteriore di un taxi, un borsello da uomo e lo consegnano al comandante del reparto operativo dei Carabinieri di Roma, colonnello Antonio Cornacchia.

Il borsello, contiene una pistola con la matricola abrasa, undici munizioni calibro 7,65 e una di grosso calibro (Moro era stato assassinato con dodici colpi di arma da fuoco, di cui undici di piccolo ed uno di grosso calibro), una testina rotante per macchina da scrivere marca IBM, la stessa usata dalle BR nei vari comunicati diramati durante il sequestro, un mazzo contenete nove chiavi, nove come il numero dei membri del commando che rapì Moro e uccise la sua scorta, due flash marca Silvana, come quelli usati nelle uniche due foto polaroid scattate durante il sequestro, un pacchetto di fazzoletti marca Paloma, come quelli usati per tamponare le ferite di Moro e ritrovati sul suo cadavere, una carta stradale con indicato il Lago della Duchessa, una bustina contenente delle pillole come quelle che i medici avevano prescritto a Moro, delle pagine dell’elenco del telefono relative ad alcuni ministeri, con su scritte le cifre di un codice numerico, analogo a quello usato nel comunicato in codice numero uno, e quattro schede di cui la prima contenente un piano per l’eliminazione delle guardie del corpo del presidente della Camera Pietro Ingrao, un’altra riguardante il piano per l’eliminazione del procuratore della Repubblica di Roma Achille Gallucci, incluso il numero di telefono di casa della vittima risalente agli anni sessanta, la terza indicante il piano per il rapimento del presidente dell’ordine degli avvocati di Roma Giuseppe Prisco di Milano, ed in ultimo un piano per l’eliminazione del giornalista Mino Pecorelli, ucciso il 20 marzo 1979, 25 giorni prima del ritrovamento del borsello.

Nella scheda relativa a Pecorelli oltre alla scritta “da eliminare”era annotato l’indirizzo della sua abitazione, il tipo ed il colore della sua auto, inclusa la targa.

Nella scheda veniva anche specificato di agire entro e non oltre il 24 marzo, aggiungendo che l’avergli concesso ulteriore tempo avrebbe creato altri problemi.
Si specificava inoltre di non rivendicare assolutamente l’omicidio, ma al contrario veniva sottolineata l’esigenza di depistare.

In fondo alla scheda compariva la scritta: “Martedì 20 ore 21:40 giunta notizia operazione conclusa positivamente: recuperato materiale non completo, sprovvisto dei paragrafi 162, 168, 174, 177”.

Probabilmente i paragrafi a cui si fa riferimento sono quelli del memoriale scritto da Aldo Moro durante i 55 giorni di prigionia, in possesso delle BR, di cui risulta ne avessero fatto anche una fotocopia.
Come sappiamo il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, su indicazione di Giulio Andreotti, aveva fatto in modo attraverso un suo uomo di fare sparire il memoriale dal covo di via Montalcini a Roma prima dell’arrivo dei magistrati.

Secondo la testimonianza dei pentiti della Banda della Magliana, Chichiarelli aveva affermato di esser deluso per la magra ricompensa ai suoi servizi resi durante la prigionia di Moro.

Chiara Zossolo riferì alla Corte perugina un suo ricordo del 1981: al Senato era in corso la polemica sulla famosa cena al ristorante "la Famjia piemonteisa", nel corso del quale il senatore Claudio Vitalone e altri personaggi dell'entourage andreottiano avevano offerto soldi a Pecorelli perché cessasse di attaccare Andreotti sul suo giornale, "OP".

Commentando quel fatto, Chichiarelli spiegò di conoscere il vero motivo della morte del giornalista: "Pecorelli - disse l'uomo alla moglie - è stato ucciso perché aveva appurato delle cose sul sequestro Moro: era un brav'uomo e non meritava purtroppo di morire".

A rendere ancora più pesante questo riscontro è una seconda deposizione, resa dalla testimone Franca Mangiavacca, segretaria e ultima compagna di Pecorelli.

La signora Mangiavacca ha infatti riconosciuto, in mezzo a decine di fotografie, quella di Chichiarelli.

È lui l'uomo che ha pedinato lei e Pecorelli nei giorni precedenti all'omicidio del giornalista.

Riassumendo, i giudici hanno stabilito con sufficiente certezza che Chichiarelli, poi a sua volta assassinato, partecipò alla fase di preparazione del delitto Pecorelli.

Chichiarelli dice alla moglie di conoscere il motivo per cui il giornalista è stato ucciso, e questo motivo è lo stesso indicato molti anni dopo da Buscetta.

Da qualche altra menzione, infine, sembra accertato che Chichiarelli fosse a conoscenza della fine di Mauro De Mauro, da mettersi in relazione col fallito Golpe Borghese e dal fatto che, ad organizzare quel tentativo di putsch, fossero stati i servizi segreti, come - peraltro - indica anche il colonnello Amos Spiazzi.

L'indagine aperta all'indomani del delitto Pecorelli coinvolse nomi come Massimo Carminati (esponente dei Nuclei Armati Rivoluzionari e della Banda della Magliana), Licio Gelli, Antonio Viezzer, Cristiano e Valerio Fioravanti, tutti poi prosciolti il 15 novembre 1991.

Secondo le rivelazioni di Buscetta, dal "caso Pecorelli" si passa al caso del cosiddetto memoriale Moro nelle due versioni: quella "censurata", trovata nel 1978, e quella integrale rinvenuta soltanto nel 1990.

È probabile, secondo i magistrati, che il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa abbia avuto tra le mani, fin dal 1978, la versione integrale.

Ed è altrettanto probabile che Dalla Chiesa e Pecorelli si siano incontrati almeno due volte dopo il rinvenimento del primo memoriale.

Dalla Chiesa
Terza cosa - certa - è che Pecorelli sapeva bene che il memoriale pubblicato dai giornali è monco:
"La lettura del testo del memoriale Moro - scrive su "OP" Pecorelli il 24 ottobre 1978, due settimane dopo il ritrovamento da parte degli uomini di dalla Chiesa - ha già sollevato dubbi sulla sua integrità. Esiste infine un altro memoriale in cui Moro sveli importanti segreti di Stato?".


Articoli sgraditi anche perché nei successivi numeri di "OP" Pecorelli comincia a pubblicare notizie e documenti esclusivi proprio su quegli argomenti - scandalo Italcasse, caso Sindona, riferimenti velati all'operazione Gladio - che sono contenuti nel memoriale integrale, quello che diventerà pubblico solo nel 1990. Ancora poco chiaro è il nome di colui che passò a Pecorelli queste notizie.

Come ignoto è il nominativo di colui che passò a Pecorelli la notizia, in anteprima, che il messaggio del Lago della Duchessa fosse un falso creato ad arte.

1984 La rapina del secolo

La sede romana della Brink's Securmark, società di trasporto valori, si trova al chilometro 9.600 della statale Aurelia. Negli anni settanta, uno degli azionisti della società era il bancarottiere Michele Sindona.

