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sabato 7 dicembre 2013

CARLO ALBERTO DALLA CHIESA


giovane alberto dalla chiesa

Buscetta: "Nel ' 79 ero in carcere a Cuneo e mi mandarono un' ambasciata perche' parlassi con i terroristi. Volevano sapere se i terroristi avrebbero accettato di rivendicare l' omicidio, in qualunque parte d' Italia, del generale Dalla Chiesa. Circuii un terrorista che era con me, un terrorista importante che aveva partecipato al sequestro Moro. Gli chiesi, nello stile mafioso, che sarebbe stato bello se si ammazzasse Dalla Chiesa. Ma se qualcuno lo ammazzasse voi lo rivendichereste? Mi rispose: "No. Solo se qualcuno di noi partecipa". Mandai questa risposta. Dalla Chiesa rimase vivo". Violante. "Ma nel ' 79 che interesse poteva esserci ad ammazzare il generale Dalla Chiesa?". Buscetta. "Bravo. Se lo spieghi da solo. Io non so spiegarmelo. Fino allora non aveva disturbato nessun mafioso".


Carlo Alberto Dalla Chiesa figlio di un carabiniere (il padre Romano, che partecipò alle campagne del Prefetto Mori, nel 1955 fu nominato vice comandante generale dell'Arma),  nacque a Saluzzo il 27 settembre 1920; entrò nell'Esercito partecipando alla Guerra in Montenegro nel 1941 come sottotenente; divenne ufficiale di complemento di fanteria nel 1942 e nello stesso anno passò all'Arma dei Carabinieri (dove già prestava servizio il fratello Romolo) in servizio permanente effettivo, completando gli studi di giurisprudenza.
giovane alberto dalla chiesaCome primo incarico viene mandato a comandare la caserma di San Benedetto del Tronto, dove rimane fino al giorno dell'armistizio, 8 settembre 1943.A causa del suo rifiuto di collaborare nella caccia ai partigiani, viene inserito nella lista nera dai nazisti, ma riesce a fuggire prima che le SS riesca
no a catturarlo.
Dopo l'armistizio entrò nella Resistenza, operando in clandestinità nelle Marche, dove organizzò i gruppi per fronteggiare i tedeschi. Nel dicembre del 1943 entrò tra le linee nemiche con le truppe alleate, ritrovandosi in una zona d'Italia già liberata. Viene inviato a Roma per seguire gli alleati nel loro ingresso e per provvedere alla sicurezza della Presidenza del Consiglio dei ministri dell'Italia liberata.
Dopo la guerra fu inviato a comandare una tenenza a Bari, dove riesce a conseguire 2 lauree; una in giurisprudenza e l'altra in scienze politiche (per quest'ultima segue i corsi di Laurea tenuti dall'allora docente Aldo Moro). A Bari conosce Dora Fabbo, la ragazza che nel 1945 diventerà sua moglie.
Arriva poi in Campania, avendo per prima destinazione il Comando Compagnia di Casoria (Napoli), dove erano in corso rilevanti operazioni nella lotta al banditismo. Durante la permanenza a Casoria, nasce la figlia Rita. Proprio in questa lotta si distinse e nel 1949 fu, pertanto, inviato in Sicilia, al Comando forze repressione banditismo, agli ordini del colonnello Ugo Luca, formazione interforze costituita per eleminare le bande di criminali nell'isola, come quella del bandito Salvatore Giuliano; qui comandò il Gruppo Squadriglie di Corleone e svolse ruoli importanti e di grande delicatezza come quello di Capo di stato maggiore, meritando peraltro una Medaglia d'Argento al Valor Militare.
Nel novembre del 1949, nasce a Firenze il figlio, Nando Dalla Chiesa. Il 23 ottobre 1952, sempre a Firenze, nasce la terza figlia, Simona dalla Chiesa.
Da Capitano, indagò sulla scomparsa (poi rivelatasi omicidio) del sindacalista Placido Rizzotto, giungendo ad indagare e incriminare l'allora emergente boss della mafia Luciano Liggio. Il posto di Rizzotto sarebbe stato preso da Pio La Torre, che Dalla Chiesa conobbe in tale occasione e che in seguito fu anch'egli ucciso dalla mafia.


Gli incarichi a Milano e Roma
Dopo il periodo in Sicilia, venne trasferito prima a Firenze, successivamente a Como e quindi presso il comando della Brigata di Roma.
Nel 1964 passò al coordinamento del nucleo di polizia giudiziaria presso la Corte d'appello di Milano, che poi unificò e diresse come nuovo gruppo.



Il ritorno in Sicilia
Dal 1966 al 1973 tornò in Sicilia con il grado di colonnello, al comando della legione carabinieri di Palermo. Iniziò particolari indagini per contrastare Cosa Nostra, che nel 1966 e 1967 sembrava aver abbassato i toni dello scontro che si era verificato nei primi anni '60. Nel gennaio 1968 intervenne coi suoi reparti in soccorso delle popolazioni del Belice colpite dal sisma, riportandone una medaglia di bronzo al valor civile per la personale partecipazione "in prima linea" alle operazioni, oltre che la cittadinanza onoraria di Gibellina e Montevago.
Nel 1969 riesplode in maniera evidente lo scontro interno tra le famiglie mafiose con la strage di Viale Lazio, nella quale perse la vita il boss Michele Cavataio. Dalla Chiesa intuì la situazione che andava configurandosi, con scontri violenti per giungere al potere tra elementi mafiosi di una nuova generazione, pronti a lasciare sulla strada cadaveri eccellenti.

generale carlo alberto dalla chiesa

Nel 1970 svolse indagini sulla misteriosa scomparsa del giornalista Mauro De Mauro, il quale poco prima aveva contattato il regista Francesco Rosi, promettendogli materiale, che lasciava intendere scottante, sul caso Mattei. Le indagini furono svolte con ampia collaborazione fra i Carabinieri e la Polizia, sotto la direzione di Boris Giuliano, anch'egli in seguito ucciso dalla mafia mentre iniziava ad intuire le connessioni tra mafia ed alta finanza. Nel 1971 si trova ad indagare sulla morte del procuratore Pietro Scaglione.
Il risultato di queste indagini fu il dossier dei 114 (1974): come conseguenza del dossier, scattarono decine di arresti dei boss e, per coloro i quali non sussisteva la possibilità dell'arresto, scattò il confino.
L'innovazione voluta, però, da Dalla Chiesa fu quella di non mandare i boss al confino nelle periferie delle grandi città del Nord Italia; pretese invece che le destinazioni fossero le isole di Linosa, Asinara e Lampedusa.

