Francesco Pazienza è nato a Monteparano (Ta) il 17 marzo 1946 . Laureato in medicina, non ha mai esercitato la professione preferendo dedicarsi alla mediazione d' affari. Nel 1979 conosce il generale Giuseppe Santovito, futuro direttore del Sismi con cui collabora soprattutto in Francia e Stati Uniti. Nel 1981 compare nella trattativa tra camorra, servizi segreti e Dc per la liberazione di Ciro Cirillo rapito dalle Br. Nello stesso periodo diventa il braccio destro del banchiere Roberto Calvi.
Pazienza si era rifugiato negli Stati Uniti d'America, dove fu raggiunto da una prima richiesta di estradizione dell'Italia al governo statunitense nel 1984, ma non fu arrestato dalle autorità americane fino al 4 marzo 1985. La procedura di estradizione proseguì ed un giudice gli ordinò di farsi sottoporre a processo in Italia.
Un ricorso in appello di Pazienza non cambiò le cose, e perciò venne consegnato al governo Italiano nel giugno del 1986.
Per il crac del Banco Ambrosiano è condannato a 8 anni per concorso in bancarotta fraudolenta. Per la strage di Bologna è condannato a 10 anni di reclusione per calunnia aggravata è un faccendiere e agente segreto italiano noto per il suo coinvolgimento in vari episodi oscuri di terrorismo e stragismo.
Dall'aprile del 2007, si trova in Libertà vigilata nel comune di Lerici, dopo aver trascorso diversi anni in prigione.
Mehmet Ali Ağca
Dopo l'attentato a Giovanni Paolo II nel 1981 da parte di Mehmet Ali Ağca, questi dichiarò di essere stato visitato da Pazienza nella sua cella ad Ascoli Piceno (ciò fu dichiarato però solo dopo che il giudice convocò Pazienza in aula). Questa visita di Pazienza ad Ağca fu dichiarata anche dal mafioso Giovanni Pandico. Dalla sua prigione a New York, Pazienza negò di aver mai fatto visita ad Ağca.
Pazienza fu interrogato su questi fatti a New York dal giudice istruttore italiano Ilario Martella. Poco tempo dopo, Martella ritirò le accuse che Ağca fosse stato "addestrato" da presunti elementi dell'intelligence militare italiana.
Rapimento di Ciro Cirillo
Pazienza fu coinvolto personalmente nei negoziati per il rilascio dell'assessore democristiano ai lavori pubblici della Regione Campania (ed ex presidente della stessa) Ciro Cirillo, sequestrato il 27 aprile 1981 dalle Brigate Rosse. Egli portò avanti le trattative con Vincenzo Casillo, principale luogotenente del boss camorristaRaffaele Cutolo.
Banco Ambrosiano
Durante la sua latitanza, Pazienza fu interrogato negli Stati Uniti da alcuni funzionari doganali circa la scomparsa di fondi dal Banco Ambrosiano. Pazienza dichiarò che questi funzionari doganali gli avevano riferito che Stefano Delle Chiaie era stato visto a Miami, Florida, con un turco non identificato, e ripeté la sua posizione durante il suo coinvolgimento nel processo sulla Strage di Bologna.Non è ancora chiaro se questo turco era Oral Çelik o Abdullah Çatlı.
La strage alla stazione di Bologna
Pazienza fu condannato nel 1988 per aver tentato di depistare le indagini sulla strage di Bologna, sistemando lo stesso tipo di esplosivo in un treno Milano - Taranto nel 1981. Nel 1990, la sua condanna fu ribaltata in appello, ma un nuovo processo terminò con una condanna definitiva nel 1995.
INTERVISTA PAZIENZA-GABANELLI
Milena Gabanelli per "la Repubblica"
Francesco Pazienza ha scontato 10 anni per depistaggio alle indagini sulla strage di Bologna, altri 3 per il crac Ambrosiano e associazione a delinquere. Amico di Noriega, frequentatore dei servizi segreti francesi, americani e sudamericani, nel 1980 è a capo del Super Sismi.
Braccio destro di Licio Gelli, il suo ambiente è il sottobosco di confine fra l´alta finanza e l´alta criminalità, l´alta politica e il Vaticano. Protagonista delle vicende più tragiche della storia italiana degli anni ‘80, è depositario di informazioni mai rivelate, altre raccontate a modo suo. Laureato in medicina a Taranto, non ha mai indossato un camice.
Negli anni ‘70 vive a Parigi e fa intermediazioni d´affari per il miliardario greco Ghertsos. Poi l´incontro con il capo del Sismi, Santovito. Grandi alberghi, yacht, belle donne, sigari rigorosamente cubani e tagliasigari d´oro. Un´altra epoca. Adesso ha 62 anni e fuma le Capri, mentre cammina da uomo libero sul lungomare di Lerici.
Cominciamo dall´inizio: come avviene l´incontro con Santovito?
«Me lo presentò l´ingegner Berarducci, oggi segretario generale dell´Eurispes. Santovito era suo zio, e mi chiese di fare il suo consulente internazionale».
E perché Santovito le dà questo incarico senza conoscerlo prima?
«Sa, io parlavo diverse lingue e avevo un sacco di relazioni in giro per il mondo.
Normalmente non avviene così, ma all´epoca era quasi tutto improntato all´improvvisazione».
E in cambio cosa riceveva?
«Rimborso spese. Siccome non avevo bisogno di soldi, era quello che volevo: se volevo andare a New York in Concorde, andavo in Concorde. Mi sembrava tutto molto avventuroso».
Si dice che lei sia stato determinante nella sconfitta di Carter contro Reagan.
"La storia comincia con Mike Ledeen a Washington, che mi aveva presentato Santovito; lui dirigeva il Washington Quarterly e faceva capo ad una lobby legata ai repubblicani (e alla Cia-ndr). Così gli dico: "Guarda che quando c'è stata la festa per l'anniversario della rivoluzione libica, il fratello di Carter ha fraternizzato con George Habbash", che era il capo del Flp. E a quel punto disse: "Se tu mi dai le prove , noi possiamo fare l'ira di Dio"". E le prove come se le era procurate?
"Attraverso un giornalista siciliano, Giuseppe Settineri, che io mandai con un microfono addosso ad intervistare l'avvocato Papa, che faceva il lobbista e aveva partecipato alla festa di Gheddafi. Lui raccontò per filo e per segno tutto quello che era successo. Le foto dei festini me le avevano fornite Michele Papa e Federico Umberto D'Amato, la testa degli affari riservati del Viminale".
Il Viminale ha dunque interferito nelle elezioni di un paese alleato?
«Sissignore, però la débacle ci sarebbe stata ugualmente, ma non in misura così massiccia».
Lei, che non è un militare, diventa capo del Super Sismi. Cos´era?
«Il Super Sismi ero io con un gruppo di persone che gestivo in prima persona».
Marzo 1981, le Br sequestrano l´assessore campano Cirillo. Lei che ruolo ha avuto?
«Un ruolo importante. Fui sollecitato da Piccoli, allora segretario della Dc. Incontrai ad Acerra il numero due della Nuova Camorra Organizzata di Cutolo, Nicola Nuzzo. Mi disse che in dieci giorni Cirillo sarebbe stato liberato, e così è stato».
Chi ha pagato?
«Non i servizi. Il giudice Alemi disse di aver scoperto che furono i costruttori napoletani a tirar fuori un miliardo e mezzo di lire, che finirono alle Br».
Piccoli cosa le ha dato per questa consulenza?
«Niente, assolutamente niente, eravamo amici, non c´era un discorso mercantilistico». (Del miliardo e mezzo, alle Br finiscono 1.450 milioni. Chi ha imbustato i soldi del riscatto sarebbe Pazienza, che, secondo vox populi, avrebbe taglieggiato le Br tenendo per sé 50 milioni).
A gennaio 1981 sul treno Taranto-Milano viene piazzata una valigia con esplosivo della stessa composizione di quello usato nella stazione di Bologna... Ci sono dei documenti intestati a un francese e un tedesco, indicati dai servizi come autori di stragi avvenute a Monaco e Parigi. Si scoprirà poi che si trattava di depistaggio.
«Il depistaggio è stato fatto dal Sismi per non fare emergere la vera verità della bomba di Bologna. Secondo l´allora procuratore Domenico Sica c´era di mezzo la Libia, e coinvolgerla in quel momento avrebbe voluto dire tragedia per la Fiat e per l´Eni. Vada negli archivi delle sedute parlamentari: il 4 agosto 1980, Spadolini in persona presentò un´interrogazione parlamentare in cui attribuiva la bomba di Bologna a origini straniere mediorientali».
Ma qual era l´interesse mediorientale?
«L´Italia non poteva sottrarsi agli obblighi Nato, e quindi doveva fare un accordo con Malta, per proteggerla in caso di attacchi del colonnello Gheddafi. L´accordo fu firmato, e Gheddafi fece la ritorsione. Ustica porta la stessa firma. Me lo ha raccontato Domenico Sica. Quando tolgono il segreto di Stato la verità salterà fuori».
Lei è stato condannato a 10 anni per depistaggio, qualche prova a suo carico evidentemente c´era, i servizi segreti li comandava lei.
«Le prove a mio carico erano dovute al fatto che sono stato il braccio destro, mandato dagli americani, per sostituire Licio Gelli alla guida della P2. E siccome Gelli era il motore primo del depistaggio, io che ero il suo braccio destro, automaticamente...».
Quando è scoppiata la bomba a Bologna dov´era?
«A New York».
84 morti e 250 feriti, nel suo paese. Lei è consulente del Sismi, non ha pensato: "Adesso bisogna trovare chi è stato"?
«Io no. Perchè non è mio compito. I servizi segreti sono come un´azienda. Giusto? Se tu ti occupi di una cosa, non è che dici "adesso parliamo di Bologna, parliamo di Ustica"...».
1982. Calvi viene impiccato sotto un ponte. Si è parlato di un suo coinvolgimento.
«Sì, e qual era il mio interesse? Io non sono stato mai neanche indagato nell´omicidio Calvi. La sua morte è un mistero anche per me, comunque non si uccide Calvi a livello di Banda della Magliana... E non mi venga a dire che l´MI5 non sapesse che Calvi si trovava a Londra da giorni! I giochi di potere erano molto più grossi. Capisce cosa voglio dire?».
No.
«La morte di Calvi e lo scandalo del Banco Ambrosiano avrebbero imbarazzato pesantemente il Vaticano, che insieme all´Arabia Saudita voleva Gerusalemme città aperta a tutte le religioni, e Israele era contrario. Poi c´era lo scontro politico interno italiano, c´erano i comunisti, che hanno preso una valanga di soldi dal Banco Ambrosiano. Non è così semplice dire è A, B o C».