A posteriori, in tribunale, la moglie Chiara Zossolo indicherà che fu Tony a progettare una delle più grandi rapine avvenute in Italia, quella dei 35 miliardi di lire sottratti nel caveau della Brink's Securmark.

Un colpo magistrale, addirittura fin troppo facile, a detta degli inquirenti. Non è certo che Tony avesse cooperato con gli altri colleghi della Banda della Magliana.


identikit rapinatori  della briks a destra Chichiarelli


Pare che gli altri appartenenti alla banda non parlassero con un accento romano (tipico dei membri della Banda della Magliana), bensì piemontese.

Appare certo che esistessero almeno un paio di basisti appartenenti all'istituto vittima del furto, un dipendente ed un ex-dipendente.

Michel Sindona
Inoltre, le indagini hanno appurato che Chichiarelli avesse compiuto un sopralluogo qualche settimana prima del fatto addirittura entro il perimetro della banca, dopo l'orario di chiusura.

Circa la banca, Chichiarelli conosceva la planimetria in modo dettagliato, così come i turni di sorveglianza ed i nominativi delle guardie.

Per la riuscita del colpo, inoltre, aveva utilizzato un furgone in tutto simile a quello di proprietà della banca, di cui conosceva accuratamente e specificamente ogni movimento.

La Brink's Securmark non era propriamente una banca, bensì si trattava di un deposito che faceva capo a una catena bancaria di Michele Sindona.

La sera del 23 marzo 1984, un sabato, quattro uomini con il volto coperto da maschere, prelevano, verso l'ora di chiusura, una delle guardie giurate, Franco Parsi, al momento di rincasare.

Il custode avrebbe dovuto iniziare il nuovo turno soltanto la mattina di lunedì 25 marzo, due giorni dopo.

Lo condussero a casa, dicendo a lui ed ai famigliari di essere un commando delle Brigate Rosse.

Lo tennero in ostaggio fino all'alba della mattina successiva insieme alla moglie, alla suocera ed ai figli.

Poi uno dei rapinatori rimase nell'abitazione per tenere a bada i familiari, virtualmente degli ostaggi veri e propri, mentre gli altri tre condussero la guardia giurata, che aveva le chiavi, al caveau della banca, dove disarmarono altri due agenti e senza sparare un colpo portarono via denaro liquido, traveller's cheque, oro e preziosi per una cifra astronomica, che fu stimata intorno a 35-37 miliardi (stima fatta dalla banca stessa, che stanziò due miliardi di ricompensa a chi avesse fornito informazioni utili al recupero della refurtiva).

Chichiarelli, invece, parlò alla compagna di almeno 50-55 miliardi, di cui due dati ai basisti ed altri venti ceduti ai complici con cui aveva condotto in porto l'impresa.

In pratica, almeno 30 miliardi erano tutti per il solo Chichiarelli.

Non fu una rapina qualsiasi: sul bancone gli ignoti lasciarono una serie di oggetti che stavano simbolicamente a rappresentare il vero significato dell'impresa.

Una granata Energa, sette proiettili calibro 7,62, sette piccole catene e sette chiavi. La bomba Energa era dello stesso tipo usata durante l'agguato al colonnello Varisco (il tenente colonnello Antonio Varisco, comandante del nucleo dei carabinieri del Tribunale di Roma, venne ucciso dalle Brigate Rosse il 13 luglio 1979) e proveniva dall'armeria di via List.

Le sette chiavi e le sette catene furono lette come un chiaro riferimento al falso comunicato delle Brigate Rosse sul lago della Duchessa, mentre i sette proiettili calibro 7,62 riportano all'omicidio di Mino Pecorelli, e c'erano anche le cinque schede, identiche a quelle ritrovate dentro il borsello abbandonato nel taxi da Tony Chichiarelli all'epoca dell'omicidio del giornalista: gli oggetti lasciati intenzionalmente sul luogo della rapina facevano così affiorare lo stretto collegamento tra la fine del direttore di OP e il rapimento e la morte di Aldo Moro.

Furono lasciati anche falsi volantini di rivendicazione brigatista della rapina e le immancabili foto Polaroid scattate ai guardiani legati con, sullo sfondo, il drappo raffigurante la stella, emblema del gruppo terroristico.

A differenza di quanto avvenne per il falso comunicato del Lago della Duchessa, in questa occasione gli specialisti riconobbero immediatamente come falsi sia i volantini di rivendicazione, che le fotografie.

Dopo la rapina miliardaria alla Brink's Securmark del 1984, nella quale pare fosse il capo del commando, Chichiarelli iniziò ad investire il frutto della rapina nel mercato immobiliare ed in quello degli stupefacenti.

Egli venne ucciso sei mesi più tardi, a fine settembre di quell'anno, in circostanze mai chiarite.




Le varie ipotesi sul suo omicidio


  • Una vendetta della malavita per il florido commercio di stupefacenti nel frattempo avviato dal falsario.
  • Un regolamento di conti all'interno della malavita (la banca rapinata era collegata all'impero di Michele Sindona).
  • Una "eliminazione preventiva" ad opera dei servizi segreti, essendo il Chichiarelli un personaggio poco discreto, come accertato in aula giudiziaria dalle testimonianza della moglie, della compagna e dei conoscenti.
  • Uno sgarro ai suoi compagni della Banda della Magliana nel caso la rapina fosse stata compiuta da esponenti non appartenenti alla banda stessa, oppure, qualora i proventi della rapina non fossero stati divisi con gli appartenenti alla banda medesima, in base al patto di sangue che legava i componenti dell'associazione criminale.
  • Una eliminazione volta allo scopo di recuperare i documenti compromettenti stipati nel caveau della Brink's Securmark, tra i quali le famose polaroid che ritraevano Aldo Moro vivo nel carcere brigatista: al processo infatti fu avanzata l'ipotesi che il falsario rapinatore non avesse rispettato i patti coi servizi segreti, intenti a recuperare quello scottante materiale, alla base, fu detto, del vero movente della rapina stessa.
Sull'ultimo punto da sottolineare come i complici di Chichiarelli dichiareranno che sembrava più interessato ai documenti che ai soldi.




Luigi Cipriani, Intervento in Commissione stragi sull'affare Moro 15 aprile 1992. 
Allegato alla relazione finale del gruppo sui ritrovamenti di via Montenevoso.


"Signor presidente, concordo con la relazione presentata dal gruppo di lavoro sul caso Moro.

Vorrei però che fossero allegate alcune integrazioni su elementi accennati nella relazione, ma che sono a mio avviso molto importanti, per cui andrebbero ulteriormente ampliati.

Uno di questi riguarda la vicenda Toni Chichiarelli. Toni Chichiarelli è un personaggio romano legato alla banda della Magliana, con tutto ciò che ne consegue: conosciamo infatti i collegamenti della banda della Magliana con la mafia, con la destra eversiva, con i servizi segreti. Toni Chichiarelli era in contatto con un informatore, un agente del Sisde, tale Dal Bello, un personaggio di crocevia tra la malavita romana in collegamento con i servizi segreti e la banda della Magliana.