In Piemonte, la lotta alle Brigate Rosse
Nel 1973 fu promosso al grado di Generale di Brigata e nel 1974 divenne Comandante della Regione Militare di Nord-Ovest, con giurisdizione su Piemonte, Valle d'Aosta e Liguria.
Si trovò così a dover combattere il crescente numero di episodi di violenza portati avanti dalle Brigate Rosse ed il loro crescente radicarsi negli ambienti operai. Per fare ciò, utilizzò i metodi che già aveva sperimentato in Sicilia, infiltrando alcuni uomini all'interno dei gruppi terroristici al fine di conoscere perfettamente i loro schemi di potere interni.
Nell'aprile del 1974 viene rapito dalle Brigate Rosse il giudice genovese Mario Sossi, con il quale le BR volevano barattare la liberazione di 8 detenuti della Banda 22 ottobre.
Ad Alessandria una rivolta dei detenuti, guidata dal gruppo Pantere Rosse, che aveva preso degli ostaggi, viene stroncata dal Procuratore Generale di Torino, Carlo Reviglio Della Veneria, e dallo stesso Dalla Chiesa, i quali ordinano un intervento armato che si conclude con l’uccisione di due detenuti, di due agenti di custodia, del medico del carcere e di una assistente sociale[senza fonte].
Dopo aver selezionato dieci ufficiali dell'arma, Dalla Chiesa creò nel maggio del 1974 una struttura antiterrorismo, denominata Nucleo Speciale Antiterrorismo, con base a Torino.

carlo alberto dalla chiesa generale

Nel settembre del 1974 il Nucleo riuscì a catturare a Pinerolo Renato Curcio e Alberto Franceschini, esponenti di spicco e fondatori delle Brigate Rosse, grazie anche alla determinante collaborazione di Silvano Girotto, detto "frate mitra".
Nel febbraio del 1975 Curcio riesce ad evadere dal carcere di Casale Monferrato, grazie ad un intervento dei compagni brigatisti, capeggiati dalla moglie dello stesso Curcio, Margherita Cagol.
Sempre nel 1975, i Carabinieri intervennero nel rapimento di Vittorio Gancia, uccidendo nel conflitto a fuoco Margherita Cagol.
Nel 1976 venne sciolto il Nucleo Antiterrorismo, a seguito delle critiche ricevute per i metodi utilizzati nell'infiltrazione degli agenti tra i brigatisti e sulla tempistica dell'arresto di Curcio e Franceschini.
generale carlo alberto dalla chiesaNel 1977 fu nominato Coordinatore del Servizio di Sicurezza degli Istituti di Prevenzione e Pena e, passato al grado di Generale di Divisione, ottenne in seguito (9 agosto 1978) poteri speciali per diretta determinazione governativa e fu nominato Coordinatore delle Forze di Polizia e degli Agenti Informativi per la lotta contro il terrorismo, sorta di reparto operativo speciale alle dirette dipendenze del Ministro dell'Interno Virginio Rognoni, creato con particolare riferimento alla lotta alle Brigate rosse ed alla ricerca degli assassini di Aldo Moro.
La concessione di poteri speciali a Dalla Chiesa fu veduta da taluni come pericolosa o impropria (le sinistre estreme la catalogarono come "atto di repressione").
Dopo la morte di Aldo Moro, Dalla Chiesa decise di stringere il cerchio intorno ai vertici delle Brigate Rosse.
Nel frattempo, nel febbraio del 1978, Dalla Chiesa aveva perso la moglie Dor
a, stroncata in casa a Torino da un infarto. Per il Generale fu un duro colpo, che lo lasciò per qualche tempo nella disperazione e lo costrinse successivamente a dedicarsi completamente alla lotta contro i brigatisti.
In una perquisizione successiva a due arresti (Lauro Azzolini e Nadia Mantovani) in via Montenevoso a Milano, vengono ritrovate alcune carte riguardanti Aldo Moro, tra le quali un presunto memoriale dello stesso Moro.
Nel 1979 viene trasferito nuovamente a Milano per comandare la Divisione Pastrengo sino al dicembre 1981.
Particolarmente importanti furono i successi contro le Brigate Rosse, ottenuti a seguito della sanguinosa irruzione di via Fracchia, e l'arresto di Patrizio Peci (che con le sue rivelazioni contribuì a sconfiggere le BR) e Rocco Micaletto.
Il 16 dicembre 1981 viene promosso Vice Comandante Generale dell'Arma, la massima carica per un ufficiale dei Carabinieri (all'epoca il Comandante Generale dell'Arma doveva necessariamente provenire, per espressa disposizione di legge, dalle fila dell'Esercito). Rimane in tale carica fino al 5 maggio 1982.


Prefetto in Sicilia per combattere Cosa Nostra
Nel 1982 viene nominato dal Consiglio dei Ministri prefetto di Palermo e posto contemporaneamente in congedo dall'Arma. Il tentativo del governo è quello di ottenere contro Cosa Nostra gli stessi risultati brillanti ottenuti contro le Brigate Rosse. Dalla Chiesa inizialmente si dimostrò perplesso su tale nomina, ma venne convinto dal ministro Virginio Rognoni, che gli promise poteri fuori dall'ordinario per contrastare la guerra tra le cosche, che insanguinava l'isola.
Il 12 luglio nella cappella del castello di Ivano-Fracena, in provincia di Trento, sposò in seconde nozze Emanuela Setti Carraro.
A Palermo, dove arrivò ufficialmente nel maggio del 1982, lamentò più volte la carenza di sostegno da parte dello Stato (emblematica la sua amara frase: "Mi mandano in una realtà come Palermo, con gli stessi poteri del prefetto di Forlì").
In una intervista concessa a Giorgio Bocca, il Generale dichiarò ancora una volta la carenza di sostegno e di mezzi, necessari per la lotta alla mafia, che nei suoi piani doveva essere combattuta strada per strada, rendendo palese alla criminalità la massiccia presenza di forze dell'ordine; inoltre nell'intervista Dalla Chiesa dichiarò:
generale carlo alberto dalla chiesa
« Oggi mi colpisce il policentrismo della Mafia, anche in Sicilia, e questa è davvero una svolta storica. È finita la Mafia geograficamente definita della Sicilia occidentale. Oggi la Mafia è forte anche a Catania, anzi da Catania viene alla conquista di Palermo. Con il consenso della Mafia palermitana, le quattro maggiori imprese edili catanesi oggi lavorano a Palermo. Lei crede che potrebbero farlo se dietro non ci fosse una nuova mappa del potere mafioso?»
Tali dichiarazioni provocarono in forma ufficiale il risentimento dei Cavalieri del Lavoro catanesi Carmelo Costanzo, Mario Rendo, Gaetano Graci e Francesco Finocchiaro (i proprietari delle quattro maggiori imprese edili catanesi, alle quali si riferiva Dalla Chiesa) e diedero inizio ad una polemica con l'allora presidente della Regione Mario D'Acquisto, che invitò pubblicamente Dalla Chiesa a specificare il contenuto delle sue dichiarazioni e ad astenersi da tali giudizi qualora tali circostanze non fossero state provate.
Nel luglio del 1982 Dalla Chiesa dispose che il cosiddetto "rapporto dei 162" fosse trasmesso alla Procura di Palermo: tale rapporto portava la «firma congiunta» di polizia e carabinieri e ricostruiva l'organigramma delle Famiglie mafiose palermitane attraverso scrupolose indagini e riscontri.
Per la prima volta, con una telefonata anonima fatta ai carabinieri di Palermo a fine agosto, Cosa Nostra sembrò annunciare l'attentato al Generale, dichiarando che, dopo gli ultimi omicidi di mafia, «l'operazione Carlo Alberto è quasi conclusa, dico quasi conclusa».