Di chi erano i soldi che andavano verso la Polonia?
«Arrivavano dai conti misti Ior-Banco Ambrosiano. L´organizzatore era Marcinkus d´accordo con papa Wojtila. Sono stato io a mandare 4 milioni di dollari in Polonia».
Ma come ha fatto tecnicamente?
«Vicino a Trieste, abbiamo fatto preparare una Lada col doppio fondo e dentro c´erano 4 milioni di dollari di lingottini d´oro di credito svizzero. Era aprile 1981, un prete polacco venne a ritirare questa Lada e la portò a Danzica. Qual era il discorso? Agli operai in sciopero non potevamo dare gli zloty, né i dollari perché i servizi segreti polacchi se ne sarebbero accorti. Anche perché lei può fare il patriota come vuole, però se a casa ha 4 bambini e non ha come farli mangiare, lo sciopero non lo fa. Giusto?».
Ma lei perché si portava su un aereo dei servizi segreti un ricercato per tentato omicidio, braccio destro di Pippo Calò, capo della banda della Magliana?
«Lei sta parlando di Balducci. Io sapevo che era uno strozzino, ma non è mai salito su un aereo dei servizi. Usava lo pseudonimo di Bergonzoni e una volta lo feci passare a Fiumicino mentre proveniva da Losanna. Era un favore che mi chiese il prefetto Umberto D´Amato, suo amico intimo». (Per questo "favore" Pazienza fu condannato per favoreggiamento e peculato: fu accertato che aveva trasportato, su un aereo dei servizi, il latitante Balducci sotto falso nome).
Nell´84 lei deposita da un notaio un documento intitolato "operazione ossa". "Ossa" starebbe per Onorata Società Sindona Andreotti. Che cos´era?
«All´epoca c´era il pericolo che Sindona potesse inventare dei coinvolgimenti di Andreotti in questioni di crimini organizzati. Bisognava capire cosa volesse fare Sindona per tirarsi fuori dai guai prima di rientrare in Italia quando si trovava nel carcere americano di New York».
Ci siete riusciti?
«Non c´è stato bisogno di fare nessuna misura attiva, ne abbiamo fatta una conoscitiva».
La misura attiva qualcuno l´ha fatta quando è finito nel carcere italiano...
«Qui parliamo del 1986. Nel carcere italiano ha bevuto un caffè di marca Pisciotta...».
Lei in quante carceri ha soggiornato?
«Alessandria, Parma e alla fine a Livorno. Complessivamente ho fatto 12 anni di carcere gratis».
Non si ritiene colpevole di nulla?
«Zero. Le racconto una cosa, 30 marzo 1994: un maggiore della Dia, nome M. cognome M. mi dice: "Lei è un uomo informatissimo, ci deve raccontare di come portava le lettere di Fabiola Moretti (compagna di De Pedis, componente della banda della Magliana, coinvolto nel rapimento di Emanuela Orlandi) al senatore Andreotti, nel suo ufficio privato. Sa, fra poco esce la sentenza di Bologna, e noi la mettiamo a posto".
Io gli ho detto: "A me di Andreotti non importa niente. Il problema è che quel che lei mi chiede di ricordare non è vero". Avevo il microfono addosso. Sa qual è la cosa comica? Che molti pensano che io sapessi di questo e di quell´altro e che non ho detto niente perché sono un duro. Non ho detto niente perché non sapevo. Capisce la differenza?».I
Quando è uscito dal carcere dove è andato?
«A casa dei miei genitori, comunque non è un problema ricominciare da capo».
Cosa fa ora per sbarcare il lunario?
«Il consulente per transazioni internazionali. Sto trattando un cementificio in Africa».
Come pensa di ricostruirsi una credibilità?
«La storia non è finita, sta cominciando il secondo tempo».
Muʿammar Abū Minyar ʿAbd al-Salām al-Qadhdhāfī(Sirte, 7 giugno 1942 – Sirte, 20 ottobre 2011) per quarantadue anni è stato la massima autorità del proprio paese, fino alla sua deposizione da parte del Consiglio nazionale di transizione (CNT) durante la Guerra civile libica del 2011, senza ricoprire stabilmente alcuna carica ufficiale ma fregiandosi soltanto del titolo onorifico di Guida e Comandante della Rivoluzione della Grande Jamāhīriyya Araba Libica Popolare.
Nel 1969 il ventisettenne Gheddafi incontra nello stesso anno del colpo di Stato libico il cinquantunenne Raʾīs egiziano Gamal Abd al-Nasser, suo modello ideologico, cui rimarrà sempre devoto.
Insoddisfatto del governo guidato dal re Idris I, giudicato da Gheddafi e da altri ufficiali troppo servile nei confronti di Stati Uniti e Francia, il 26 agosto del 1969 si pone alla guida del colpo di Stato organizzato contro il sovrano, che porta, il 1º settembre dello stesso anno, alla proclamazione della Repubblica guidata da un Consiglio del Comando della Rivoluzione composto da 12 militari di tendenze panarabe filo-nasseriane. Gheddafi, che nel frattempo si è autopromosso al grado di colonnello e si è messo a capo di tale Consiglio, instaura in Libia un regime che si trasforma in una vera e propria dittatura.
Una volta al potere, Gheddafi fa approvare dal Consiglio una nuova costituzione e abolisce le elezioni e tutti i partiti politici. La Libia non si può infatti considerare una democrazia, non essendovi concesse molte libertà politiche (tra cui, per esempio, il multipartitismo). La politica della prima parte del governo Gheddafi viene definita dai suoi sostenitori una "terza via" rispetto al comunismo e al capitalismo, nella quale cerca di coniugare i principi del panarabismo con quelli della socialdemocrazia. Gheddafi decide di esporre le proprie visioni politiche e filosofiche nel suo Libro verde (esplicito ammiccamento al Libretto rosso di Mao Tse-tung), che pubblica nel 1976.
In nome del Nazionalismo arabo, decide di nazionalizzare la maggior parte delle proprietà petrolifere straniere, di chiudere le basi militari statunitensi e britanniche, in special modo la base "Wheelus", ridenominata "ʿOqba bin Nāfiʿ" (dal nome del primo conquistatore arabo-musulmano delle regioni nordafricane) e di espropriare tutti i beni delle comunità italiana ed ebraica, espellendole dal paese.
Infatti, proprio fra le primissime iniziative del regime di Gheddafi, c'è l'adozione di misure sempre più restrittive nei confronti della popolazione italiana che era rimasta a vivere in quella che era stata la ex-colonia, limitazioni che culminano con il decreto di confisca del 21 luglio 1970 emanato per "restituire al popolo libico le ricchezze dei suoi figli e dei suoi avi usurpate dagli oppressori". Gli italiani vengono pertanto privati di ogni loro bene, compresi i contributi assistenziali versati all'INPS e da questo trasferiti, in base ad un accordo, all'istituto libico corrispondente, e sono sottoposti a progressive restrizioni che culminano con la costrizione a lasciare il Paese entro il 15 ottobre del 1970. Dal 1970, ogni 7 ottobre in Libia si celebra il “Giorno della vendetta”, in ricordo del sequestro di tutti i beni e dell'espulsione di 20.000 italiani.
Politica estera
Gheedafi e Fidel Castro
In politica estera, il regime libico diventa finanziatore dell'OLP di Yasser Arafat nella sua lotta contro Israele, inoltre, si fa spesso propugnatore di un'unione politica tra i tanti Stati islamici dell'Africa, caldeggiando in particolare, nei primi anni settanta, un'unione politica con la Tunisia; la risposta interlocutoria (ma sostanzialmente negativa) dell'allora presidente tunisino Bourguiba fa però tramontare questa ipotesi. Sempre nel medesimo periodo, e per molti anni successivi, Gheddafi è uno dei pochissimi leader internazionali che continuano a sostenere i dittatori Idi Amin Dada e Bokassa (quest'ultimo però soltanto nel periodo in cui si dichiarò musulmano), mentre non verrà mai dimostrato un suo coinvolgimento nella misteriosa scomparsa in Libia, nel 1978, dell'Imam sciita Musa al-Sadr (di cui non apprezza i tentativi di pacificazione del Libano) e neppure il suo fattivo sostegno al combattente palestinese Abu Nidal e alla sua organizzazione para-militare, organizzatori, tra l'altro, della Strage di Fiumicino nel 1985. In quest'ultimo caso la Libia smentisce ogni suo coinvolgimento ma non manca di rendere ufficialmente onore ai terroristi attori di tale attentato.
Nel 1977, grazie ai maggiori introiti derivanti dal petrolio, il regime decide di effettuare alcune opere a favore della propria nazione, come la costruzione di strade, ospedali, acquedotti ed industrie. Proprio sull'onda della popolarità di tale politica, nel 1979, Gheddafi rinuncia a ogni carica ufficiale, pur rimanendo l'unico vero leader del paese, serbandosi solo l'appellativo onorifico di "Guida della Rivoluzione".
Negli anni ottanta avviene un'ulteriore radicalizzazione nelle scelte di politica internazionale. La sua ideologia anti-israeliana e anti-americana lo porta a sostenere gruppi terroristi, quali ad esempio l'IRA irlandese e il Settembre Nero palestinese. Viene anche accusato dall'Intelligence statunitense di essere l'organizzatore degli attentati in Sicilia, Scozia e Francia, anche se per questi atti si è sempre proclamato estraneo. Si rende, altresì, sicuramente responsabile del lancio di due missili SS-1 Scud contro il territorio italiano di Lampedusa, come rappresaglia per il bombardamento della Libia da parte degli Stati Uniti nell'operazione El Dorado Canyon. I missili fortunatamente non provocano danni, cadendo in acqua a 2 km dalle coste siciliane.
Il suo regime, pertanto, diviene il nemico numero uno degli Stati Uniti d'America ed è progressivamente emarginato dalla NATO. Questa tensione prelude, il 15 aprile 1986, al blitz militare sulla Libia per volere del presidente statunitense Ronald Reagan: un massiccio bombardamento ferisce mortalmente la figlia adottiva di Gheddafi, ma lascia indenne il colonnello, che poi si scoprirà essere stato preventivamente avvertito delle intenzioni statunitensi da Bettino Craxi, allora Presidente del Consiglio italiano. Quando Gheddafi scopre che l'Inghilterra ha fornito le basi agli aerei americani per il blitz, decide di aumentare gli aiuti all'IRA.