Toni Chichiarelli interviene nella vicenda Moro dimostrando di essere un personaggio assai addentro alla vicenda stessa (questo è quanto scrive il giudice Monastero che ha condotto l'istruttoria sull'assassinio di Toni Chichiarelli), come dimostrano due episodi.

Il primo, che è stato chiarito, è il seguente: Toni Chichiarelli è l'autore del comunicato n.7, il falso comunicato del Lago della Duchessa; ed è anche l'autore del comunicato n.1 in codice, firmato Brigate rosse-cellula Roma sud.

Toni Chichiarelli fece trovare un borsello sul taxi; all'interno di questo borsello erano contenuti alcuni oggetti che facevano capire che lui conosceva dal di dentro la vicenda Moro.

Fece trovare infatti nove proiettili calibro 7,65 Nato, una pistola Beretta calibro 9 (e si sa che Moro è stato ucciso da undici colpi, dieci di calibro 7,65 e uno di calibro nove); fece trovare dei fazzolettini di carta marca Paloma, gli stessi che furono trovati sul cadavere di Moro per tamponare le ferite; fece trovare quindi una serie di messaggi in codice, e una serie di indirizzi romani sottolineati; fece trovare dei medicinali e anche un pacchetto di sigarette, quelle che normalmente fumava l'onorevole Moro; inoltre un messaggio con le copie di schede di cui farà ritrovare poi l'originale in un secondo episodio.

Vi è un secondo aspetto.

Dopo la rapina della Securmark, ad opera della banda della Magliana con Toni Chichiarelli come mente direttiva, quest'ultimo fa trovare -lo scrive il giudice Monastero- una busta contenente un altro messaggio con gli originali di quattro schede riguardanti Ingrao ed altri personaggi.

Questa volta, come dicevo, ci sono gli originali: si tratta di schede relative ad azioni che erano state programmate e previste; fa trovare però anche un volantino falso di rivendicazione delle Brigate rosse.

Il giudice poi scrive: "Si rinveniva una foto Polaroid dell'onorevole Moro apparentemente scattata durante il sequestro".

Viene eseguita una perizia di questa foto, e si rileva che non si tratta di un fotomontaggio.

Come sappiamo, delle Polaroid non si fanno i negativi; è quindi una foto originale di Moro in prigione che Chichiarelli, dopo l'episodio del borsello, fa ritrovare in questo secondo messaggio, con le schede originali che riguardano Pietro Ingrao, Gallucci, il giornalista Mino Pecorelli, che sarà in seguito ucciso, e l'avvocato Prisco. 

Sulla scheda riguardante l'avvocato Prisco si parlava di questo famoso gruppo Mauro. Anche nel documento della registrazione che il Sisde ha fatto avere ai magistrati, si parla del gruppo Mauro che operava nella zona di Fiumicino e avrebbe dovuto avere in sequestro l'onorevole Moro.

In sostanza emerge il famoso elemento di cui si è sempre parlato, ossia come la gestione del rapimento Moro abbia avuto due fasi; e la seconda fase è confluita nel ruolo giocato dalla banda della Magliana, all'interno della quale conosciamo la parte che hanno sempre svolto i servizi segreti e la mafia.

La vicenda Chichiarelli è quindi centrale all'interno del sequestro Moro, ma i magistrati non l'hanno mai approfondita, sia perché nel Moro-quater si è prestato fede a tutto quello che ha detto Morucci e non si è quindi voluti entrare nel merito di altri aspetti, sia perché il giudice Monastero ha dovuto archiviare ed ha lasciato in sospeso tutte queste parti, perché non erano di sua competenza.

Tuttavia, egli ha fatto delle affermazioni molto precise sul ruolo svolto da Toni Chichiarelli all'interno della vicenda Moro. Vorrei perciò che quanto ho detto fosse allegato alla relazione, perché ritengo che sviluppando questa tematica si capirà molto meglio cosa è accaduto nel rapimento Moro.




venerdì 24 aprile 2015

FRANCESCO DI CARLO

roberto calvi

Francesco Di Carlo (Altofonte, 18 febbraio 1941) ex Cosa Nostra diventato collaboratore di giustizia nel 1996; è entrato in relazione con la famiglia mafiosa di Altofonte negli anni 60.
Divenne capo famiglia a metà degli anni 1970. Altofonte era parte del mandamento di San Giuseppe Jato, guidato da Antonio Salamone e Bernardo Brusca. Secondo il pentito Giuseppe Marchese, Di Carlo era un mafioso influente e un trafficante di droga connesso con i Corleonesi.
Il 24 aprile 2014 è apparso, a volto coperto, per la prima volta in televisione, intervistato a Servizio Pubblico Più da Sandro Ruotolo sui rapporti con Silvio Berlusconi e Marcello Dell'Utri.
Di Carlo è stato espulso da Cosa Nostra per un conflitto riguardo ad un carico di eroina perduto o una consegna di hashish non pagata. Grazie ai suoi utili servizi alla mafia non è stato ucciso, ma ha dovuto lasciare l'Italia. Si è trasferito a Londra. Suo fratello Andrea Di Carlo lo sostituì a capo della famiglia mafiosa e divenne un membro della Commissione.
Secondo Di Carlo è stato espulso nel 1982 perché si era rifiutato di tradire alcuni membri del clan Cuntrera-Caruana (Pasquale Cuntrera e Alfonso Caruana) durante la guerra di mafia nella provincia di Agrigento.

Traffico di droga

Nel Regno Unito Di Carlo ha trafficato hashish ed eroina. Ha comprato una villa a Woking, Surrey, e si è alleato ad Alfonso Caruana. Ha comprato un hotel, agenzie di viaggio e compagnie import-export per agevolare il contrabbando.
Nel giugno del 1985 la polizia trovò 58 chili di eroina in una consegna. Venne arrestato insieme ad altre tre persone. Nel marzo del 1987 è stato condannato a 25 anni di prigione per traffico di eroina. Il fratello di Alfonso Caruana, Gerlando Caruana venne condannato in Canada.

Il pentimento
Nel giugno del 1996 Di Carlo decise di collaborare con le autorità italiane. Venne trasferito dalla sua prigione del Regno Unito a Roma. Venne considerato come il "nuovo Tommaso Buscetta". Di Carlo fece i nomi di molti politici come membri di Cosa Nostra, tra gli altri: Bernardo Mattarella, il precedente presidente della Sicilia Giovanni Provenzano e Giovanni Musotto, padre di Francesco Musotto, il precedente presidente della provincia di Palermo che era stato accusato di associazione mafiosa.
Testimoniò anche a proposito dell'omicidio del giornalista Mauro De Mauro, che era stato rapito e ucciso dalla mafia nel 1970. Nel 2001 disse che era stato ucciso perché aveva appreso che uno dei suoi vecchi amici, il principe Junio Valerio Borghese, stava pianificando un colpo di Stato (il cosiddetto Golpe Borghese ) per fermare quella che era considerata la svolta a sinistra dell'Italia.