L'omicidio
« Qui è morta la speranza dei palermitani onesti. » (Scritta affissa il giorno seguente in prossimità del luogo dell'attentato)

carlo alberto dalla chiesa emanuela setti carraro matrimonio

Alle ore 21.15 del 3 settembre 1982, la A112 bianca sulla quale viaggiava il Prefetto, guidata dalla moglie Emanuela Setti Carraro, fu affiancata, in via Isidoro Carini a Palermo, da una BMW, dalla quale partirono alcune raffiche di Kalashnikov AK-47, che uccisero il Prefetto e la moglie.
omicidio dalla chiesa

omicidio dalla chiesa


Nello stesso momento l'auto con a bordo l'autista e agente di scorta, Domenico Russo, che seguiva la vettura del Prefetto, veniva affiancata da una motocicletta, dalla quale partì un'altra raffica che uccise Russo.
Per i tre omicidi sono stati condannati all'ergastolo come mandanti i vertici di Cosa Nostra: i boss Totò Riina, Bernardo Provenzano, Michele Greco, Pippo Calò, Bernardo Brusca e Nenè Geraci.
Nel 2002 sono stati condannati in primo grado, quali esecutori materiali dell'attentato, Vincenzo Galatolo e Antonino Madonia entrambi all'ergastolo, Francesco Paolo Anzelmo e Calogero Ganci a 14 anni di reclusione ciascuno.
«La moglie di Dalla Chiesa non è stata uccisa da un proiettile vagante. È stata appositamente massacrata. (Perché) era una puttana (...) che aveva sposato un generale (...) Non sono parole mie, ma il commento negli ambienti del carcere era proprio quello (...) Dalla Chiesa fu ucciso perché era un vero rompipalle, uno che dava fastidio. Conduceva un lavoro investigativo serio contro la criminalità organizzata, rompendo le scatole in quasi tutta la Sicilia (...) e quando è stato ammazzato all’interno della nona sezione dell’Ucciardone si è brindato, ma non champagne come hanno scritto i giornali. Abbiamo preso delle buste di vini e qualcuno ha detto: “ubriachiamoci alla faccia di Dalla Chiesa”... Se non si riesce a pensare con una mente malefica, allora non si può capire veramente la crudeltà, quel terribile demone che regna dentro Cosa Nostra» (nel processo per l’omicidio del generale Dalla Chiesa, sua moglie e l’uomo della scorta, vedi RIINA Salvatore).



I funerali e la reazione dell'opinione pubblica
funerali carloalberto dalla chiesa
Il giorno dei suoi funerali, che si tennero nella chiesa palermitana di San Domenico, una grande folla protestò contro le presenze politiche, accusandole di averlo lasciato solo. Vi furono attimi di tensione tra la folla e le autorità, sottoposte a lanci di monetine e insulti al limite dell'aggressione fisica. Solo il Presidente della Repubblica Sandro Pertini venne risparmiato dalla contestazione.
La figlia Rita pretese che fossero immediatamente tolte di mezzo le corone di fiori inviate dalla Regione Siciliana (era presidente Mario D'Acquisto) e volle che sul feretro del padre fossero deposti il tricolore, la sciabola e il berretto della sua divisa da Generale con le relative insegne.
funerali carloalbertodalla chiesaDell'omelia del cardinale Pappalardo, fecero il giro dei telegiornali le seguenti parole (citazione di un passo di Tito Livio), che furono liberatorie per la folla, mentre causarono imbarazzo tra le autorità (il figlio Nando le definì "una frustata per tutti"):
« Mentre a Roma si pensa sul da fare, la città di Sagunto viene espugnata dai nemici [..] e questa volta non è Sagunto, ma Palermo. Povera la nostra Palermo».
Dalla Chiesa fu insignito di medaglia d'oro al valore civile alla memoria.
Il 5 settembre al quotidiano La Sicilia arrivò un'altra telefonata anonima, che annunciò: "L'operazione Carlo Alberto è conclusa".

funerali carlo alberto dalla chiesa generale



Dalla Chiesa, Andreotti e il caso Moro
Dopo il rapimento e l'uccisione di Aldo Moro, in seguito al ritrovamento di un borsello sopra un pullman carabinieri di Dalla Chiesa riuscirono ad individuare un covo delle Brigate appartenente alla colonna Walter Alasia, situato a Milano in Via Monte Nevoso. Ne scaturirono 9 arresti e una serie di perquisizioni, nella quale furono rinvenuti alcuni documenti riguardanti il rapimento di Moro ed un memoriale dello stesso.
Nel 1990, durante alcuni lavori, furono rinvenuti nell'appartamento di via Monte Nevoso altri documenti riguardanti Moro, nascosti in un doppio fondo di una parete. Seguirono alcune polemiche sulle circostanze in cui nel 1978 i carabinieri avevano condotto l'inchiesta e le perquisizioni.
Il memoriale di Moro sarebbe stato consegnato da Dalla Chiesa a Giulio Andreotti, a causa delle informazioni contenute al suo interno. Secondo la madre di Emanuela Setti Carraro, la figlia le avrebbe confidato che il Generale non consegnò ad Andreotti tutte le carte rinvenute, e che nelle stesse fossero indicati segreti estremamente gravi.
Il giornalista Mino Pecorelli, amico di Dalla Chiesa, aveva dichiarato che di memoriali ne erano stati rinvenuti diversi e che le rivelazioni contenute all'interno fossero collegate alle responsabilità politiche del sequestro Moro. Pochi giorni dopo aver dichiarato di voler pubblicare integralmente uno degli stessi sulla sua rivista Op venne ucciso.
Secondo la sorella del giornalista, Dalla Chiesa aveva incontrato Pecorelli pochi giorni prima che venisse ucciso ed il Generale aveva confidato al giornalista alcune importanti informazioni sul caso Moro, consegnandogli documenti riguardanti il ruolo di Giulio Andreotti. Secondo il collaboratore di giustizia Tommaso Buscetta, Pecorelli e Dalla Chiesa erano a conoscenza di segreti sul sequestro Moro che infastidivano Andreotti; Buscetta inoltre affermò che il boss Gaetano Badalamenti gli disse:
« [Dalla Chiesa] Lo hanno mandato a Palermo per sbarazzarsi di lui. Non aveva fatto ancora niente in Sicilia che potesse giustificare questo grande odio contro di lui »
Nel 2000 un consulente della Commissione Parlamentare d'inchiesta affermò che, a suo giudizio, i carabinieri avessero falsificato la realtà, omettendo di descrivere le modalità di ritrovamento del borsello, impiegando troppo tempo ad effettuare il blitz (il borsello fu ritrovato a fine agosto, il blitz venne fatto ad ottobre) e ipotizzando che la perdita del borsello da parte di Walter Azzolini non fosse stata casuale, ma un'azione che potrebbe far nascere sospetti sul suo reale ruolo in seno alle Brigate Rosse. Tali affermazioni hanno suscitato la reazione di Nando Dalla Chiesa e dei magistrati Pomarici e Spataro, in difesa dei carabinieri che condussero l'indagine, la cui unica lacuna fu di non aver individuato il doppio fondo nel muro.
Inoltre, nel suo diario personale, Dalla Chiesa racconta che ebbe un colloquio con Andreotti il 5 aprile 1982, poco tempo prima di insediarsi come Prefetto di Palermo, nel quale gli disse chiaramente che non avrebbe avuto riguardi per quella parte di elettorato mafioso, alla quale attingevano gli uomini della sua corrente in Sicilia; e successivamente aveva definito la corrente andreottiana a Palermo «la famiglia politica più inquinata del luogo», aggiungendo che gli andreottiani erano fortemente compromessi con Cosa Nostra. Andreotti però negò questa circostanza, sostenendo che Dalla Chiesa sicuramente lo confondeva con altre persone che incontrava in quel periodo.