Lockerbee
Il 21 dicembre del 1988 esplode un aereo passeggeri sopra la cittadina scozzese di Lockerbie, dove periscono tutte le 259 persone a bordo oltre a 11 cittadini di Lockerbie. Prima dell'11 settembre 2001, questo è l'attacco terroristico più grave mai avvenuto. L'ONU attribuisce alla Libia la responsabilità dell'attentato aereo, chiedendo al governo di Tripoli l'arresto di due suoi cittadini accusati di esservi direttamente coinvolti. Al netto e insindacabile rifiuto di Gheddafi, le Nazioni Unite approvano la Risoluzione 748, che sancisce un pesante embargo economico contro la Libia, la cui economia si trova già in fase calante. Solo nel 1999, con la decisione da parte libica di cambiare atteggiamento nei confronti della comunità internazionale, Tripoli accetta di consegnare i sospettati di Lockerbie: Abdelbaset ali Mohamed al-Megrahi viene condannato all'ergastolo nel gennaio 2001 da una corte scozzese, mentre al-Amin Khalifa Fhimah viene assolto. Nel febbraio 2011, intervistato dal quotidiano svedese Expressen, l'ex ministro della giustizia Mustafa Abd al-Jalil ha ammesso le responsabilità dirette del colonnello Gheddafi nell'ordinare l'attentato del 1988 al Volo Pan Am 103.
Strage di Ustica
Venerdì 27 giugno 1980 un aereo di linea Douglas DC-9, codice I-TIGI, appartenente alla compagnia aerea italiana Itavia, in volo da Bologna a Palermo si squarciò all'improvviso e scomparve in mare nei pressi dell'isola di Ustica. Persero la vita 81 persone e non ci furono superstiti. Inizialmente le cause maggiormente accreditate furono il "cedimento strutturale" e la "bomba". A distanza di molti anni in cui si sono susseguiti innumerevoli depistaggi, falsi indizi e morti sospette, sembrerebbe invece affermarsi la tesi più plausibile ma altrettanto scomoda, quella cioè dell'abbattimento. Un missile aria/aria sarebbe stato lanciato da un velivolo militare francese all'indirizzo di un caccia libico MiG-23 che, in sorvolo non autorizzato nei cieli italiani, avrebbe tentato di nascondersi nella traccia radar del DC-9. Il missile però anziché colpire il MiG, avrebbe raggiunto ed abbattuto l'aereo passeggeri italiano. Un secondo missile avrebbe invece centrato l'aereo libico che si sarebbe poi schiantato in Calabria, più precisamente nel territorio del comune di Castelsilano (KR), con il conseguente decesso del pilota. All'origine dell'intervento francese vi sarebbe stata la convinzione da parte dei servizi di intelligence transalpini che sul velivolo libico si trovasse il colonnello Gheddafi, personaggio particolarmente inviso alla Francia che perciò avrebbe tentato con questa operazione militare di realizzarne l'eliminazione fisica.
Ad avvalorare questa versione dei fatti vi è una dichiarazione pubblicata nel febbraio 2007 da Francesco Cossiga, presidente del Consiglio all'epoca della strage: ad abbattere il DC-9 sarebbe stato un missile «a risonanza e non a impatto», lanciato da un velivolo dell'Aéronavale decollato dalla portaerei Clemenceau. Sempre secondo quanto dichiarato da Cossiga, furono i servizi segreti italiani ad informare lui e l'allora ministro dell'Interno Giuliano Amato dell'accaduto. Infine aggiunse: «i francesi sapevano che sarebbe passato l'aereo di Gheddafi, che si salvò perché il Sismi lo informò quando lui era appena decollato e decise di tornare indietro».
Dal 1990 al 2010
A partire dai primi anni novanta, Gheddafi decide un ulteriore cambiamento del ruolo del suo regime all'interno dello scacchiere internazionale; condanna l'invasione dell'Iraq ai danni del Kuwait nel 1990 e successivamente sostiene le trattative di pace tra Etiopia ed Eritrea. Quando anche Nelson Mandela fa appello alla "Comunità Internazionale", a fronte della disponibilità libica di lasciar sottoporre a giudizio gli imputati libici della strage di Lockerbie e al conseguente pagamento dei danni provocati alle vittime, l'ONU decide di ritirare l'embargo alla Libia (primavera del 1999).
Nei primi anni duemila, proprio questi ultimi sviluppi della politica libica, portano Gheddafi ad un riavvicinamento agli USA e alle democrazie europee, con un conseguente allontanamento dall'integralismo islamico. Grazie a questi passi il presidente statunitense George W. Bush decide di togliere la Libia dalla lista degli Stati Canaglia (di cui fanno parte Iran, Siria e Corea del Nord) portando al ristabilimento di pieni rapporti diplomatici tra Libia e Stati Uniti.
Nel 2004, il Mossad, la CIA e il Sismi individuano una nave che trasporta la prova che il regime libico sia in possesso di un arsenale di armi di distruzione di massa. Invece di rendere pubblica la scoperta e sollevare uno scandalo, Stati Uniti e Italia pongono a Gheddafi un ultimatum che viene accettato.
Gli anni 2000 vedono Gheddafi protagonista del riavvicinamento tra Italia e Libia, sancito da diverse visite ufficiali del capo libico in Italia e della controparte italiana in Libia
Guerra civile del 2011, la cattura e la morte
Nel 2011, il procuratore del Tribunale Penale Internazionale, Luis Moreno Ocampo, chiede alla corte penale l'incriminazione di Gheddafi per crimini contro l'umanità, insieme al figlio Sayf al-Islam Gheddafi e al capo dei servizi segreti libici Abd Allah al-Sanussi. La richiesta di incriminazione nasce dalle prove raccolte sui comportamenti messi in atto per la repressione della rivolta libica del 2011. Il 20 ottobre 2011 risultando vana ogni ulteriore resistenza nella difesa della città di Sirte, nella quale si era asserragliato dopo la caduta di Tripoli, Muʿammar Gheddafi tenta di guadagnare il deserto per continuare la lotta, ma il convoglio in cui viaggia viene attaccato da parte di aerei militari francesi. Raggiunto da elementi del CNT, Gheddafi viene catturato vivo, ferito alle gambe, ma subito linciato. Gli ultimi momenti di vita del Raʾīs libico, che secondo il medico legale è stato ucciso da un colpo di pistola alla testa, vengono impressi in numerosi video dei presenti all'avvenimento. Successivamente il suo cadavere viene trasportato a Misurata, esposto al pubblico e, quindi, sepolto in una località segreta nel deserto libico. La sua eredità politica e la guida della Jamāhīriyya vengono raccolte dall'altro figlio Sayf al-Islām al-Qadhdhāfī, il quale, il 23 ottobre 2011, per mezzo della Tv siriana al-Rāʾī (L'opinione), ha dichiarato in un breve messaggio audio di voler vendicare la morte del padre e di continuare la resistenza contro il CNT, le forze della NATO e l'esercito francese sino alla fine: "Io vi dico, andate all'inferno, voi e la NATO dietro di voi. Questo è il nostro Paese, noi ci viviamo, ci moriamo e stiamo continuando a combattere". Il CNT ha poi deciso di aprire un'inchiesta sulla morte di Mu'ammar Gheddafi.
Morte sospetta
Circa un anno dopo la morte di Gheddafi delle dichiarazioni di Mahmoud Jibril hanno alimentato forti sospetti secondo i quali il vero esecutore del rais non sarebbero stato un ribelle del CNT ma un agente dei servizi segreti francesi infiltrato. L'uccisione di Gheddafi sarebbe nata per evitare la divulgazione delle notizie degli stretti rapporti che legavano l'ex leader libico a Nicolas Sarkozy, allora presidente della Francia, in particolar modo dei diversi milioni di dollari versati dal rais per le campagne elettorali. In base a delle rivelazioni di Rami El Obeidi, ex responsabile per i rapporti con le agenzie di informazioni straniere per conto del Consiglio nazionale di transizione, i servizi segreti francesi avrebbero individuato Gheddafi mediante il suo satellitare; in quel periodo il rais cercava di mettersi in contatto con alcuni suoi fedelissimi fuggiti in Siria.
Dopo la morte
Nel marzo 2012 la Guardia di Finanza ha sequestrato beni in Italia della famiglia Gheddafi per oltre un miliardo di euro. Tra questi l’1,256% di Unicredit (pari ad un valore di 611 milioni di euro), il 2% di Finmeccanica, l’1,5% della Juventus, lo 0,58% di Eni, pari a 410 milioni, lo 0,33% di alcune società del gruppo Fiat, come Fiat Spa e Fiat Industrial. Diversi anche i conti correnti posti sotto sequestro: il deposito più consistente, 650 000 euro in titoli, è quello presso la filiale di Roma della Ubae Bank, una joint venture italo-libica.
Oltre a ciò, in numerosi altri paesi sono stati sequestrati beni di vario tipo e conti bancari, per un totale di duecento miliardi di dollari. Ciò farebbe di Gheddafi l'ottava persona più ricca della storia.
«Berlusconi chiese la morte di Gheddafi» Corriere.it La denuncia del Fatto Quotidiano: la richiesta venne avanzata ai servizi segreti
Nella sua ultima conferenza stampa di fine anno da premier in carica, il 23 dicembre del 2010, Silvio Berlusconi non ebbe problemi a dichiararsi apertamente «amico» di Gheddafi, Mubarak e Ben Ali. Pochi mesi dopo sarebbero però esplose le diverse primavere arabe e l'Italia si sarebbe schierata al fianco della Nato nell'intervento militare in Libia. In quell'occasione, denuncia il Fatto Quotidiano nella sua prima pagina di oggi, il Cavaliere avrebbe avanzato ai servizi segreti italiani allora guidati da Gianni De Gennaro la richiesta di «far fuori» Gheddafi. Una rivelazione che il giornale di Padellaro e Travaglio attribuisce «una fonte diplomatica autorevole vicina agli ambienti della sicurezza». Ma che subito dagli ambienti del Pdl viene bollata come un'«infamia» non credibile. Gheddafi fu giustiziato sommariamente nell'ottobre 2011 dopo essere stato scovato nel nascondiglio nei pressi di Sirte dove si rifugiava. Non è la prima volta che si parla di un coinvolgimento dell'Occidente nella morte del Rais e in particolare era stata avanzata una pista francese secondo cui a sparare il colpo di grazia sarebbe stato proprio uno 007 di Parigi. Mai si era però parlato di un ruolo di Palazzo Chigi.