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Coinvolgimento nell'omicidio di Roberto Calvi
Nel luglio del 1991 il pentito Francesco Marino Mannoia affermò che Di Carlo aveva ucciso Roberto Calvi, soprannominato "il banchiere di Dio" per il suo incarico al Banco Ambrosiano. Calvi sarebbe stato ucciso perché avrebbe perso i fondi della mafia quando il Banco Ambrosiano era collassato. L'ordine di uccidere Calvi sarebbe provenuto dal boss mafioso Giuseppe Calò.
Quando Di Carlo divenne un testimone nel giugno del 1996 negò di essere l'assassino, ma ammise che Calò gli aveva chiesto di uccidere Calvi. Comunque, Di Carlo non poteva essere raggiunto in tempo, e quando successivamente chiamò Calò, quest'ultimo gli disse che si erano già organizzati diversamente. Secondo Di Carlo, gli assassini erano Vincenzo Casillo e Sergio Vaccari, che apparteneva alla Camorra di Napoli ed era stato ucciso.




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mercoledì 22 gennaio 2014

ENRICO MATTEI


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« Se in questo paese sappiamo fare le automobili, dobbiamo saper fare anche la benzina »
(Enrico Mattei a Vittorio Valletta)



Enrico Mattei nacque ad Acqualagna, piccolo paese della provincia di Pesaro-Urbino, il 29 aprile 1906 in una famiglia modestavisto che nell'età giovanile non sembrava ottenere risultati positivi, né dimostrare costanza negli studi, fu avviato all'attività lavorativa dal padre, che lo fece assumere quale apprendista in una fabbrica di letti metallici in provincia di Macerata, dove la famiglia si era trasferita nel 1919; qui avvenne il suo primo contatto con i prodotti chimici, in particolare vernici e solventi. Nel 2007 è stata ritrovata la tessera di adesione al partito fascista (1922). In merito alla supposta sua condivisione del fascismo, Indro Montanelli (che ne fu critico severo) affermò che «l'ambizione di questo self-made man lo portava senza scampo a compromissioni con il regime al potere». Iniziò a soli vent'anni la carriera dirigenziale in una piccola azienda in cui era entrato quale operaio, si trasferì successivamente a Milano dove inizialmente svolse l'attività di agente di commercio, sempre nel settore chimico e delle vernici (lavorando come venditore alla Max Meyer). A trent'anni, avviò una propria attività nel settore chimico, con la quale riscosse un certo successo sino a divenire fornitore delle Forze Armate. Nel 1936 sposò la ballerina austriaca Margherita Paulas. 

Mattei partigiano
Durante la seconda guerra mondiale partecipò alla Resistenza come partigiano, tra i cosiddetti "bianchi" (area politica cattolica), dimostrandosi subito un valido condottiero e un buon diplomatico; a latere resta il giudizio di Luigi Longo, del quale divenne amico personale: «Sa utilizzare benissimo le sue relazioni con industriali e preti», essendo l'uomo di riferimento della Democrazia Cristiana nel CLN; in tale attività consolidò le sue amicizie con altri partigiani che rimasero per lui persone di riferimento nell'ambito della politica; in seguito, proprio fra i suoi compagni di Resistenza avrebbe cercato, da presidente dell'Eni, gli uomini fidati cui affidare la sua sicurezza personale.Andati vani alcuni tentativi di approccio, alla fine del 1942, con le organizzazioni clandestine antifasciste (per le quali la passata simpatia per il fascismo costituiva un'ovvia ragione di diffidenza), entrò nella Resistenza nel 1943 con una lettera di presentazione di Boldrini che lo fece ricevere a Roma da Giuseppe Spataro, che stava provando a riorganizzare il Partito Popolare dopo la stesura del cosiddetto «Codice di Camaldoli». Spataro lo accreditò presso i popolari milanesi e dopo l'armistizio di Cassibile (reso pubblico l'8 settembre 1943), Mattei cominciò a operare nelle Marche per il CLN. Alla formazione conferì inizialmente un apporto di natura logistica e organizzativa, procurando armi, vettovaglie e viveri, medicine, e altri generi utili; riuscì inoltre a intessere una rete informativa, nella quale coinvolse anche diversi parroci, grazie alla quale si procacciava informazioni "fresche" sugli spostamenti del nemico. Non appena la sua attività cominciò a destare attenzione, assunse il nome di battaglia di "Marconi" e quando le SS cominciarono a interessarsi più da vicino alla sua persona, perquisendogli la casa di Matelica, Mattei tornò a Milano dove - dopo un periodo di quiete - si mise a capo di una formazione operante nell'Oltrepò Pavese.Arruolò un numero rilevante di volontari (più di quarantamila al 25 aprile del 1945) e condusse diverse azioni militari, di tanto in tanto rientrando a Milano, dove Boldrini nel frattempo era preso dalla costruzione della nascente Democrazia Cristiana insieme a Giuseppe Dossetti, Amintore Fanfani, Ezio Vanoni, Augusto De Gasperi (fratello di Alcide), Orio Giacchi, Enrico Falck (della omonima famiglia di industriali) e altri futuri esponenti della DC.Nel 1944 Mattei fu chiamato a rappresentare le formazioni partigiane cattoliche nella Segreteria per l'Altitalia della nascente DC di De Gasperi e Gronchi; raccontò Giacchi che Mattei gli si sarebbe presentato autocandidandosi o forse imponendosi come candidato («Sono italiano, ma anche cattolico, vorrei menar le mani in uno schieramento cattolico»). Divenne così un dirigente del partito.Nel frattempo ottenne il diploma di ragioneria e si iscrisse insieme al fratello a Scienze politiche all'Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano. Poco dopo divenne, su investitura di Giacchi, il rappresentante della DC presso il ramo militare del CLNAI. Divenne anche il capo militare delle bande partigiane cattoliche e come tale si fece mediatore, ponendo in contatto le formazioni partigiane anche non cattoliche e il clero. Con Falck si diede alla raccolta di fondi e i due ebbero un discreto successo nell'attività, tanto che Mattei fu incaricato anche di amministrarli e Longo lo definì «il tesoriere del Corpo volontari della libertà, onesto, scrupoloso, imparziale». Fu poi vice capo di Stato maggiore addetto all'intendenza.Il 26 ottobre del 1944 fu arrestato nella sede milanese della costituenda DC, insieme ad altri esponenti politici, dalla polizia politica della Repubblica Sociale Italiana. Recluso in un carcere di Como, ne evase il 3 dicembre con la complicità di una guardia.Il suo ruolo al vertice delle organizzazioni partigiane crebbe ancora e Mattei si trovò in pratica a divenire l'interlocutore di Ferruccio Parri e di Luigi Longo, il quale svelò che era stato fra coloro che avevano chiesto che Mussolini e altri eventuali arrestati fossero «passati per le armi sul posto della cattura» anziché consegnati agli Alleati.Alla liberazione, Mattei fu uno dei sei esponenti del CLN alla testa della manifestazione di Milano.