giovedì 27 giugno 2013

PIETRO SCAGLIONE


 Buscetta: "Nel ' 70, mi incontrai con Salvatore Greco per un colpo di Stato in Sicilia. Da quel momento, dopo aver parlato, io e Greco andammo via. Liggio decise... di creare un clima di tensione nel mondo politico, per preparare il colpo politico. Ognuno decise quale fosse il politico da colpire. A Palermo fu colpito un fascista. L' obiettivo di Liggio fu il procuratore Scaglione. Perche' in quel momento Scaglione era interessato alle rivelazioni di una donna che aveva accusato Vincenzo Riina. Ma non e' vero che Scaglione era vicino agli uomini d' onore. La verita' e' che bisognava minare le basi dello Stato... Ci chiamo' Pippo Calderone per farci sapere che si stava preparando un colpo di Stato e che Borghese voleva utilizzare i mafiosi in Sicilia

Pietro Scaglione (Palermo, 2 marzo 1906 – Palermo, 5 maggio 1971) dopo essere entrato in magistratura nel 1928 e dopo avere esordito in aula come pubblico ministero negli anni quaranta, Scaglione indagò sulla banda Giuliano e preparò dure requisitorie contro gli assassini del sindacalista Salvatore Carnevale, ucciso nel 1955, negli anni del latifondismo e delle lotte contadine per la redistribuzione delle terre. La parte civile della famiglia Carnevale fu rappresentata dal futuro presidente della Repubblica, il socialista Sandro Pertini, e dagli avvocati Nino Taormina e Nino Sorgi, anche loro socialisti. Si contrapposero ad un altro futuro presidente della Repubblica, il democristiano Giovanni Leone, difensore degli imputati (i campieri della famiglia aristocratica Notarbartolo). L'impianto accusatorio della Procura di Palermo (supportato dalla parte civile) fu, però, vanificato da altre corti. Alla fine, dopo un lungo iter giudiziario tra assoluzioni e condanne in vari tribunali italiani, la Corte di Appello di Santa Maria di Capua Vetere condannò i campieri della principessa Notarbartolo all'ergastolo, accogliendo le intuizioni di Scaglione, Pertini, Sorgi e Taormina.
File:Pietro Scaglione.jpgDiventato procuratore capo nel 1962, Scaglione indagò sulla strage di Ciaculli e inquisì Salvo Lima, Vito Ciancimino e altri politici locali e nazionali. Pietro Scaglione "fu convinto assertore che la mafia aveva origini politiche e che i mafiosi di maggior rilievo bisognava snidarli nelle pubbliche amministrazioni".
Dopo la strage mafiosa di Ciaculli del 1963, grazie alle inchieste condotte dall'Ufficio Istruzione del Tribunale di Palermo (guidato da Cesare Terranova) e dalla Procura della Repubblica (diretta da Pietro Scaglione) "le organizzazioni mafiose furono scardinate e disperse", come si legge nella Relazione conclusiva della Commissione parlamentare antimafia del 1976.
Pietro Scaglione era impegnato anche nel volontariato e divenne Presidente del Consiglio di Patronato per l'assistenza alle famiglie dei carcerati e degli ex detenuti, promuovendo, tra l'altro, la costruzione di un asilo nido; per queste attività sociali, gli fu conferito dal Ministero della giustizia il Diploma di primo grado al merito della redenzione sociale, con facoltà di fregiarsi della relativa medaglia d'oro. Infine, con Decreto dello stesso Ministero della Giustizia del 1991, previo parere favorevole del Consiglio Superiore della Magistratura, Pietro Scaglione fu riconosciuto "magistrato caduto vittima del dovere e della mafia". 



L'omicidio
Scaglione, che era stato da poco destinato a procuratore generale di Lecce, venne assassinato a colpi di pistola il 5 maggio 1971 in via dei Cipressi a Palermo, dopo essere uscito dal cimitero dove era andato a pregare sulla tomba della moglie, mentre era a bordo di una Fiat 1500 nera insieme al suo autista Antonino Lo Russo, che rimase pure ucciso. Il giorno seguente Scaglione si sarebbe dovuto recare a Milano per testimoniare sull'esistenza di una telefonata avvenuta tra il commercialista Antonino Buttafuoco e l'avvocato Vito Guarrasi durante le indagini sulla scomparsa del giornalista Mauro De Mauro, coordinate dallo stesso Scaglione; Buttafuoco infatti era pesantemente implicato nella scomparsa di De Mauro ed era anche strettamente legato a Guarrasi e al boss mafioso Luciano Leggio, a cui era solito fare visita. 
Inoltre Scaglione si era incontrato con De Mauro pochi giorni prima che questi scomparisse perché il giornalista era entrato in possesso di notizie su Vito Guarrasi e l'onorevole Graziano Verzotto, implicati nell'omicidio di Enrico Mattei, presidente dell'ENI.
L'assassinio di Scaglione si può considerare il primo omicidio eccellente compiuto in Sicilia dopo quello di Emanuele Notabartolo del 1893. Dopo la sua morte si diffusero insinuazioni relative ad una sua collusione e disponibilità ad insabbiare le inchieste, voci che molte fonti giudicano errate, come ribadito dalle sentenze irrevocabili, che lo definiscono magistrato integerrimo.
Le motivazioni ed i retroscena dell'omicidio di Scaglione vennero chiariti dal pentito Tommaso Buscetta: il crimine venne deciso da Luciano Leggio ed eseguito da lui stesso insieme al suo luogotenente Salvatore Riina.
In particolare, come scrivono i giudici del celebre Maxiprocesso di Palermo (istruito da Antonino Caponnetto e Giovanni Falcone), Buscetta definì Pietro Scaglione "un magistrato integerrimo e spietato persecutore della mafia". Sempre secondo Buscetta, il delitto sarebbe stato eseguito dai Corleonesi per diversi moventi, tra i quali l'eliminazione di un "nemico giurato della mafia" come Scaglione e la volontà di fare ricadere la colpa del delitto sul clan dei Rimi di Alcamo, per i quali il procuratore Scaglione si accingeva a chiedere il rinvio a giudizio.