AMICIZIA IMBARAZZANTE - Ma perché Berlusconi avrebbe voluto la morte del suo «amico», di cui fu più volte ospite in Libia e che a sua volta ospitò in pompa magna a Roma concedendogli pure di insediare un vero e proprio accampamento con tenda berbera nel parco di Villa Pamphili? Secondo il quotidiano l'obiettivo del leader del pdl, in una fase in cui vacillava la sua autorevolezza sul piano internazionale, era sganciarsi in ogni modo netto dall'amicizia con il Colonnello. E il modo più drastico poteva essere appunto l'eliminazione del Rais. Per avvalorare la tesi vengono citate alcune inchieste giornalistiche - tra cui pezzi di Le Monde, del Giornale e del Corriere - che ipotizzavano un ruolo dell'intelligence dei Paesi della coalizione occidentale nella scelta di uccidere Gheddafi appena catturato, anziché consegnarlo alla giustizia internazionale e sottoporlo a processo. Si parla anche di un ruolo dell'allora presidente francese Nicolas Sarkozy, a sua volta definito come desideroso di recidere i legami con il leader libico.
LA SMENTITA DI BONAIUTI - «La pretesa ricostruzione del Fatto Quotidiano è totalmente falsa, incredibile, assurda, inaccettabile - tuona il portavoce di Berlusconi, Paolo Bonaiuti -. Ma come si può sostenere che il Presidente Berlusconi abbia soltanto pensato a un'infamia del genere?».
Documenti segreti libici svelano la tragedia di Ustica e come Gheddafi si salvò riparando a Malta Noel Grima Al-Fatah69
Secondo i resoconti dei media italiani, i documenti riservati trovati negli archivi del servizio segreto libico, dopo la caduta di Tripoli, che sono ora nelle mani di Human Rights Watch, dimostrano ciò che ha provocato l’abbattimento del Dc-9 Itavia sul Mediterraneo, presso l’isola di Ustica, il 27 giugno 1980. Ottantuno persone a bordo del volo, sulla rotta da Bologna a Palermo, sono morte.
Come si è a lungo sospettato, i documenti confermano che un missile aveva colpito l’aereo, dopo che era stato scambiato per un aereo che trasportava il leader libico Muammar Gheddafi.
Secondo i documenti, due jet francesi all’inizio attaccarono l’aereo, e poi s’impegnarono in un duello con un solitario caccia MiG, che portava le insegne della Jamahiriya, e che si pensava scortasse il colonnello Gheddafi, fino a quando non impattò nella regione montuosa della Sila, nel sud d’Italia. Il colonnello Gheddafi, informato in tempo dell’attacco, riparò a Malta, dove atterrò col suo Tupolev, secondo i documenti.
Sembrerebbe, dalle carte dei servizi segreti trovate, che Gheddafi sia stato informato dai servizi segreti italiani (SISMI), che stava per essere attaccato, e aveva cercato rifugio a Malta.
Le autorità italiane hanno isolato l’area in cui il MiG cadde, e un giornalista e un fotografo, che cercavano di scoprirne la vicenda, al momento, furono arrestati e trattenuti per ore dalla polizia, fino a che non svelarono ciò che avevano documentato. Più tardi, le autorità libiche affermarono che il pilota del MiG era in volo di addestramento, quando avrebbe perso la rotta. Il suo cadavere, che era già stato sepolto, fu riesumato; l’autopsia venne effettuata e il cadavere fu poi rimpatriato in Libia. Pochi giorni dopo, il 7 luglio 1980, una bomba distrusse gli uffici della Libyan Arab Airlines, a Freedom Square, a La Valletta, e ci fu anche un tentativo di incendio doloso dell’Istituto libico di Cultura, a Palace Square, in quel periodo.
Secondo un libro del giornalista e storico francese, Henri Weill, la bomba e l’incendio doloso furono opera dei servizi segreti francesi, lo SDECE, come anche un attacco a una nave libica, a Genova. Poi, meno di un mese dopo, il 2 agosto 1980, un’enorme bomba distrusse la maggior parte della stazione ferroviaria di Bologna, e 80 persone furono uccise. La responsabilità dell’attacco terroristico non è mai stata stabilita con certezza. Proprio questa settimana, un tribunale italiano ha ordinato al governo di pagare 100 milioni di euro di danni civili ai parenti delle 81 persone uccise nel disastro aereo del 1980, che tuttora rimane ancora uno dei misteri più duraturi dell’Italia, almeno fino a quando i documenti scoperti questa settimana, saranno studiati a fondo.
Il governo italiano ha dichiarato che avrebbe fatto ricorso contro la decisione del tribunale civile di Palermo, che ritiene i ministeri della difesa e dei trasporti responsabili di aver omesso di garantire la sicurezza del volo. Tra le altre teorie sulle cause dell’incidente, vi era quella di una bomba a bordo o che l’aereo fosse stato accidentalmente preso in mezzo a un duello aereo.
L’avvocato Daniele Osnato, che insieme a un manipolo di avvocati rappresentati i parenti delle 81 vittime, ha detto che la giustizia è stata finalmente fatta. Oltre a determinare che i ministeri competenti non erano riusciti a proteggere il volo, ha detto, il tribunale ha anche concluso che erano colpevoli di aver nascosto la verità e di aver distrutto le prove.
Un’altra teoria sul dogfight aereo, aveva avuto credito dal giudice Rosario Priore, il quale aveva inizialmente accusato dei generali di esserne i responsabili. Il giudice Priore aveva teorizzato che un missile, lanciato da un caccia statunitense o da un altro aereo della NARO, avesse accidentalmente colpito il jet di linea interna italiano, durante il tentativo di abbattere un aereo libico.
Funzionari francesi, statunitensi e della NATO, hanno a lungo negato qualsiasi attività militare nei cieli, quella notte. Traduzione di Alessandro Lattanzio – SitoAurora
Estratto dell’intervista al magistrato Rosario Priore – che della strage di Ustica (27 giugno 1980, 81 morti) si è occupato in una lunga inchiesta – contenuta nel libro Intrigo internazionale, edito da Chiarelettere. di Giovanni Fasanella*, da Il Fatto Quotidiano del 26 giugno 2010
“C’era un groviglio di verità “indicibili” che nascevano dalla nostra politica mediterranea, in particolare verso la Libia, e dall’irritazione che quella politica provocava nei nostri alleati europei. Se quelle verità fossero venute pubblicamente a galla, non sarebbero rimaste prive di conseguenze”, così risponde Rosario Priore (il giudice che su Ustica ha emesso una sentenza-ordinanza nel 1999: DC-9 abbattuto da un missile) alla madre di tutte le domande: quale verità non si poteva far conoscere all’opinione pubblica.
Dunque ci fu un episodio di guerra aerea: l’obiettivo degli attaccanti non poteva che essere libico, e di un certo rilievo? Ovviamente sì. E quanto più alto fosse stato il rango dell’obiettivo, tanto più sarebbe stato di rilievo il successo dell’operazione. L’attacco militare nel cielo di Ustica era diretto contro un aereo che si sapeva sarebbe passato proprio di lì.
E perché lo si sapeva?
Perché succedeva sistematicamente. E non doveva succedere. Perché il sistema Nadge, la rete radar che proteggeva i paesi europei dell’Alleanza atlantica, dalla Norvegia alla Turchia, nel tratto italiano aveva dei “buchi”. Cioè passaggi o aree non coperti dai radar del Nadge. E quei corridoi erano noti ai libici, che potevano utilizzarli per il passaggio dei loro aerei militari pur non potendolo fare, perché aerei miliari di un paese non Nato. Se fossero stati individuati, il sistema li avrebbe automaticamente definiti nemici da abbattere.
E come facevano, i libici, a conoscere quei “buchi”?
Nel linguaggio dei servizi, si direbbe che c’erano state delle “perdite”. Insomma, qualcuno, in Italia, si era “perso” quei varchi della difesa radar atlantica, i libici li avevano “trovati” ed erano venuti a conoscenza delle vie non protette di penetrazione in Europa. In quel periodo, tra l’altro, molti ex ufficiali dell’Aeronautica italiana erano andati in congedo e avevano messo a disposizione dei libici tutte le loro cognizioni tecniche e tutta la loro esperienza.
Quindi i libici utilizzavano sistematicamente quei corridoi. E a quale scopo?
Sia a scopo civile sia a scopo militare , per arrivare fino al cuore dell’Europa. E succedeva perché i libici avevano un rapporto privilegiato con l’Italia. Sì, i loro aerei si recavano spesso in Jugoslavia per riparazioni, a Banja Luka. Oppure a Venezia, dove noi fornivamo all’Aviazione libica tutta l’assistenza di cui aveva bisogno. Pensi che in quello stesso mese di giugno 1980, poco prima dell’esplosione su Ustica, nelle officine di Venezia Tessera, accanto agli aerei ufficiali del presidente statunitense e di quello francese, lì per un summit internazionale, c’erano anche dei C-130 libici: aerei da trasporto che, in barba a ogni embargo, noi militarizzavamo trasformandoli in mezzi da trasporto per paracadutisti.
È comprensibile che aerei militari libici utilizzassero dei corridoi “discreti”. Ma quelli civili, perché?
Perché a bordo spesso c’erano personaggi di primo piano, a rischio o in missioni segrete. Arafat, per esempio, si diceva che viaggiasse spesso su aerei libici passando per i nostri corridoi. Insomma, si trattava di personaggi che avevano bisogno di viaggiare in sicurezza e ai quali noi in qualche modo garantivamo protezione.
Anche Gheddafi?
Sì, anche Gheddafi. Secondo una fondata ipotesi, emersa già nel corso della nostra inchiesta e rafforzatasi in seguito, sembra che il bersaglio fosse proprio un aereo su cui viaggiava Gheddafi. Nei piani di volo conservati presso la nostra Aeronautica, quella sera era previsto un volo con vip a bordo da Tripoli a Varsavia.
L’aereo che viaggiava sotto la pancia del nostro DC-9 poteva essere quello di Gheddafi?
Secondo ragionevoli ipotesi, potevano essere uno o più caccia militari libici che tornavano dalla Jugoslavia utilizzando un corridoio senza la copertura del Nadge. Secondo ipotesi più recenti, quei caccia dovevano prelevare il leader libico sul Tirreno e scortarlo in un viaggio nell’Europa dell’Est. Ma, avvertito da qualcuno dell’imminente pericolo, all’altezza di Malta l’aereo avrebbe improvvisamente cambiato rotta per tornare in Libia.