L' ENI
Tre giorni dopo la liberazione, il 28 aprile 1945, fu nominato da Cesare Merzagora commissario liquidatore dell'Agip, ente statale per la produzione (estrazione), lavorazione e distribuzione dei petroli. L'incarico avrebbe dovuto limitarsi alla liquidazione e alla chiusura dell'azienda pubblica, ma appena si fu insediato, ebbe modo di valutare le potenzialità di sviluppo dell'ente, convincendosi che avrebbe potuto essere una risorsa di grande utilità per il Paese. Mattei si insediò il 12 maggio 1945, la sua nomina fu poi ratificata il 16 giugno da Charles Poletti, capo dell'amministrazione militare alleata. Il fratello Umberto veniva intanto nominato presidente del Comitato Oli e Grassi, mentre il fidato Vincenzo Cazzaniga, un dirigente della Standard NJ conosciuto, come Eugenio Cefis e Alberto Marcora, durante la clandestinità partigiana, divenne presidente del Comitato Oli Minerali Carburanti e Succedanei. Invece di seguire le istruzioni del Governo, riorganizzò l'azienda fondando nel 1953 l' ENI, di cui l' Agip divenne la struttura portante. Mattei diede un nuovo impulso alle perforazioni petrolifere nella Pianura Padana, avviò la costruzione di una rete di gasdotti per lo sfruttamento del metano, e aprì all'energia nucleare. Sotto la sua presidenza l' ENI negoziò rilevanti concessioni petrolifere in Medio Oriente e un importante accordo commerciale con l'Unione Sovietica (grazie all'intermediazione di Luigi Longo, suo amico durante la guerra partigiana e più tardi segretario del Partito Comunista Italiano); iniziative che contribuirono a rompere l'oligopolio delle 'Sette sorelle', che allora dominavano l'industria petrolifera mondiale. Mattei introdusse inoltre il principio per il quale i Paesi proprietari delle riserve dovevano ricevere il 75% dei profitti derivanti dallo sfruttamento dei giacimenti. Pur non essendo attivamente impegnato in politica, era vicino alla sinistra democristiana e fu parlamentare dal 1948 al 1953. Per la sua attività Mattei nel 1961 fu insignito della laurea in ingegneria ad honorem dalla Facoltà di Ingegneria (ora Politecnico) dell'Università degli Studi di Bari. Fu insignito anche di altre lauree honoris causa, della croce di cavaliere del lavoro e della Bronze Star Medal dell'Esercito statunitense (5 maggio 1945), nonché della Cittadinanza onoraria del comune di Cortemaggiore e post mortem, l'11 aprile 2013 la Cittadinanza onoraria del comune di Ferrandina (MT), dove nel 1958 l'Agip Mineraria fece alcuni studi e trovò il metano nella Valle del Basento.


enrico mattei sorridente

Morì nel 1962, in un misterioso incidente aereo le cui cause rimasero oscure per moltissimi anni. In seguito a nuove evidenze, nel 2005 fu stabilita la natura dolosa dell'incidente; vennero infatti ritrovati segni di esposizione a esplosione su parti del relitto, sull'anello e sull'orologio di Mattei.

aereo in caduta mattei

Le sette sorelle al tempo di Mattei:
  1. Standard Oil of New Jersey, successivamente trasformatasi in Esso (poi Exxon negli USA) e in seguito fusa con la Mobil per diventare ExxonMobil; Stati Uniti
  2. Royal Dutch Shell, Anglo-Olandese; Regno Unito Paesi Bassi
  3. Anglo-Persian Oil Company, successivamente trasformatasi in British Petroleum (BP); Regno Unito
  4. Standard Oil of New York, successivamente trasformatasi in Mobil e in seguito fusa con la Exxon per diventare ExxonMobil; Stati Uniti
  5. Texaco, successivamente fusa con la Chevron per diventare ChevronTexaco; Stati Uniti
  6. Standard Oil of California (Socal), successivamente trasformatasi in Chevron, ora ChevronTexaco; Stati Uniti
  7. Gulf Oil, in buona parte confluita nella Chevron. Stati UnitiImage result for matteiBUSCETTA: COSA NOSTRA UCCISE ENRICO MATTEI
Nella prima Commissione provinciale di Cosa Nostra a Palermo non si parlava né di delitti "eccellenti" né di appalti né di politica, fatta eccezione per quando ci si trovava a ridosso delle elezioni. A dire il vero, in quegli anni un delitto eccellente, anzi eccellentissimo, Cosa Nostra, lo eseguì. Mi riferisco alla scomparsa di Enrico Mattei, il presidente dell' Eni, avvenuta nel famoso incidente aereo dell' ottobre 1962. Mi rendo conto che sto rivelando un segreto e sono consapevole delle conseguenze che ne deriveranno. Ma devo mantenere fede all' impegno che ho preso dopo la strage di Capaci. Ho intenzione di raccontare tutto quello che ho omesso di riferire nel corso delle deposizioni davanti a Giovanni Falcone, tra cui ciò che so a proposito del caso Mattei e del caso De Mauro. Fu Cosa Nostra siciliana, in una seduta della sua prima Commissione, a decretare la morte di Enrico Mattei. Ciò mi consta personalmente in quanto avevo molti amici che sedevano nella Commissione e che mi riferivano il contenuto delle discussioni. Il piano per eliminare Mattei mi fu illustrato da Salvatore Greco ' Cicchiteddu' e da Salvatore La Barbera, che faceva parte della Commissione ed era il capo del mio mandamento. Mattei fu ucciso su richiesta di Cosa Nostra americana perché con la sua politica aveva danneggiato importanti interessi americani in Medio Oriente. A muovere le fila erano molto probabilmente le compagnie petrolifere, ma ciò non risultò a noialtri direttamente, in quanto arrivò Angelo Bruno, della famiglia di Filadelfia, e ci chiese questo favore a nome della Commissione degli Stati Uniti. ' Niente armi nè azioni spettacolari' La questione venne trattata in Commissione e non ci furono opposizioni di rilievo. Non emersero posizioni di "neutralità" rispetto a una richiesta così impegnativa. Tutti volevamo contribuire a rinsaldare i legami con gli americani. Le uniche discussioni riguardarono le modalità dell' attentato e gli uomini d' onore che si sarebbero assunti il compito di attuarlo. Si pensò di non usare armi da fuoco né di ricorrere ad azioni spettacolari che avrebbero potuto rivelare la matrice "mafiosa" del fatto. Se avessimo ucciso Mattei mentre si trovava al ristorante o durante una manifestazione pubblica, tutti avrebbero pensato alla mafia. Occorreva pertanto studiare un metodo per eliminarlo del tutto inusuale per noi e tale da fare in modo che l' episodio rimanesse avvolto nel mistero più fitto. Salvatore Greco ' Cicchiteddu' si assunse il compito di organizzare materialmente l' attentato. Egli, a sua volta, si consultò con Stefano Bontade. Ma per eseguire un progetto così impegnativo c' era bisogno di coinvolgere diversi personaggi di spicco. Allora ' Cicchiteddu' chiese la collaborazione di Antonio Minore, Bernardo Diana e Giuseppe Di Cristina, il quale, provenendo da Riesi, nei pressi di Catania, poteva fornire gli appoggi necessari. Ricordo che Stefano Bontade mi chiese di accompagnarlo un paio di volte a Catania. In quelle occasioni lo vidi contattare alcuni elementi locali di Cosa Nostra, tra cui Salvatore Ferrera, detto ' Cavaduzzo' .
Durante le nostre prime visite soggiornammo in albergo. Successivamente, come mi raccontò Bontade, questi fece altre visite in forma clandestina. Il contatto con Mattei fu stabilito da Graziano Verzotto, un uomo di potere che rappresentava l' Agip in Sicilia e militava nella Democrazia cristiana. Verzotto non era informato, ovviamente, del progetto di Cosa Nostra, ma era molto legato a Di Cristina. Che i due fossero strettamente collegati mi risulta direttamente perché verso il 1973-74 sono stato in carcere assieme a Di Cristina e lui mi parlò della sua amicizia con Verzotto. Anzi, Di Cristina mi confidò che nutriva qualche riserva su di lui, in quanto lo riteneva un personaggio ambiguo, amico sia di Cosa Nostra sia della polizia. Penso che fu proprio Verzotto, o lo stesso Di Cristina a presentare a Mattei un gruppo di giovanotti della mafia (quelli che ho nominato prima più Stefano Bontade) che lo portarono a caccia - sapevamo che Mattei aveva una passione per questo sport - nei dintorni di Catania il giorno prima della sua morte. Di Cristina procurò l' accesso a una riserva privata dove accompagnare Mattei. L' aereo di quest' ultimo fu manomesso durante questa battuta di caccia. Esisteva, ovviamente, una vigilanza che doveva essere elusa. Ma la vigilanza di quei tempi non era quella di oggi: consisteva in un paio di guardie che passeggiavano su e giù nei pressi dell' aereo. La battuta di caccia con i ' picciotti' La battuta di caccia aveva lo scopo di rassicurare Mattei a proposito delle intenzioni della mafia nei suoi confronti. E' uno degli espedienti classici di Cosa Nostra: quando si deve compiere un' esecuzione, la vittima deve essere avvicinata da un amico che dissipa i suoi sospetti, la tranquillizza, la rende più accessibile e ne facilita così l' eliminazione. Mattei sapeva benissimo con chi si incontrava e con chi andava a caccia. Era un uomo spregiudicato e audace, a cui piacevano le cose rischiose e fuori della norma. Si riuscì a illuderlo di godere della protezione della mafia e a non preoccuparsi, di conseguenza, di rafforzare la vigilanza intorno a sé e al suo aereo.