La testimonianza di Piero Grasso 
Nel libro la Mafia Invisibile, il superprocuratore antimafia Piero Grasso (intervistato da Saverio Lodato) si occupa ampiamente dell'omicidio Scaglione affermando, tra le altre cose:
« Ricordo le prime campagne di delegittimazione sulla figura del magistrato. Ricordo che circolarono certe voci per gettare ombre sulla sua attività: calunnie poi categoricamente smentite dalle indagini successive. Scaglione aveva sempre tenuto un atteggiamento coerente e rigoroso nei confronti di una criminalità che allora era ancora difficilmente decifrabile come mafiosa. »
(Lodato; Grasso, La mafia invisibile. La nuova strategia di Cosa Nostra, Milano, Arnoldo Mondadori Editore, 2001, p. 91 ss.)


File:Pietro Scaglione - Antonino Lorusso - Lapide Palermo.jpg

sabato 22 giugno 2013

MARIO SCELBA





Nacque a Caltagirone nel 1901; Membro della prima ora del Partito Popolare, con le elezioni del 1948 diventò deputato al Parlamento Italiano.
Fu ministro dell'interno dal 2 febbraio 1947 al 7 luglio 1953 (dall'11 luglio al 18 settembre 1952 fu sostituito da Giuseppe Spataro perché colpito da malattia), dal 10 febbraio 1954 al 6 luglio 1955 e dal 26 luglio 1960 al 21 febbraio 1961. È stato il 4º Presidente del Consiglio dei ministri della Repubblica Italiana dal 10 febbraio 1954 al 6 luglio 1955.
Mario Scelba conosceva Don Sturzo sin dalla più tenera età, e ne divenne segretario particolare nel 1921. Durante il Ventennio esercitò la professione di avvocato civilista, e divenne amico di Alcide de Gasperi.
Nel 1943, sbarcati gli alleati in Sicilia, contribuì a scrivere il primo documento programmatico del partito, “le Idee ricostruttive della Democrazia cristiana”.



Le elezioni del 1948
In vista delle elezioni del 1948 preparò lo Stato al possibile scoppio di una guerra civile, rafforzando la polizia, espungendo da essa elementi considerati (dal punto di vista   di dubbia fedeltà, conseguenti ad arruolamenti provvisori avvenuti sul finire della guerra (Polizia Partigiana).
Dopo le elezioni divenne meno acuto il pericolo di insurrezione generale armata delle sinistre. Si passò al tempo delle manifestazioni, violente ma in genere non armate. Nell'Italia di quegli anni, le manifestazioni erano organizzate soprattutto dai partiti Comunista e Socialista, per cui Scelba si fece rapidamente fama di nemico e persecutore del comunismo.
Con le elezioni del 1948 diventò frattanto deputato al Parlamento Italiano, dove fu costantemente rieletto fino al 1968, quando passò al Senato.
La percezione da parte dei simpatizzanti del Partito Comunista e del Partito Socialista di essere oggetto di una repressione mirata, era motivata anche dal fatto che la repressione delle manifestazioni avveniva di norma in modo molto cruento: la cronaca di quei sei anni riporta in tutto circa 150 morti fra scioperanti e manifestanti vari e migliaia di feriti ad opera delle forze di polizia, in particolare della "Celere", preposta alle operazioni di ordine pubblico.
Scelba fu colui che coniò, il 6 giugno 1949 a Venezia, nel corso del terzo congresso nazionale della Democrazia Cristiana, il termine Culturame.
Scelba esercitò grande fermezza nei confronti di don Zeno Saltini protagonista di grandi iniziative a favore degli orfani e dei diseredati, tra le quali Nomadelfia, ma le cui idee progressiste avrebbero potuto essere confuse con l'applicazione degli ideali comunisti. La sua opposizione a don Zeno e a Nomadelfia venne pesantemente criticata sia dagli intellettuali della sinistra che da quelli cattolici:
« In questo paese dove centinaia di enti parassitari succhiano lo Stato, dove si buttano via miliardi per finanziare esposizioni inutili, manifestazioni balorde e stagioni vuote, non s' è trovato niente per aiutare don Zeno e Nomadelfia che mantenevano 700 bambini dispersi e privi di famiglia. Peggio. Quando la situazione precipitò, per essere sicuri che non potessero più sfuggire di mano, che non potessero più rialzare la testa, s' impose per loro la forma più odiosa e peggiore: la liquidazione coatta. Un bel giorno la polizia arrivò a Nomadelfia. I ragazzi furono tolti alle mamme adottive, caricati coi loro fagotti sui camion, e sparpagliati per tutta l'Italia in istituti diversi, da dove scrivono ancora lettere accorate, e di tanto in tanto scappano. »
(Filippo Sacchi, La Stampa, 17 dicembre 1953)

Scelba ed Andreotti


La repressione politica nel secondo dopoguerra
Secondo Giuseppe Carlo Marino, docente ordinario dell'Università di Palermo, storico e scrittore, Scelba, divenuto Ministro dell'Interno il 2 febbraio 1947, diede il via ad una politica repressiva antidemocratica verso gli scioperi causando numerose vittime e feriti nel corso della sua funzione pubblica. Sempre secondo il parere di tale studioso, l'avversione a idee di giustizia sociale di stampo socialcomunista in nome di una priorità di ordine economico portò a violare le libertà costituzionali di opinione e assemblea agli appartenenti alle formazioni sindacali e delle sinistre.
Secondo Elena Aga-Rossi, ordinario di storia contemporanea presso l'Università dell'Aquila, invece, la riorganizzazione della polizia da lui effettuata avrebbe permesso una riduzione dei delitti politici e un miglioramento della sicurezza dei cittadini.