Dunque i caccia libici provenienti da nord volavano sotto la protezione del DC-9 per andare a prelevare Gheddafi che stava arrivando da sud?
Questa è la situazione più probabile. Ed è del tutto evidente che chi avesse voluto attaccare Gheddafi avrebbe dovuto prima abbattere le sue scorte.
In definitiva i caccia libici vennero abbattuti, mentre Gheddafi si salvò perché avvertito del pericolo. Chi lo avvisò? Gli italiani?
È del tutto verosimile, visti i rapporti privilegiati tra l’Italia e la Libia. Il capo dei servizi segreti libici era di casa a Roma e nel Sismi (il nostro servizio segreto militare dell’epoca). C’era una forte cordata filoaraba e una filolibica, omologhe a quelle che esistevano all’interno dei governi della Repubblica e, più in generale, nella classe politica italiana. Chi voleva uccidere Gheddafi? Di recente, a inchiesta giudiziaria ormai conclusa, dopo che le sentenze di assoluzione dei generali erano ormai divenute definitive, l’ex presidente della Repubblica Francesco Cossiga, che all’epoca era presidente del Consiglio, ha detto qualcosa in proposito. Riferendo informazioni provenienti dall’interno dei nostri servizi, ha parlato esplicitamente di una responsabilità francese. La ritiene un’ipotesi attendibile? Sì, la ritengo attendibile. Però procederei per gradi, seguendo l’evoluzione dell’inchiesta. In primo luogo perché, da un punto di vista tecnico, a quel tempo e nel Mediterraneo, solo due paesi erano in grado di compiere un’operazione militare di quel tipo: gli Stati Uniti e la Francia. Perché occorreva un sistema di guida dei caccia capace di indirizzarli verso l’obiettivo in qualsiasi condizione. Insomma un “guida caccia” estremamente sofisticato. E poi era necessario avere basi a terra o su portaerei a una giusta distanza dal punto d’attacco. La Francia aveva portaerei nel Tirreno e basi a terra in Corsica. Gli Stati Uniti avevano la Sesta flotta dotata di portaerei, oltre alle basi in territorio italiano. Entrambi i paesi, dunque, avevano anche propri sistemi radar.
Quindi chi attaccò: Francia, Stati Uniti o entrambi?
Tenderei a escludere responsabilità dell’Amministrazione americana dell’epoca. Primo, perché c’era Jimmy Carter, che manteneva rapporti con la Libia; addirittura la riforniva di armi. Secondo, perché gli americani ci aiutarono nell’inchiesta più degli italiani.
“Strage di Bologna opera di Gheddafi” parla “il faccendiere” 30 gennaio «Che fine ha fatto?» mi chiedo guardando la foto su un catalogo che sto per buttare. Il suo nome era comparso sui giornali nel 1982 con la qualifica di “faccendiere”. Le ultime tracce le trovo su internet: uscito dal carcere di Livorno, sta scontando gli ultimi mesi di pena presso la Pubblica Assistenza di Lerici. Milena Gabanelli da “La Repubblica”
Francesco Pazienza
Francesco Pazienza ha scontato 10 anni per depistaggio alle indagini sulla strage di Bologna, altri 3 per il crac Ambrosiano e associazione a delinquere. Amico di Noriega, frequentatore dei servizi segreti francesi, americani e sudamericani, nel 1980 è a capo del Super Sismi. Braccio destro di Licio Gelli, il suo ambiente è il sottobosco di confine fra l´alta finanza e l´alta criminalità, l´alta politica e il Vaticano. Protagonista delle vicende più tragiche della storia italiana degli anni ‘80, è depositario di informazioni mai rivelate, altre raccontate a modo suo. Laureato in medicina a Taranto, non ha mai indossato un camice. Negli anni ‘70 vive a Parigi e fa intermediazioni d´affari per il miliardario greco Ghertsos. Poi l´incontro con il capo del Sismi, Santovito. Grandi alberghi, yacht, belle donne, sigari rigorosamente cubani e tagliasigari d´oro. Un´altra epoca. Adesso ha 62 anni e fuma le Capri, mentre cammina da uomo libero sul lungomare di Lerici. Cominciamo dall´inizio: come avviene l´incontro con Santovito? «Me lo presentò l´ingegner Berarducci, oggi segretario generale dell´Eurispes. Santovito era suo zio, e mi chiese di fare il suo consulente internazionale». E perché Santovito le dà questo incarico senza conoscerlo prima? «Sa, io parlavo diverse lingue e avevo un sacco di relazioni in giro per il mondo. Normalmente non avviene così, ma all´epoca era quasi tutto improntato all´improvvisazione». E in cambio cosa riceveva? «Rimborso spese. Siccome non avevo bisogno di soldi, era quello che volevo: se volevo andare a New York in Concorde, andavo in Concorde. Mi sembrava tutto molto avventuroso». Si dice che lei sia stato determinante nella sconfitta di Carter contro Reagan. «La storia comincia con Mike Ledeen a Washington, che mi aveva presentato Santovito; lui dirigeva il Washington Quarterly e faceva capo ad una lobby legata ai repubblicani (e alla Cia-ndr). Così gli dico: “Guarda che quando c´è stata la festa per l´anniversario della rivoluzione libica, il fratello di Carter ha fraternizzato con George Habbash”, che era il capo del Flp. E a quel punto disse: “Se tu mi dai le prove, noi possiamo fare l´ira di Dio”». Gheddafi E le prove come se le era procurate? «Attraverso un giornalista siciliano, Giuseppe Settineri, che io mandai con un microfono addosso ad intervistare l´avvocato Papa, che faceva il lobbista e aveva partecipato alla festa di Gheddafi. Lui raccontò per filo e per segno tutto quello che era successo. Le foto dei festini me le avevano fornite Michele Papa e Federico Umberto D´Amato, la testa degli affari riservati del Viminale». Il Viminale ha dunque interferito nelle elezioni di un paese alleato? «Sissignore, però la débacle ci sarebbe stata ugualmente, ma non in misura così massiccia». Lei, che non è un militare, diventa capo del Super Sismi. Cos´era? «Il Super Sismi ero io con un gruppo di persone che gestivo in prima persona». A gennaio 1981 sul treno Taranto-Milano viene piazzata una valigia con esplosivo della stessa composizione di quello usato nella stazione di Bologna… Ci sono dei documenti intestati a un francese e un tedesco, indicati dai servizi come autori di stragi avvenute a Monaco e Parigi. Si scoprirà poi che si trattava di depistaggio. «Il depistaggio è stato fatto dal Sismi per non fare emergere la vera verità della bomba di Bologna. Secondo l´allora procuratore Domenico Sica c´era di mezzo la Libia, e coinvolgerla in quel momento avrebbe voluto dire tragedia per la Fiat e per l´Eni. Vada negli archivi delle sedute parlamentari: il 4 agosto 1980, Spadolini in persona presentò un´interrogazione parlamentare in cui attribuiva la bomba di Bologna a origini straniere mediorientali». Ma qual era l’interesse mediorientale? «L´Italia non poteva sottrarsi agli obblighi Nato, e quindi doveva fare un accordo con Malta, per proteggerla in caso di attacchi del colonnello Gheddafi. L´accordo fu firmato, e Gheddafi fece la ritorsione. Ustica porta la stessa firma. Me lo ha raccontato Domenico Sica. Quando tolgono il segreto di Stato la verità salterà fuori».
« Quelli della Magliana? Sanguinari, certo, però erano una banda di accattoni straccioni» M. Carminati 4/5/2014
La Banda della Magliana
è il nome attribuito a quella che è considerata la più potente organizzazione criminale autoctona che abbia mai operato nella città di Roma. Il nome, attribuito alla banda dalla stampa dell'epoca, deriva da quello del quartiere romano della Magliana, nel quale risiedeva una parte dei suoi componenti.
Nata nella tarda metà degli anni settanta, la banda fu la prima organizzazione capitolina a percepire non solo la possibilità di unificare in senso operativo la frastagliata realtà della criminalità romana, ma anche a sentire l’esigenza di diversificare sia le proprie attività delinquenziali che andavano dai sequestri di persona, al controllo del gioco d'azzardo e delle scommesse ippiche, alle rapine e al traffico di sostanze stupefacenti e sia di estendere la propria rete di contatti alle principali organizzazioni criminali del Paese, da Cosa Nostra alla Camorra, nonché ad esponenti della massoneria, oltre che a numerose collaborazioni con elementi della destra eversiva, dei servizi segreti e della finanza.
Una vera e propria holding-criminale che, per anni, impose la sua legge nella capitale e la cui storia, fatta anche di legami mai del tutto chiariti con politica e intelligence deviata, racconta di una zona grigia non ancora del tutto ricostruita nei dettagli sul ruolo dell'organizzazione in molti dei cosiddetti misteri italiani, dal coinvolgimento nell'omicidio del giornalista Mino Pecorelli, al legame con il sequestro Moro, ai depistaggi nella strage di Bologna, ai rapporti con l'Organizzazione Gladio e all'omicidio del banchiere Roberto Calvi, fino al rapimento di Emanuela Orlandi e all'attentato a Giovanni Paolo II.
La nascita della Banda
« Per cogliere la genesi di questa associazione occorre andare indietro nel tempo, sino all'ultimo scorcio degli anni settanta. A quel tempo, a Roma, si registrò la tendenza degli elementi più rappresentativi della malavita locale a costituirsi in associazione. Sino ad allora, i romani, dediti ai reati contro il patrimonio, quali furti, rapine ed estorsioni, avevano consentito, di fatto, a elementi stranieri, quali, ad esempio i Marsigliesi, di gestire gli affari più lucrosi, dal traffico degli stupefacenti ai sequestri di persona. Una volta presa coscienza della forza derivante dal vincolo associativo, fu agevole per i romani riappropriarsi dei commerci criminali, abbandonando definitivamente il ruolo marginale al quale erano stati relegati in precedenza »
(Ordinanza di rinvio a giudizio)
La struttura della malavita romana storicamente è sempre stata priva di un'organizzazione verticistica o piramidale, mantenendo costantemente nel tempo la dispersione dei suoi componenti in una moltitudine di piccoli gruppi, ognuno padrone del proprio territorio, le cui entrature finanziarie erano dovute a piccoli traffici, riciclaggio, gioco d'azzardo, sfruttamento della prostituzione, contrabbando di sigarette, furti e rapine.