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Non conosco i dettagli dell' attentato e non credo che altri li conoscano, fatta eccezione ovviamente per gli esecutori. Non sono in grado di affermare se è stata usata una bomba o qualche altro sistema. Quel gruppo di giovanotti, una volta ricevuto l' incarico hanno agito in completa autonomia, secondo lo stile di Cosa Nostra, senza esser cioè tenuti a render conto ad alcuno dei mezzi impiegati per portare a termine il progetto. Ho rivelato uno dei segreti meglio conservati di Cosa Nostra: devo solo aggiungere che anche il rapimento di Mauro De Mauro, il giornalista dell' "Ora" di Palermo scomparso nel 1970, è stato effettuato da Cosa Nostra. De Mauro stava indagando sulla morte di Mattei e aveva ottime fonti all' interno di Cosa Nostra. Stefano Bontade venne a sapere che De Mauro stava avvicinandosi troppo alla verità - e di conseguenza al ruolo che egli stesso aveva giocato nell' attentato - e organizzò il "prelevamento" del giornalista in via delle Magnolie. De Mauro fu rapito per ordine di Stefano Bontade che incaricò dell' operazione il suo vice Girolamo Teresi. La scomparsa di De Mauro non suscitò alcun commento all' interno di Cosa Nostra. Era stato "spento" un nostro nemico e si dette per scontato che il triumvirato che reggeva allora l' associazione in luogo della Commissione provinciale, formato da Stefano Bontade, Gaetano Badalamenti e Luciano Liggio, avesse autorizzato l' azione.

Pasolini il libro:Petrolio e le accuse a Cefis





gian maria volonte


DOCUMENTI


lunedì 9 dicembre 2013

VITO GUARRASI "Don Vito"





Vito Guarrasi nasce ad Alcamo il 22 aprile 1914; figlio di una agiata famiglia di possidenti introdotta negli ambienti nobiliari dell'isola, è stato un controverso avvocato e manager . Era un lontano cugino di Enrico Cuccia (una zia di Guarrasi era sposata con uno zio di Cuccia).
Nel 1943, con il grado di sottotenente di complemento del servizio automobilistico fu presente alla firma dell'Armistizio di Cassibile assieme al generale Giuseppe Castellano, in qualità di suo aiutante di campo. In un rapporto del 27 novembre 1944 indirizzato al Segretario di Stato USA, il console generale americano a Palermo Alfred Nester affermò che Vito Guarrasi, assieme ad altre personalità dell'isola, fu presente ad una riunione con alti ufficiali americani in cui si discusse se la Sicilia dovesse separarsi dall'Italia e dichiarare l'indipendenza. Il rapporto del console è significativamente intitolato: Formation of group favoring autonomy of Sicily under direction of Mafia. (formazione di un gruppo che favorisca l'autonomia della Sicilia sotto la direzione della Mafia).