L'evoluzione successiva 
Il suo nome è legato anche a quella che venne definita all'epoca dalle opposizioni la "Legge truffa", il tentativo di modificare in senso maggioritario la legge proporzionale vigente dal 1946, introducendo un premio di maggioranza consistente nell'assegnazione del 65% dei seggi della Camera dei deputati alla lista o a un gruppo di liste apparentate in caso di raggiungimento del 50% più uno dei voti validi. La Legge n° 148 del 31 marzo 1953 passò con i soli voti della maggioranza democristiana - con Scelba ministro dell'Interno - ma non ebbe effetti pratici, dal momento che alle elezioni politiche dello stesso anno la Democrazia Cristiana e le liste a essa apparentate non ottennero la maggioranza assoluta.
Scelba lasciò la Presidenza del Consiglio (era anche ministro ad interim degli Interni) dopo l'elezione a Presidente della Repubblica di Giovanni Gronchi, nel 1955. Ritrovò brevemente il ministero degli Interni nel luglio 1960, in occasione del governo varato da Fanfani, dopo l'episodio increscioso del governo Tambroni con i gravi fatti di Genova del 30 giugno 1960 e quelli contestuali di Roma e Reggio Emilia, che aveva creato, tra l'altro, il sospetto della minaccia di colpo di stato in chiave reazionaria.
Ostile al centrosinistra, dopo l'avvento del primo governo Moro nel quale per la prima volta entravano a far parte i socialisti decise di assumere una posizione defilata. Nel 1966 fu invitato a far parte del terzo governo Moro, sempre di centrosinistra, ma rifiutò l'offerta. Nel 1969 fu eletto Presidente del Parlamento Europeo, carica che avrebbe mantenuto fino al 1971, e presidente del Consiglio nazionale della Democrazia Cristiana, incarico che avrebbe lasciato nel 1973. Costantemente rieletto, fece parte del Senato della Repubblica dal 1968 al 1979, anno in cui si ritirò dalla vita politica.
Fra le personalità a lui maggiormante legate, il futuro Presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro.
I suoi funerali si tennero, alla presenza dei massimi dirigenti della Democrazia Cristiana del tempo, il 31 ottobre 1991 nella chiesa di San Gioacchino nel quartiere Prati, a Roma.
A seconda dei punti di vista è stato considerato o l'uomo che, riorganizzando le forze dell'ordine, ha salvato lo Stato democratico dal presunto sovversivismo attribuito al Partito Comunista Italiano e dal revanscismo neofascista, oppure l'uomo simbolo della repressione poliziesca del dissenso negli anni cinquanta.



Scelba e la strage di Portella della Ginestra 
Dopo la strage di Portella della Ginestra, avvenuta il 1 maggio 1947, il suo nome venne fatto da Gaspare Pisciotta, luogotenente di Salvatore Giuliano, e da altri banditi in relazione ai gravissimi fatti avvenuti in Sicilia. Da diversi storici è stato investigato quale elemento chiave delle connessioni di potere che in un modo o in un altro avrebbero contribuito alla strage medesima e che, al fine di eliminare definitivamente ogni traccia, avrebbero poi deciso l'uccisione del capobanda di Montelepre, avvenuta il 5 luglio 1950.
Ricostruzioni e ipotesi su quei fatti risultano, fra le tante, nell'opera Il binomio Giuliano-Scelba di Carlo Ruta (1995), in Salvatore Giuliano di Giuseppe Casarrubea (2001) e in Segreti di Stato di Paolo Benvenuti (2003).
Tuttavia non fu mai portata alcuna prova e nulla fu mai accertato.

Legge Scelba 
Pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n°143 il 23 giugno 1952, la legge n° 645 (più comunemente chiamata "Legge Scelba") vieta l'apologia del regime fascista e del Partito Nazionale Fascista, classificate come reato.



venerdì 21 giugno 2013

BERNARDO MATTARELLA





Bernardo Mattarella (Castellammare del Golfo, 15 settembre 1905 – Roma, 1 marzo 1971) è stato un politico italiano,  il principale avversario del separatismo siciliano e più volte Ministro della Repubblica. È il padre di Piersanti e Sergio anch'essi uomini politici.
Di umili origini, si laureò in giurisprudenza a Palermo dove visse fino al 1948 quando si trasferì a Roma. Antifascista. Nel 1941-1943 partecipò a Roma alle riunioni clandestine guidate da Alcide De Gasperi da cui nacque la Democrazia Cristiana.
Nei primi due governi del Comitato di liberazione nazionale, presieduti da Ivanoe Bonomi e composti da tre ministri e tre sottosegretari per ciascuno dei sei partiti del CLN (1944 – 1945), ricoprì la carica di Sottosegretario alla Pubblica Istruzione. Nel 1945, con De Gasperi Segretario nazionale, divenne Vice Segretario della Democrazia Cristiana, insieme ad Attilio Piccioni e a Giuseppe Dossetti.
Alle elezioni dell'Assemblea Costituente del 2 giugno 1946 fu eletto per la DC nella circoscrizione elettorale della Sicilia Occidentale e fece parte dell'Ufficio di Presidenza della Costituente come Questore. Il 18 aprile 1948 alle elezioni del primo parlamento repubblicano, Mattarella fu rieletto nella medesima circoscrizione, nella quale sarà sempre eletto.
Nel quinto Governo De Gasperi (1948) fu nominato Sottosegretario ai Trasporti, carica che mantenne anche nel sesto e settimo degli esecutivi guidati dallo statista trentino.
Costituitosi l'ottavo Governo De Gasperi il 16 luglio 1953, ebbe affidato il Ministero della Marina Mercantile. Caduto questo gabinetto dopo appena 12 giorni e formatosi il Governo Pella il 18 agosto 1953, ebbe l'incarico di Ministro dei Trasporti che mantenne anche nel successivo Governo Fanfani, che cadde il 30 gennaio 1954 a soli 12 giorni dalla sua costituzione. Nel successivo governo guidato da Mario Scelba, ebbe riaffidato lo stesso ministero. Il 6 luglio 1955 nacque il primo Governo Segni e Mattarella passò dai Trasporti al Commercio con l'Estero. Adone Zoli, costituito il suo governo il 18 maggio 1957, lo volle Ministro delle Poste e Telecomunicazioni. Nella terza Legislatura fu Presidente della Commissione Trasporti della Camera dei deputati e componente della direzione nazionale della Democrazia Cristiana, per poi tornare al governo, come Ministro dei Trasporti, nel quarto Governo Fanfani (21 febbraio 1962).
Dopo le elezioni politiche del 1963 si formò il primo Governo Leone, durato in carica dal 21 giugno al 5 novembre 1963, nel quale Mattarella fu Ministro per l'Agricoltura e le Foreste. Nel secondo governo della quarta Legislatura (primo Governo Moro) entrato in carica il 4 dicembre 1963 ritornò al Ministero del Commercio con l'Estero, che mantenne anche nel successivo secondo Governo Moro che rimase in carica fino al 21 gennaio 1966.
Nel successivo governo Moro Mattarella non fu nominato Ministro per motivi di equilibrio tra le correnti democristiane, come affermato da Moro in una lettera con cui ringraziava Mattarella per il lavoro svolto al governo. Mattarella divenne Presidente della Commissione Difesa della Camera dei deputati e rientrò nella direzione nazionale della D.C. E mantenne questi due incarichi fino alla sua morte, a seguito di una malattia durata alcuni mesi.
Alle politiche del 1968, a meno di tre anni dalla morte, fu eletto per l'ultima volta alla Camera dei deputati.