Tale consuetudine cambiò solo all'inizio degli anni settanta quando, con l'avvento del clan dei marsigliesi di Albert Bergamelli, Maffeo Bellicini e Jacques Berenguer trasferitisi nella capitale per iniziare un redditizio business dello spaccio di eroina e, soprattutto, dei sequestri di persona, si determinò un deciso cambiamento dei rapporti di forze all'interno della piccola e frammentata malavita capitolina che vide i marsigliesi imporre la loro legge ed esercitare un certo controllo sul territorio, facendo fare così un notevole salto di qualità alla piccola delinquenza di borgata romana.
Nel 1976 gli arresti dei principali boss del clan francese sancirono la definitiva uscit
Franco Giuseppucci
a dalla scena criminale romana dei marsigliesi creando un vuoto di potere inaspettato. Tale vuoto rese possibile l'avvento di piccoli boss romani che, fiutato l’affare, iniziarono a organizzarsi in alleanze (chiamate in gergo “paranze” o “batterie”, un nucleo di quattro o cinque elementi che si occupava di controllare la propria zona, nella quale era detenuto il potere esclusivo) coinvolgendo malavitosi provenienti dai vari quartieri capitolini come Trastevere, Testaccio, Ostiense e Magliana.
Fu questa la situazione nella quale Franco Giuseppucci, detto er Fornaretto e in seguito ribattezzato er Negro, un buttafuori di una sala corse di Ostia con molte conoscenze nell'ambiente della mala romana, doti di leadership e grande carisma, iniziò a compiere i primi piccoli reati e a comparire nei verbali della polizia. Vista la sua intraprendenza, considerato persona affidabile dai malavitosi più esperti, spesso e volentieri le varie batterie di rapinatori affidavano proprio a lui la custodia delle loro armi che, Giuseppucci, custodiva all'interno di una roulotte di sua proprietà parcheggiata al Gianicolo. Quando però, nel 1976, tale nascondiglio venne scoperto dalla polizia, Giuseppucci fu arrestato ma, grazie al vetro rotto della roulotte, in sede processuale venne a mancare il presupposto probatorio della sua consapevolezza che all'interno della roulotte fossero nascoste delle armi e la pena fu contenuta a qualche mese di detenzione.
Enrico De Pedis
« Negli anni settanta, nella zona dell'Alberone si riunivano varie "batterie" di rapinatori, provenienti anche dal Testaccio. Ne facevano parte, oltre ad alcune persone che non ricordo, Maurizio Massaria, detto "rospetto", Alfredo De Simone, detto "il secco", i tre "ciccioni", cioè Ettore Maragnoli, Pietro "il pupo", e mi sembra Luciano Gasperini - questi tre, persone particolarmente riconoscibili per la mole corporea, svolgevano più che altro il ruolo di basisti e di ricettatori - Angelo De Angelis, detto "il catena", Massimino De Angelis, Enrico De Pedis , Raffaele Pernasetti, Mariano Castellani, Alessandro D'Ortenzi e Luigi Caracciolo, detto "gigione". Tutti costoro affidavano le armi a Franco Giuseppucci, chiamato allora "il fornaretto", ancora incensurato e che godeva della fiducia di tutti. Questi le custodiva all'interno di una roulotte di sua proprietà che teneva parcheggiata al Gianicolo. All'epoca frequentavo l'ambiente dei rapinatori della Magliana, del Trullo e del Portuense. Nel corso del tempo si erano cementati i rapporti tra me, Giovanni Piconi, Renzo Danesi, Enzo Mastropietro ed Emilio Castelletti, ma non costituivamo quella che in gergo viene chiamata "batteria", cioè un nucleo legato da vincoli di esclusività e solidarietà, in altre parole non ci eravamo ancora imposti l'obbligo di operare esclusivamente tra noi, né di ripartire i proventi delle operazioni con chi non vi avesse partecipato. In particolare, negli anni precedenti il 1978, ognuna delle suddette persone operava o da sola ovvero aggregata in gruppi più piccoli o diversi. »
Giuseppucci, una volta scarcerato, riprese la sua attività di "custode" per conto terzi, ma subì il furto del suo maggiolino Volkswagen, a bordo del quale si trovava una borsa piena di armi appartenente a Enrico De Pedis(detto Renatino, un passato da scippatore per poi passare, molto presto, alle rapine a capo di una batteria di malavitosi dell’Alberone). Giuseppucci, a seguito di alcune ricerche, venne a sapere che le armi erano entrate in possesso di Emilio Castelletti, un rapinatore che all’epoca operava in una batteria che aveva come punto di ritrovo un bar sito in via Gabriello Chiabrera, nel quartiere San Paolo, e capeggiata da Maurizio Abbatino (detto Crispino per i suoi capelli ricci e noto per il sangue freddo nelle rapine e per l'abilità come pilota di auto), e fu a questi che Giuseppucci si rivolse per reclamarne la restituzione.
« Era accaduto che Giovanni Tigani, la cui attività era quella di scippatore, si era impossessato di un'auto Vw "maggiolone" cabrio, a bordo nella quale Franco Giuseppucci custodiva un "borsone" di armi appartenenti a Enrico De Pedis. Il Giuseppucci aveva lasciato l'auto, con le chiavi inserite, davanti al cinema "Vittoria", mentre consumava qualcosa al bar. Il Tigani, ignaro di chi fosse il proprietario dell'auto e di cosa essa contenesse, se ne era impossessato. Accortosi però delle armi, si era recato al Trullo e, incontrato qui Emilio Castelletti che già conosceva, gliele aveva vendute, mi sembra per un paio di milioni di lire. L'epoca di questo fatto è di poco successiva a una scarcerazione di Emilio Castelletti in precedenza detenuto. Franco Giuseppucci non perse tempo e si mise immediatamente alla ricerca dell'auto e soprattutto delle armi che vi erano custodite e lo stesso giorno, non so se informato proprio dal Tigani, venne a reclamare le armi stesse. Fu questa l'occasione nella quale conoscemmo Franco Giuseppucci il quale si unì a noi che già conoscevamo Enrico De Pedis cui egli faceva capo, che fece sì che ci si aggregasse con lo stesso. La "batteria" si costituí tra noi quando ci unimmo, nelle circostanze ora riferite, con Franco Giuseppucci. Di qui ci imponemmo gli obblighi di esclusività e di solidarietà »
(Interrogatorio di Maurizio Abbatino del 13 dicembre 1992, con Mancini, D'ortenzi,Carminati, Colafigli). Qui di seguito 2 video di Abbatino al processo Pecorelli sulla genesi della Banda:
Dall'incontro tra Giuseppucci, Abbatino e De Pedis nacque l'idea sia di abbandonare definitivamente il ruolo marginale al quale erano stati relegati in passato che le divisioni di quartiere, allo scopo di unire le sorti e appropriarsi delle attività criminali capitoline. Quella che in un primo tempo nacque come una semplice "batteria", una volta presa coscienza delle propria forza, si trasformò molto velocemente in una vera e propria "banda" per il controllo dei traffici illeciti romani e che, da li a poco, verrà conosciuta come Banda della Magliana.
«L'aver costituito una "batteria" - parlo di "batteria" perché in un primo momento ci dedicavamo quasiesclusivamente alle rapine - comportò che ognuno di noi apportasse le armi di cui disponeva, che venivano custodite inizialmente da incensurati ai quali ci rivolgevamo per questioni di sicurezza e di fiducia o da familiari o in appartamenti disabitati di cui alcuni di noi avevano la disponibilità. Nel frattempo la "batteria" si trasformò in "banda" e si allargò, come ho già riferito, integrando altri partecipi - come a esempio Marcello Colafigli, Giorgio Paradisi e Claudio Sicilia e altri gruppi come quello di Acilia e i "testaccini", talché si rese necessario provvedere altrimenti alla custodia delle armi. La differenza tra "batteria" e "banda", oltre che nel diverso numero dei partecipi, minore nella prima rispetto alla seconda, sta anche nel ventaglio più ampio di interessi criminosi della "banda", rispetto alla "batteria", la quale si dedica alla commissione di un unico tipo di reati, a esempio le rapine. La "banda", peraltro, comporta l'esistenza di vincoli più stretti tra i partecipi, vincoli che si traducono in obblighi maggiori di solidarietà tra gli associati, i quali sono, pertanto, maggiormente impegnati e tenuti a prendere in comune ogni decisione, senza possibilità di sottrarsi dal dare esecuzione alle stesse. Ad esempio, tutti gli omicidi di cui ho parlato, riconducibili alla banda, in quanto funzionali ad assicurarsi il rispetto da parte delle altre organizzazioni operanti su Roma e a imporre un predominio il più possibile incontrastato sul territorio, vennero di volta in volta decisi da tutti coloro che facevano parte della banda nel momento dell'esecuzione, di volta in volta affidata a chi aveva maggiori capacità per assicurarne il successo con il minor rischio sia personale che collettivo, soprattutto sotto il profilo preminente di assicurarsi l'impunità. Questo comportava che tutti si era parimenti compromessi, quindi tutti parimente motivati ad aiutare chi fosse stato colto in flagranza o comunque arrestato o incriminato, sia a limitare i danni processuali, sia ad avere la tranquillità di assistenza a sé e ai familiari. Inoltre, una volta costituiti in banda, sempre al fine di garantirsi l'impunità, ci imponemmo l'obbligo di non avere stretti legami di tipo operativo con gruppi esterni, che non fossero funzionali all'accrescimento dei profitti e dello sviluppo delle attività programmate, il che, unitamente alla pari compromissione, assicurava la massima impermeabilità della nostra banda, nel senso che nessuno poteva agevolmente venire a conoscere i particolari delle azioni a noi riconducibili »
Danilo Abbruciati
(Interrogatorio di Maurizio Abbatino del 13 dicembre 1992)
Ognuno dei tre portò nella nuova banda, oltre che la propria esperienza nel crimine, le proprie conoscenze, nonché le armi da utilizzare nelle azioni, anche tutta una serie di fidati sodali e compagni di vecchie batterie che andarono così a formare le varie anime della Banda. Nei testaccini di Giuseppucci e De Pedis, batteria che si muoveva tra i quartieri di Trastevere e Testaccio, ad esempio, operavano l’amico di sempre Raffaele Pernasetti detto er Palletta, Ettore Maragnoli e Danilo Abbruciati, mentre Maurizio Abbatino, che invece faceva capo proprio alla zona della Magliana, arrivarono nel gruppo Giovanni Piconi, Renzo Danesi, Enzo Mastropietro, Emilio Castelletti e poi in seguito anche Marcello Colafigli, Giorgio Paradisi e Claudio Sicilia.