firma dell'armistizio di cassibile vito guarrasi
Firma dell'armistizio a Cassibile, all'estrema destra l' avv. Guarrasi 
Dal 2 ottobre 1947 Guarrasi è socio fondatore della società cooperativa La voce della Sicilia, di ispirazione socialista. Dal 7 luglio 1948 al 19 ottobre 1964 è consigliere di amministrazione della società mineraria Val Salso, dedita all'estrazione e alla commercializzazione dello zolfo e dei suoi derivati.
Nel 1948 Guarrasi si candidò nelle liste del Fronte Popolare. Negli anni Cinquanta entrò nel consiglio di amministrazione del giornale comunista L'Ora di Palermo. Avvocato civilista, risulta iscritto all'albo presso il foro di Palermo il 2 maggio 1949.
Dal 20 marzo 1949 al 30 marzo 1952 fu presidente della Cassa Agricola e Professionale Don Rizzo di Alcamo, una piccola banca orientata verso il credito agricolo e privato. Guarrasi, nel corso della gestione della cassa dovette fronteggiare un iniziale flessione dei depositi e un aumento della richiesta di prestiti dovuta al periodo di crisi in cui versava l'economia Italiana nel 1950 e anche una serie sempre più accesa di rivendicazioni sindacali da parte dei dipendenti della cassa. Nel 1953 si candidò al Senato per il PLI nel collegio Alcamo-Castelvetrano, ma non fu eletto.
graziano verzotto vito guarrasi
Graziano Verzotto
Guarrasi ideò e promosse un'iniziativa, poi divenuta la legge regionale n 4 del 13 marzo 1959 che istituì presso il Banco di Sicilia un fondo di rotazione delle miniere di zolfo che trasferì alla regione 12 miliardi di debiti contratti da diversi proprietari delle miniere con il Banco di Sicilia stesso. Fu uno dei promotori insieme a Graziano Verzotto e Domenico La Cavera della nascita della So.Fi.S (Società per il Finanziamento dello Sviluppo in Sicilia), società finanziaria della Regione Siciliana, che fu il primo esempio di società pubblica regionale. Nei primi mesi del 1960 Guarrasi divenne anche consigliere di Enrico Mattei, in particolare in merito alla costruzione di un metanodotto sottomarino che collegasse l'Africa alla Sicilia. La collaborazione fu di breve durata e l'incarico di Guarrasi era terminato già all'epoca della morte di Mattei (27 ottobre 1962). Negli anni Vito Guarrasi è stato azionista, presidente o consigliere di amministrazione di più di 25 differenti società (spesso pubbliche) i cui ambiti spaziano dallo sport (presidente del Palermo Calcio dal 1952 al 1960) all'immobiliaristica, al settore minerario e dell'estrazione di idrocarburi, al turismo e alla commercializzazione di medicinali.


Procedimenti giudiziari
Il pentito Gioacchino Pennino ha affermato nel 2007 che Guarrasi svolse un ruolo nella morte del giornalista dell'Ora Mauro De Mauro, scomparso il 16 settembre 1970 e il cui corpo non è mai più stato ritrovato. All'epoca il giornalista stava raccogliendo informazioni sulla morte di Mattei e sul fallito golpe del principe Junio Valerio Borghese. Pennino ritiene che Guarrasi abbia riferito indirettamente le informazioni in possesso di De Mauro ad alcuni capimafia, che avrebbero così deciso di eliminarlo.
Si dice che il giornalista palermitano, poco prima di scomparire avrebbe incontrato tutta una serie di personalità e, tra queste, anche Guarrasi. L' avvocato replica: I fatti parlano da soli. Io nell' inchiesta De Mauro non ho ricevuto neanche una comunicazione giudiziaria. 
Il 10 luglio 1971 Guarrasi è stato condannato a quattro anni di reclusione per bancarotta fraudolenta dalla 1ª Sezione Penale del Tribunale di Roma; verrà in seguito prosciolto.
vito guarrasi morteNel rapporto del 1976 del senatore Luigi Carraro, relatore della commissione parlamentare antimafia si legge che: L'attività pubblica di Guarrasi è stata caratterizzata da rapidi successi e dalla ricerca costante di posizioni di potere... Non c'è stato settore di qualche importanza della vita economica siciliana che non ha visto impegnato in prima persona l'avvocato Guarrasi... Non sempre però queste iniziative andarono a buon fine.
Nel 1986 Guarrasi è risultato anche iscritto alla loggia della "Massoneria universale di rito scozzese antico e accettato. Supremo Consiglio d'Italia" di via Roma a Palermo, insieme all'esattore di Salemi Nino Salvo e al boss mafioso Salvatore Greco.
Guarrasi è stato interrogato nel 1998 come testimone al processo per mafia a carico di Giulio Andreotti.
Morì un'anno dopo a Mondello.


l'avvocato dei misteri vito guarrasi


LA VITA DI DON VITO GUARRASI
 (IL VERO BOSS DEI BOSS)
DIMENTICATE I RIINA E I PROVENZANO, BIECA MANOVALANZA DEL CRIMINE, LA MAFIA SI INCARNA IN DON VITO - PIÙ POTENTE DI CUCCIA, PIÙ INFLUENTE DI AGNELLI, PIÙ RICCO DI BERLUSCONI, PIÙ ASTUTO DI ANDREOTTI, PIÙ SEGRETO DI FATIMA 
Piero Melati per "il Venerdì di Repubblica"
Di sicuro c'è solo che è morto. L'ultimo giorno di luglio del 1999. Liquidato in tre righe sul Corriere della Sera. Di sicuro c'è solo che il suo nome non si poteva nemmeno pronunciare. Era inteso Mister X. Si diceva nei bar: «Se il Palermo vince, in schedina scrivi uno. Se perde scrivi due. Se pareggia scrivi Guarrasi». Vito Guarrasi. Di lui si sussurrava che era più potente di Cuccia, più influente di Agnelli, più ricco di Berlusconi, più astuto di Andreotti, più segreto di Fatima.
Tra le sue mani di «consulente dei potenti» sono passati i misteri d'Italia: i retroscena dello sbarco degli americani in Sicilia, la morte di Mattei, la scomparsa di De Mauro, il golpe Borghese, l'ascesa di Cefis, l'affare Sindona, la morte di Calvi, gli omicidi politici, i rapporti tra Andreotti e la mafia.
In mezzo, nel crocevia del diavolo, sempre lui. Sempre Guarrasi. Eppure mai un processo, un concorso esterno, un favoreggiamento, un 41 bis. Mai nessuna visibilità, nessuna «esposizione». Sempre nell'ombra. Ha mandato all'opposizione in Sicilia la Dc di don Sturzo e Fanfani, boss di Cosa Nostra del calibro di Calogero Vizzini e Genco Russo diventavano umili al cospetto, i capi della Cia in visita a Palermo andavano a trovarlo nello studio in via Segesta o nella villa di Mondello. Era amico di Nino e Ignazio Salvo, i potenti esattori legati alla mafia, ma per cinque mesi fu anche consigliere di amministrazione dell'Ora, il quotidiano antimafia di Palermo.
Un enigma. Che ora viene risistemato da una biografia (L'avvocato dei misteri, Castelvecchi, pp. 190, euro 16,50) di Marianna Bartoccelli e Francesco D'Ayala, che contiene ampi stralci dal diario privato di Guarrasi. Un libro critico verso l'Antimafia. Ma non per questo meno ricco di dettagli. Anche privati. Guarrasi sposa la bellissima Simonetta Biuso Greco, appena diciottenne, e sarà lei a fornirgli le chiavi di accesso allo studio del padre, l'avvocato più importante del Banco di Sicilia.
Sua moglie fu poi per sedici anni l'amante del suo migliore amico, Domenico La Cavera, detto Mimì, presidente degli industriali siciliani, conosciuto tra i banchi del Gonzaga, un'avventura politica condivisa (anche con il Pci di Emanuele Macaluso), quella del milazzismo. Poi Mimì sposò a sua volta la diva del cinema degli anni Sessanta Eleonora Rossi Drago, che aveva appena troncato una storia d'amore con Alfonso di Borbone, fratello del re di Spagna.