L'atteggiamento nei confronti della Mafia 
La sentenza del Tribunale di Roma del 21.6.1967, confermata dalla Corte d'appello e dalla Corte di cassazione, afferma: “Mattarella ha espresso sempre in modo inequivoco la sua condanna del fenomeno mafioso” e “non è mai entrato in contatto con l' ambiente mafioso da lui invece apertamente e decisamente osteggiato nel corso di tutta la sua carriera politica”.
Nel 1943 fu il primo a entrare in contatto epistolare con don Luigi Sturzo, ancora negli Stati Uniti. In una lettera del 24 maggio 1944 manifestava a Sturzo l'allarme per l'azione del separatismo siciliano, scrivendogli: ”È comunque un movimento che occorre seguire e vigilare continuamente, anche per l'elemento poco buono da cui è circondato, la mafia, riportata dai feudatari separatisti all'onore della ribalta politica". In altra lettera del 29 giugno 1946, poco dopo il voto per l'Assemblea Costituente, Bernardo Mattarella così scriveva a Luigi Sturzo: “La lotta elettorale è stata dura e faticosa, ma ci dato anche il grande risultato del pieno fallimento della mafia... I separatisti, che ne dividevano con i liberali i favori, sono stati miseramente sconfitti”. In un articolo del 3 giugno 1944 su “Popolo e Libertà”, il giornale che dirigeva, Bernardo Mattarella, pubblicò un articolo in cui attaccava il leader dei separatisti, accusandolo di avere l'appoggio della mafia e scrivendo: “Ha sulla coscienza la triste responsabilità di avere riunito attorno a sé, cercando di ripotenziarla, l'organizzazione più pericolosa e sopraffattrice che abbia afflitto, per lunghi anni, le nostre contrade.”
Nel 1958, in una lunga intervista sugli strumenti per sconfiggere la mafia – su Il Giornale del Mezzogiorno del 27 novembre 1958 - espresse opinione favorevole all'istituzione di una commissione di inchiesta sulla mafia, che venne istituita anni dopo.
Al processo per la strage di Portella della Ginestra Mattarella fu accusato da Gaspare Pisciotta di essere implicato nella strage. La sentenza della Corte di assise di Viterbo che concluse quel processo dichiarò infondate le accuse di Pisciotta, componente della banda Giuliano e tra gli autori della strage. Anche il Pubblico Ministero nella sua requisitoria al processo di Viterbo aveva definito inaffidabile Pisciotta che aveva fornito nove diverse versioni della strage e inattendibili le sue accuse contro Scelba e Mattarella. Tali le giudicò anche l'Ufficio istruzione presso la Corte di Appello di Palermo su denunzia presentata dall'on. Giuseppe Montalbano, del PCI, contro tre deputati monarchici e che escludeva coinvolgimenti degli onn. Scelba e Mattarella. Del resto che l'atteggiamento di Pisciotta facesse parte di una manovra organizzata per depistare era stato dichiarato nel corso del processo dalla stessa madre di Giuliano e da alcuni componenti della banda e fu confermato, davanti alla Commissione parlamentare antimafia, sia da questi ultimi nel marzo 1966 sia, nel giugno 1972, dai due membri della banda che avevano seguito Pisciotta in quella manovra.
Mattarella sarebbe stato tra coloro che accolsero Joe Bonanno quando arrivò all'aeroporto di Fiumicino a Roma nel 1957. Questa circostanza è falsa. Essa è contenuta in un libro di memorie del Bonanno, invero piuttosto romanzato, scritto, come si legge nella presentazione, da un terzo: vi si narra del viaggio che il Bonanno fece in Italia, nel settembre 1957, al seguito del direttore del giornale “Il progresso italo americano” F. Pope. Come risulta da quel giornale essi arrivarono a Roma il 13 settembre di quell'anno e l'on. Bernardo Mattarella non era affatto presente. È facile verificarlo sia sul giornale di Pope che su giornali italiani. Del resto, quello stesso giorno, Mattarella, allora Ministro delle Poste, si trovava in altra e lontana città d'Italia per inaugurare un'opera pubblica.
Il sociologo Danilo Dolci lo accusò nel 1965, con un dossier presentato in una conferenza stampa (riprodotto nel libro Chi gioca solo del 1966) di collusioni con la mafia. Mattarella lo querelò, concedendogli facoltà di prova e, dopo un dibattimento durato circa due anni, con l'escussione di decine di testimoni e l'acquisizione di un'amplissima documentazione, e durante il quale Dolci chiese che gli venisse applicata l'amnistia varata nell'anno precedente, questi fu condannato per diffamazione a due anni di reclusione, che non scontò per effetto dell'indulto approvato l'anno precedente. Nella sentenza del Tribunale di Roma del 21.6.67, già citata e confermata in Appello e in Cassazione, è scritto: “Nulla di quanto attribuito al parlamentare siciliano può dirsi rimasto in piedi”. “Ha in sostanza Mattarella portato a conoscenza del Tribunale, obiettivamente documentandolo, l'atteggiamento di insuperabile contrarietà alla mafia assunto e mantenuto nel corso di tutta la sua carriera politica”. “Nulla di quanto contenuto nel dossier che ha costituito la base del massiccio attacco nei riguardi di Mattarella ha trovato quindi conforto e riscontro sul piano della prova, dimostrandosi le dichiarazioni raccolte dagli imputati – Dolci e il suo collaboratore Alasia – nient'altro che il frutto di irresponsabili pettegolezzi, di malevoli dicerie se non addirittura di autentiche falsità”.”Basse, infondate insinuazioni, quindi, calunniose interpretazione di fatti ed avvenimenti, interessate strumentalizzazione di testimonianze che lungi dal fare la storia di un ambiente e di un personaggio, come incautamente asserito dal Dolci nel corso della conferenza stampa, possono al più favorire la peggiore confusione delle idee, intralciare se non addirittura fuorviare il corso degli accertamenti, condurre a infondati giudizi nei confronti di uomini e di cose”.

' VI DICO I NOMI DEI PADRI DELLA MAFIA'
Repubblica 1996
Bernardo Mattarella, ministro della Repubblica e uomo d' onore. Girolamo Bellavista, principe del Foro e uomo d' onore. Giovanni Musotto, docente di Diritto Penale e uomo d' onore. Calogero Volpe, sottosegretario alle Finanze e uomo d' onore, Casimiro Vizzini, senatore della Repubblica e uomo d' onore... L' ultimo pentito racconta la storia "segreta" di Cosa Nostra, fa i nomi dei suoi più illustri affiliati degli Anni Cinquanta e Sessanta, spiega con dovizia di particolari il ruolo di ministri e avvocati al servizio delle "famiglie" della Sicilia occidentale. E' la verità di Francesco Di Carlo, il boss di Altofonte che i procuratori di Palermo definiscono "il nuovo Buscetta".... 

sabato 15 giugno 2013

GASPARE PISCIOTTA





Rosalia Pisciotta (la sorella): «Quali caffè e caffè. Ci misero la stricnina nella medicina a me' frati quando tornò da Viterbo. Cretinu pure lui. ' A Palermo parlerò' , diciva. E parlava dei potenti. Sbaglio grande. O riferiva tutto allora e si liberava in quell' aula, o si stava zittu». 
(da corriere della sera 2007)


Gaspare Pisciotta (Montelepre, 5 marzo 1924 – Palermo, 9 febbraio 1954) era compagno e amico del bandito siciliano Salvatore Giuliano e considerato il vice di Giuliano nella banda omonima. È noto per essere stato uno dei partecipanti alla strage di Portella della Ginestra del 1º maggio 1947. È considerato il responsabile dell'uccisione del bandito Salvatore Giuliano.