A questi due gruppi se ne aggiunse poi un terzo, quello proveniente dalla zona Ostia e Acilia e capeggiato da Nicolino Selis detto il Sardo: classe 1952, piccolo di statura e pieno di tatuaggi, già da qualche anno aveva subito varie detenzioni ed era già una figura di spicco nel panorama criminale della zona sud della capitale, vantando numerosi contatti con elementi di spicco della malavita organizzata e una stretta amicizia con il boss della Nuova Camorra Organizzata, Raffaele Cutolo, conosciuto durante la detenzione in carcere. Proprio tra le sbarre di Regina Coeli, dov'era recluso per tentato omicidio e furto nel 1975, assieme a un altro detenuto comune, Antonio Mancini (detto Accattone), Selis pensò di mettere in pratica lo stesso tipo di operazione che Cutolo stava realizzando a Napoli con la sua Nuova Camorra Organizzata.
Un grande progetto criminale, un'organizzazione malavitosa ben strutturata per la gestione dello spaccio delle sostanze stupefacenti, con lo scopo ulteriore di escludere dal territorio infiltrazioni di altre bande di diversa provenienza e gettare così, dall'interno dell'istituto carcerario, le basi della trasformazione organizzativa della malavita romana, cosa che poi effettivamente avvenne, una volta liberi, con quel "patto" che, assieme agli altri due gruppi criminali, diede forma alla banda della Magliana.
« Intorno al 1975, mentre ero detenuto, insieme a Nicolino Selis, Giuseppe Magliolo e Gianni Girlando, nel carcere di Regina Coeli, si parlava del fatto che a Napoli, tal Raffaele Cutolo - allora il personaggio non era noto come poi lo sarebbe divenuto in seguito - stava mettendo in piedi un'organizzazione criminale, allo scopo di escludere dal territorio infiltrazioni di altre organizzazioni di diversa estrazione territoriale. Con il Selis, Magliolo e Girlando erano presenti, ma non si tenevano in altissima considerazione le loro opinioni - si decise di tentare su Roma la stessa operazione che Raffaele Cutolo stava tentando su Napoli... Nicolino Selis, il quale aveva una grande stima per Raffaele Cutolo e per questo era portato a emularlo, aveva trascorso diversi anni in carcere, pertanto, sebbene godesse di una notevole reputazione all'interno del mondo penitenziario, non aveva, però, grandi conoscenze all'esterno. Da parte mia, io venivo da tre anni d'intensa attività criminale e le mie conoscenze all'esterno del carcere erano più fresche e attuali, sicché, progettando un'organizzazione similare a quella che stava mettendo in piedi Raffaele Cutolo, avevo maggiori possibilità di indicare persone che potessero essere in grado e disposte a farne parte. »
(Interrogatorio di Antonio Mancini del 29 aprile 1995)
Diversi uomini della batteria di Selis furono naturalmente coinvolti in questo nuovo sodalizio, come a esempio suo cognato Antonio Leccese, Giuseppe Magliolo, Fulvio Lucioli (detto il Sorcio), Giovanni Girlando (il Roscio), Libero Mancone, i fratelli Giuseppe (il Tronco) e Vittorio Carnovale (detto il Coniglio) e Edoardo Toscano(Operaietto). Ognuno di loro riunirà le proprie conoscenze e, una volta usciti dal carcere, si uniranno ai testaccini e ai maglianesi per realizzare così il progetto criminale per la conquista di Roma.
Video Processo alla Banda della Magliana Confronti:
Principali proitagonisti
Maurizio Abbatino, detto Crispino. Nato nel cuore della Magliana vecchia, prima dell'incontro con Giuseppucci era già a capo, pur giovanissimo, di una batteria di malavitosi di quartiere specializzata in rapine. Arrestato nel 1972 e nel 1974, prima per furto e resistenza a pubblico ufficiale e poi per duplice omicidio (assolto per insufficienza di prove)
Marcello Colafigli, detto Marcellone. Amico fraterno di Giuseppucci, con cui spesso si ritrova in una batteria dedita alle rapine, è introdotto da quest'ultimo nel nucleo originario della banda
Claudio Sicilia detto Il Vesuviano. Originario di Giugliano in Campania (NA) e nipote del boss Alfredo Maisto, si stabilisce a Roma nel 1978 e diviene ben presto l'anello di congiunzione della banda con la Camorra di Corrado Iacolare, Michele Zaza e Lorenzo Nuvoletta
Giorgio Paradisi, detto Er Capece. Attivo nel settore delle rapine ai camion, entra nella banda attraverso la conoscenza di Giuseppucci, con cui divide la comune passione per i cavalli e la frequentazione di ippodromi, sale corse e bische
Franco Giuseppucci, detto Er Fornaretto e poi Er Negro. Buttafuori in una bisca clandestina a Ostia, grande appassionato di scommesse e assiduo frequentatore di ippodromi e sale corsa romane, muove i primi passi nel mondo della mala a capo di una batteria di criminali del Trullo dedita soprattutto a furti e rapine. Fascista convinto e tramite del gruppo con gli esponenti dell’eversione nera e dello spontaneismo armato dei Nuclei Armati Rivoluzionari. È il primo a percepire la possibilità di unificare operativamente la frastagliata realtà della criminalità romana
Pippo Calò
Enrico De Pedis, detto Renatino. Nasce come scippatore per poi passare, molto presto, alle rapine legandosi a una batteria di malavitosi dell’Alberone. Nel 1977 è arrestato. Rappresenta il lato imprenditoriale della banda, nel tentativo di smarcamento dal crimine di strada per sedersi ai tavoli del potere, grazie anche ai suoi legami con i poteri occulti, il mondo del riciclaggio e i servizi segreti deviati
Danilo Abbruciati, detto Er Camaleonte. Pugile mancato, si lega prima a una batteria di rapinatori (la Gang dei Camaleonti) specializzata in furti nelle abitazioni, per poi entrare nel giro dellePippo Calò, "ambasciatore" di Cosa Nostra a Roma, e dalla quale, tuttavia, mantiene sempre una certa indipendenza, coltivando rapporti di collaborazione con politici corrotti, estremisti di destra, mafiosi e massoni
bische clandestine controllate dalla Banda dei Marsigliesi di Albert Bergamelli. È uno dei leader del nucleo storico della banda, cui porta in dote la sua conoscenza con
Raffaele Pernasetti, detto Er Palletta. Da giovane lavora come commerciante di frattaglie all’ingrosso, prima di fare il proprio ingresso nel crimine organizzato, introdotto da De Pedis, di cui diviene in breve uomo di fiducia e spietatissimo "braccio armato"
Ernesto Diotallevi. Faccendiere legato agli ambienti dell'estrema destra, già intorno alla metà degli anni settanta è conosciuto per la sua attività di usuraio. Viene poi introdotto nella banda da Abbruciati come suo tramite con la mafia siciliana (per via della sua amicizia con Pippo Calò), verso altre associazioni malavitose e verso il mondo economico finanziario, nel quale vanta notevoli entrature. Col tempo, poi, va a costituire l'anima finanziaria del gruppo di Testaccio-Trastevere, oltre che a occuparsi di riciclare e investire i capitali della Magliana
Enrico Nicoletti
Angelo Cassani, detto Ciletto. Amico dei fratelli Zumpano che lo presentano alla banda, cui si unisce a tutti gli effetti nel 1981 in occasione dell'omicidio di Roberto Faina, commesso dallo stesso Ciletto e da Giorgio Paradisi. Anch'egli si occupa del commercio di cocaina nelle zone di Testaccio e Trastevere
Enrico Nicoletti. Ex carabiniere e poi usuraio e truffatore, conosce De Pedis nel carcere di Regina Coeli e diviene prima l'anima finanziaria del gruppo di Testaccio-Trastevere (attorno al quale girano anche esponenti dell'eversione nera del tempo), poi il cassiere dell'intera banda, che lo considera un personaggio presentabile e con le conoscenze giuste (come, per esempio, l'allora giudice e senatore Claudio Vitalone). Tramite lui, il gruppo reinveste i proventi delle attività illecite in attività commerciali e immobiliari, incrementando enormemente il capitale dei boss della Magliana.
Nicolino Selis
Nicolino Selis, detto Il Sardo. Nato in Sardegna, a Nuoro, ben presto si trasferisce nella capitale divenendo, in poco tempo, uno dei padroni incontrastati del traffico di droga e delle rapine nella zona di Ostia. Si occupa principalmente di tenere i contatti tra l'organizzazione e la Nuova Camorra Organizzata di Raffaele Cutolo, da lui conosciuto anni prima in carcere e di cui diviene il referente su Roma per il traffico di droga, il riciclaggio e la vendita di armi
Giovanni Girlando, detto Gianni il Roscio. Luogotenente di Toscano, si unisce alla batteria di Selis con cui, nel 1976, realizza una serie di furti e rapine a mano armata in banche e uffici postali. Arrestato dopo la rapina al treno Chiusi-Siena, è condannato a 5 anni e 10 mesi di carcere. Una volta libero si dedica al traffico di droga, attività che prosegue anche all'interno della banda
Fulvio Lucioli, detto Il Sorcio. Nel 1976 entra a far parte della batteria capeggiata da Selis che, per i seguenti due anni, fino al suo arresto, mette a segno un incredibile numero di rapine a mano armata. Durante la carcerazione accetta la proposta di Toscano di entrare a far parte della neonata banda ricevendo, ancora tra le sbarre, una stecca di trecentomila lire alla settimana
Antonio Mancinidetto l'Accattone. Originario del quartiere San Basilio, inizia la propria carriera criminale fin da giovanissimo, in una batteria specializzata nell’assalto ai treni. Nel 1976, durante uno dei suoi tanti soggiorni nel carcere di Regina Coeli, ha modo di stringere ulteriormente i rapporti con Selis e di sposare appieno il suo progetto di tentare su Roma la stessa operazione di controllo del territorio che il camorrista Raffaele Cutolo stava realizzando sulla piazza di Napoli. Cosa che poi effettivamente avviene, una volta liberi, con quel patto che, assieme agli altri due gruppi criminali, da forma alla banda della Magliana
Libero Mancone. Primo arresto nel 1970 per furto aggravato, anche lui coinvolto nella banda da Selis
Gianfranco Urbani, detto Er Pantera. Uomo "più di parole che di pistole" e basista della batteria di Selis, è anche ben inserito nel traffico degli stupefacenti, grazie anche ai suoi contatti con grossi spacciatori thailandesi. Ancora carcerato, accetta la proposta di entrare a far parte della neonata banda, ricevendo fin dall'inizio una "stecca" di trecentomila lire alla settimana. Punto di contatto e tramite con esponenti di primo piano della 'Ndrangheta come Paolo De Stefano, Giuseppe Piromalli e Pasquale Condello
Angelo De Angelis, detto Er Catena. Pregiudicato, con diversi precedenti penali a suo carico, si vantava di far parte di un gruppo massonico per il quale agiva e da cui riceveva protezione a livello poliziesco e processuale. Trafficante di stupefacenti, attività che prosegue anche nella banda, è accusato dai componenti della stessa di tagliare la cocaina che era incaricato di vendere e per questo ucciso
Alessandro D'Ortenzi (detto Zanzarone). Malavitoso con precedenti per associazione per delinquere, rapina, furti, ricettazione, detenzione di armi, ricopre una posizione marginale all'interno della banda ma, dati i suoi trascorsi giudiziari e una certa familiarità con specialisti in psichiatria, è utilizzato per ottenere perizie psichiatriche compiacenti. Costituisce, in particolare, il punto di contatto tra la banda e il professor Aldo Semerari
Il sequestro del Duca Grazioli
Il debutto come banda vera e propria, che fino a quel momento aveva vissuto essenzialmente solo di rapine, fu il sequestro del duca Massimiliano Grazioli Lante della Rovere.