AVVOCATO DEI MISTERI
DI BARTOCCELLI E DAYALA
Una soap opera alla Dynasty. Dal padre Raffaele (sposato con Luigia Dagnino) Guarrasi eredita l'azienda vinicola Rapitalà. È amico per la pelle di Galvano Lanza Branciforti di Trabia, per conto del quale amministra il feudo di Villa Trabia. Dirà La Cavera: «Le Terre rosse di Villa Trabia erano un mito».
Il futuro Mister X, da semplice ufficiale di complemento del servizio automobilistico dell'esercito, non ancora trentenne, viene spedito dal generale Giuseppe Castellano, insieme all'amico Lanza di Trabia, in missione segreta ad Algeri. Incontreranno il generale Dwight «Ike» Eisenhower, futuro presidente degli Stati Uniti, comandante dell'esercito alleato. Lo scopo, trattare la resa dell'Italia, che verrà firmata il 3 settembre a Cassibile e resa nota il fatidico 8 settembre.
Guarrasi smentirà la sua presenza alla firma dell'armistizio. Lui aveva trattato con Ike, ma quel giorno era nella villetta del barone Vincenzo Valenti, in via Dante, a Palermo, a rassicurare i nobili siciliani che lo sbarco alleato in Sicilia non avrebbe comportato derive comuniste. «Quella stessa casa che per eredità è poi pervenuta al sindaco Leoluca Orlando...».
C'erano mafiosi alla riunione? Guarrasi nega: «Figurarsi se mi sarei riunito con la manovalanza. Noblesse oblige». Fatto sta che quella fu la madre di tutte le trattative: appoggio logistico delle «famiglie» allo sbarco, in cambio di impunità e posti di comando. Rapporti spericolati. Ma Guarrasi era solito camminare con le mani basse dietro la schiena, come Enrico Cuccia, il patron di Mediobanca di cui era parente. «Per evitare che qualcuno me lo metta in quel posto».
Con quello stesso spirito affronta l'avventura di Silvio Milazzo: dal ‘58 al ‘60 l'ex deputato dc di Caltagirone mette insieme comunisti e fascisti e taglia fuori lo scudocrociato di Fanfani dal governo. Guarrasi è responsabile del piano di sviluppo.
I Salvo appoggiano Milazzo, don Paolino Bontate (padre di Stefano, il «principe di Villagrazia» ucciso dai corleonesi nella successiva guerra di mafia) schiaffeggia personalmente i deputati monarchici dubbiosi. Padri e figli. Ma non solo quelli delle dinastie mafiose. A diverso titolo, giocheranno un ruolo Bernardo Mattarella (padre di Piersanti, il presidente della Regione Sicilia ucciso dalla mafia nell'81), Salvatore Orlando Cascio (padre del quattro volte sindaco di Palermo Leoluca), Giuseppe La Loggia (padre del leader del Pdl Enrico), Francesco Pignatone (padre del capo della Procura di Roma Giuseppe).
E ancora, Gerlando Miccichè, fratello del defunto Luigi, che fu segretario particolare di Mimì La Cavera, e padre dell'ex sottosegretario berlusconiano Gianfranco, del banchiere Gaetano, del manager del Palermo calcio Guglielmo. O Aldo Profumo, padre dell'ex presidente di Unicredit Alessandro, direttore, ai tempi in cui La Cavera era in auge, della Elettronica Sicula, collegata alle grandi imprese Usa, azienda che inventò i tubi catodici per le tv a colori. La Sicilia vola. Enrico Mattei, presidente dell'Eni, vuole industrializzare l'Isola. Usa i partiti come taxi, sfida le sette sorelle del petrolio. Ma muore in un incidente aereo a Bescapè (27 ottobre ‘62).
Un attentato? Gli succede Eugenio Cefis. Guarrasi è consulente di Mattei, lo resta anche di Cefis nei decenni successivi. Ma intanto, caduto Milazzo, fa approvare una legge che scarica sulla Regione i debiti mostruosi delle industrie minerarie. «Io non faccio le leggi. Le scrivo» dirà. Si cominciano a mangiare la Sicilia. Otto anni dopo scompare il cronista dell'Ora De Mauro, al tempo di Salò legato alla X Mas del principe nero Junio Valerio Borghese. De Mauro lavorava come consultente al film del regista Francesco Rosi sul giallo di Mattei. Il capo della squadra Mobile Boris Giuliano (ucciso dalla mafia nel ‘79) batte la pista che porta a 
Palermo scommette: stanno per futtiri Mister X. Lo definisce così, sull'Espresso, il questore dell'epoca, Angelo Mangano, lo sbirro che arrestò Luciano Liggio. Ma la palude inghiotte tutto. Qualche lume verrà 27 anni dopo. Un giudice a Pavia, Vincenzo Calia, riapre l'inchiesta. E ascolta il pm Ugo Saitto, che rivela: Boris Giuliano gli confidò di un summit nella panormita Villa Boscogrande, presieduto dal capo dei servizi, il piduista Vito Miceli. Qui, tra zagare, gelsomini e fette di cassata, si era deciso di insabbiare tutto. Poi ci si mette Graziano Verzotto, ex partigiano e braccio destro di Mattei, latitante per 16 anni, ad accusare Guarrasi.
Dice al giudice Calia che le mani di Mister X sono lorde del sangue di Mattei e De Mauro. Ne esce un intrigo che finisce nei soldi riciclati dalle banche di Sindona. Ma dell'inchiesta non si parlerà (fino a Rizza e Lo Bianco, Profondo nero, Chiarelettere, 2009). Il fantasma di Michele Sindona lo tira fuori al processo Andreotti il pentito Angelo Siino, che fu l'autista di papa Giovanni Paolo II in Sicilia. Siino sostiene di aver accompagnato Sindona da Guarrasi. L'accusa cita un rapporto della Finanza del ‘93, che parla di «occulta regia» dell'anziano Guarrasi nei mutamenti in corso dentro Cosa Nostra.
La prima Repubblica era crollata un anno prima. E Guarrasi morirà un anno dopo quel processo. Oggi tre inchieste (Il caso De Mauro, Giuseppe Pipitone, Editori Riuniti, pp. 191, euro 16; L'eretico, Nino Amadore, Rubbettino, pp. 115, euro 12; Alfio Caruso, I siciliani, Neri Pozza, pp. 671, euro 18) scavano sul personaggio. E sui misteri mai chiariti nelle quattro interviste rilasciate da Guarrasi in vita (nella prima, a Giuseppe Sottile sull'Espresso, sostenne che De Mauro era stato eliminato per complicità nel golpe Borghese).
Nell'ultima, a Claudio Fava, figlio del giornalista ucciso dalla mafia, plaudì Berlusconi. Lo paragonò a Milazzo. Disse che, più che una rivoluzione, la fine della prima Repubblica era stata una «mareggiata». «Perché?» chiese Fava. «Mancava una cosa: la ghigliottina».

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