Pisciotta a destra con un giovane Salvatore Giuliano


Origini 
Gaspare Pisciotta nacque a Montelepre nella Sicilia occidentale nel 1924. Contrariamente a quanto è largamente ritenuto, lui e Salvatore Giuliano non erano cugini ma si conobbero da bambini e diventarono amici da ragazzi. Mentre Giuliano rimase a Montelepre durante la guerra, Pisciotta si arruolò nell'esercito e fu catturato mentre combatteva contro i tedeschi. Fu rilasciato nel 1945, malato di tubercolosi, e ritornò in Sicilia dove si unì alla campagna separatista di Giuliano, diventando uno dei membri fondatori della banda.





Arresto
Poco dopo la morte di Salvatore Giuliano, avvenuta il 5 luglio 1950, Pisciotta fu catturato e incarcerato. In carcere fece la sorprendente rivelazione che fu lui ad uccidere Giuliano nel sonno, un'affermazione che contraddiceva la versione delle forze dell'ordine che Giuliano fosse stato ucciso dal capitano dei Carabinieri Antonio Perenze in uno scontro a fuoco a Castelvetrano. Sosteneva di aver ucciso Salvatore Giuliano dietro istruzioni del Ministro dell'Interno Mario Scelba e di aver raggiunto un accordo con il colonnello Luca, comandante delle forze anti-banditismo in Sicilia, di collaborare, a condizione che non fosse condannato e che Luca sarebbe intervenuto in suo favore qualora fosse stato arrestato.
Al processo per il massacro di Portella della Ginestra, Pisciotta dichiarò: "Coloro che ci avevano fatto le promesse si chiamavano così: il deputato DC Bernardo Mattarella, il principe Alliata, l'onorevole monarchico Marchesano e anche il signor Scelba… Furono Marchesano, il principe Alliata, l'onorevole Mattarella a ordinare la strage di Portella della Ginestra… Prima del massacro incontrarono Giuliano…". Ciononostante Mattarella, Alliata e Marchesano, in un processo sul loro supposto ruolo nell'evento, furono dichiarati innocenti dalla Corte di Appello di Palermo. Durante il processo Pisciotta non poté confermare le accuse presenti nella documentazione di Giuliano nella quale questi nominava il Governo Italiano, gli alti ufficiali dei Carabinieri e i mafiosi coinvolti nella sua banda. E ancora: “Servimmo con lealtà e disinteresse i separatisti, i monarchici, i democristiani e tutti gli appartenenti a tali partiti che sono a Roma con alte cariche, mentre noi siamo stati scaricati in carcere. Banditi, mafiosi e carabinieri eravamo la stessa cosa”.


Principe Alliata di Montereale
Bernardo Mattarella
Mario Scelba 1947

Fu condannato all'ergastolo e ai lavori forzati; gran parte degli altri 70 banditi incontrarono la stessa sorte. Altri erano in libertà, ma uno per uno scomparirono tutti. Quando Pisciotta si accorse di essere stato abbandonato da tutti e fu condannato, dichiarò che avrebbe raccontato tutta la verità, in particolare su chi firmò la lettera che fu recapitata a Giuliano il 27 aprile 1947, che commissionava il massacro di Portella della Ginestra in cambio della libertà per tutti i membri della banda, e che Giuliano distrusse immediatamente.
La madre di Salvatore Giuliano sospettò Pisciotta come un potenziale traditore del figlio prima che lo stesso fosse assassinato, benché Giuliano le avesse scritto: "...noi ci rispettiamo come fratelli...". Se la testimonianza di Pisciotta fu vera, Giuliano non sospettò nulla fino alla sua morte.

Prigionia e morte 
In prigione, Pisciotta capì che la sua vita era in pericolo. Venne scritto che egli disse: “Uno di questi giorni, mi uccideranno” tanto che rifiutò di dividere la cella con qualcuno prima della sentenza del processo. Secondo alcuni, Gaspare aveva un piccolo passero al quale faceva mangiare il cibo prima di mangiarlo a sua volta, per paura di essere avvelenato, e non mangiava il cibo del carcere ma soltanto quello preparato da sua madre e che gli veniva recapitato in cella. In ogni caso la mattina del 9 febbraio 1954, Gaspare prese un preparato vitaminico che egli stesso sciolse nel caffè. Quasi immediatamente venne colpito da lancinanti dolori addominali e, nonostante fosse stato portato immediatamente all'infermeria della prigione, morì nel giro di quaranta minuti. La causa del decesso, secondo gli esiti dell'autopsia, fu dovuta all'ingestione di 20 mg di stricnina.
Sia il Governo italiano che la mafia furono indicati come i mandanti dell'uccisione di Pisciotta, ma nessuno venne processato per la sua morte. La madre di Gaspare, Rosalia, scrisse una lettera aperta alla stampa il 18 marzo di quell'anno denunciando il possibile coinvolgimento di politici corrotti e della mafia nell'uccisione del figlio, dicendo: “Sì, è vero che mio figlio Gaspare non potrà più parlare e molta gente è convinta di essere al sicuro; ma chissà, forse qualche altra cosa può venir fuori”. Gaspare Pisciotta si suppone abbia potuto scrivere una autobiografia in carcere, alla quale la madre probabilmente si riferiva e che il fratello Pietro provò a far pubblicare. Questo documento andò però smarrito ed il suo contenuto rimase sempre un segreto.

Portella della Ginestra una tesi recente
Una recente tesi più grave attribuisce, invece, la strage ad una coincidenza di interessi tra i post-fascisti, che durante la guerra avevano combattuto nella Xª Flottiglia MAS di Junio Valerio Borghese, i servizi segreti USA (preoccupati dell'avanzata social-comunista in Italia), ed i latifondisti siciliani.
« I rapporti desecretati dell' OSS e del CIC (i servizi segreti statunitensi della Seconda guerra mondiale), che provano l'esistenza di un patto scellerato in Sicilia tra la cosiddetta “banda Giuliano” e elementi già nel fascismo di Salò (in primis, la Decima Mas di Junio Valerio Borghese e la rete eversiva del principe Pignatelli nel meridione) sono il risultato di una ricerca promossa e realizzata negli ultimi anni da Nicola Tranfaglia(Università di Torino), dal ricercatore indipendente Mario J. Cereghino e da chi scrive. »
(da Edscuola, Dossier a cura del prof. Giuseppe Casarrubea)