«Fu Franco Giuseppucci a proporci il sequestro del duca Massimiliano Grazioli, operazione alla quale aderimmo e che effettivamente portammo a compimento. Giuseppucci aveva avuto a sua volta l'indicazione dell'ostaggio da tal Enrico (Mariotti, n.d.r.) gestore di una sala corse a Ostia, il quale frequentava il figlio del duca Massimiliano con cui condivideva la passione per le armi. Si trattava di un salto di qualità rispetto alle rapine che sino a quel momento costituivano la nostra principale attività. Ovviamente il sequestro di persona richiedeva una maggiore organizzazione sia logistica che di impegno personale. Pertanto, mentre iniziavano i pedinamenti del sequestrando prendemmo anche contatto, da un lato, con Giorgio Paradisi, il quale conosceva il Giuseppucci a ragione della comune passione per i cavalli e frequentazione di ippodromi, sale corse e bische, con il predetto "Bobo", nonche' con altra persona, di cui non ricordo le generalità e dall'altro lato, con una banda di Montespaccato, della quale ricordo facevano parte Antonio Montegrande, siciliano »
(Interrogatorio di Maurizio Abbatino del 25 novembre 1992)
La sera del 7 novembre 1977, lasciata da poco la sua tenuta di Settebagni a bordo della sua BMW 320, il Duca venne bloccato all'incrocio di via della Marcigliana con via Salaria da due auto: una Fiat 131 guidata da Maurizio Abbatino ed un'Alfetta con al volante Renzo Danesi e sulle quali c'erano anche Giuseppucci, Paradisi, Piconi, Castelletti e Colafigli che, incappucciati, lo fecero scendere a forza per poi caricarlo a bordo di una delle auto e successivamente trasportarlo in diversi nascondigli provvisori. Inizialmente venne rinchiuso in un appartamento di Primavalle, poi trasferito in una località sull'Aurelia e infine nel napoletano.
A causa dell'inesperienza nel campo però la banda non riuscì a gestire al meglio il sequestro e dovette chiedere aiuto ad un altro gruppo criminale, una piccola banda di Montespaccato. La prima telefonata di richiesta del riscatto arrivò alla famiglia del Duca un'ora dopo il sequestro: "Preparate dieci miliardi". La banda era infatti a conoscenza delle disponibilità monetarie dei Grazioli che, oltre a qualche proprietà, come a esempio l’ampia tenuta di Settebagni, solo qualche tempo prima aveva venduto il quotidiano romano Il Messaggero. Nei giorni successivi le trattative continuarono frenetiche, con la famiglia che chiedeva continuamente prove sulle condizioni di salute del rapito. I rapitori inviarono loro una foto Polaroid nella quale l'ostaggio teneva in mano una copia del giornale fiorentino La Nazione acquistato appositamente in Toscana per depistare le indagini.
Le richieste dei sequestratori scesero poi di molto e, il 14 febbraio, arrivò il messaggio che stabiliva il contatto finale per il pagamento. Il figlio del Duca, Giulio Grazioli, avrebbe dovuto far pubblicare, sul quotidiano romano Il Tempo, un annuncio di accettazione delle condizioni dei sequestratori: «Gambero rosso tutte le specialità marinare, pranzo a prezzo fisso, lire 1500 (a significare un miliardo e mezzo, ndr)». Il pagamento avvenne attraverso una modalità simile a quella di una caccia al tesoro e con tutta una serie di complesse segnalazioni e di messaggi lasciati nei vari punti di Roma, per evitare che la famiglia potesse essere seguita dalle forze dell'ordine. Alla fine di un lungo tragitto, il figlio del Duca Grazioli, consegnò la borsa con il denaro lanciandola da un ponte dell'autostrada Roma-Civitavecchia dove, a raccoglierla c'erano Danesi, Piconi e Castelletti.
Il frutto del riscatto venne "steccata" in parti eguali tra i vari gruppi interni alla banda e poi riciclata in Svizzera tramite Salvatore Mirabella, un milanese della banda di Francis Turatello ed inserito nel giro delle bische clandestine.
« La somma del riscatto venne ripartita in ragione del cinquanta per cento a quelli di Montespaccato, che avevano in custodia l'ostaggio, e del cinquanta per cento a noi, ognuno dei due gruppi, doveva detrarre dalla propria parte la "stecca", rispettivamente, per il basista Enrico e per il telefonista. Le quote spettanti a ciascun gruppo, si ridussero del dodici per cento, costo del cambio delle banconote in franchi svizzeri. Debbo ancora aggiungere che Enzo Mastropietro, il quale aveva partecipato alla preparazione del sequestro, non poté partecipare però all'esecuzione in quanto poco prima era stato arrestato. Ciò nonostante, venne a lui riservata una quota di lire venti milioni e una quota di lire quindici milioni venne riservata a Enrico De Pedis, il quale come ho già detto era anch'egli detenuto, in considerazione dei suoi stretti rapporti con Franco Giuseppucci. »
(Interrogatorio di Maurizio Abbatino del 25 novembre 1992)
La famiglia Grazioli attese a lungo ed invano il promesso rilascio dell'ostaggio. Quello che non potevano allora sapere era che, durante la prigionia, era avvenuto un imprevisto decisivo: uno dei componenti di Montespaccato, infatti, si era fatto vedere in faccia dal Duca ed a causa di questo contrattempo l'ostaggio venne ucciso ed il suo corpo mai fatto ritrovare.
« L'ostaggio non venne mai rilasciato, sebbene al momento del pagamento del riscatto fosse ancora in vita. Il gruppo di Montespaccato ci informò del fatto che aveva visto in faccia uno dei carcerieri di tal che ci fu detto che non si poteva fare a meno di ucciderlo. A questa decisione, la quale non fu nostra, non ci opponemmo, in quanto l'individuazione dei complici poteva significare anche la nostra individuazione. Pertanto il Montegrande e compagni diedero corso all'esecuzione alla quale non partecipammo. Nulla sono in grado di riferire di preciso circa le modalità esecutive dell'omicidio. So soltanto che il fatto è avvenuto nel napoletano, dove l'ostaggio era stato trasferito in una casa di campagna appartenente a familiari di persone del gruppo di Montespaccato, in quanto anche la seconda 'prigione' di Roma era diventata insicura per il protrarsi della durata del sequestro. So altresì che il cadavere venne sepolto, ma non sono in grado di dire dove. »
(Interrogatorio di Maurizio Abbatino del 25 novembre 1992)
Nonostante le cose non si fossero svolte tutte come la banda le aveva previste, anche a causa della morte dell'ostaggio, il sequestro si rivelò un vero e proprio successo per il neonato gruppo. Aveva contribuito a cementare ulteriormente i rapporti al suo interno, confermando l'idea che unire le forze di più batterie non era solo possibile ma che avrebbe portato loro enormi ed ulteriori vantaggi.
L'omicidio di Franco Nicolini
«"Roma è nelle nostre mani". La droga poteva arrivare e andare indifferentemente a uomini della mafia, della camorra, della 'ndrangheta, dell'eversione nera, di organizzazioni mediorientali. Agli ex rapinatori cresciuti nelle batterie di quartiere, passati al giro più grosso delle bische e delle scommesse clandestine e diventati in pochi anni impresari di morte attraverso il traffico di droga, non interessava servire ed essere serviti da questa o quella banda. »
(da Ragazzi di malavita di Giovanni Bianconi)
La ragione per la quale un gruppo così disomogeneo e numericamente modesto riuscì a raggiungere per la prima volta il pressoché totale controllo delle attività criminali in una metropoli come Roma è da ricercarsi essenzialmente nei metodi utilizzati e, primo tra tutti, quello degli omicidi. Tale pratica, mai troppo utilizzata in passato da parte della mala romana, venne utilizzata dalla banda al fine di estendere il suo controllo su tutta la città, attraverso la sistematica eliminazione fisica degli avversari, intendendo in questo modo ottenere il risultato ulteriore di intimorire chi avesse voluto interferire con i suoi progetti di crescita. Questa situazione di precario equilibrio generava nel sodalizio il timore che qualcuno dei vari boss potesse prendere il sopravvento rispetto agli altri, per cui esisteva la regola che ogni azione rilevante dovesse essere approvata dai vari gruppi.
Il debutto di fuoco fu l'uccisione di Franco Nicolini, detto Franchino er Criminale, all'epoca padrone assoluto di tutte le scommesse clandestine dell'ippodromo Tor di Valle e le cui attività illegali suscitarono ben presto l'interesse della nascente banda, anche se il motivo primario del suo omicidio fu da ricercarsi in un torto fatto subire a Nicolino Selis nel corso di un periodo di comune detenzione; questo avvenne nel 1974 quando, durante una rivolta dei detenuti, Nicolini si schierò dalla parte delle guardie carcerarie per ristabilire l’ordine e, agli insulti di Selis, rispose schiaffeggiandolo in pieno volto di fronte agli altri detenuti.
« Alla richiesta di meglio precisare il movente dell'omicidio di Franco Nicolini, ribadisco quanto in proposito ho già dichiarato nei miei precedenti interrogatori: chi aveva motivi per volere la morte di "Franchino il Criminale" era Nicolino Selis, il quale ci chiese di aiutarlo nell'impresa per saggiare la nostra affidabilità nel momento in cui vi era la prospettiva di realizzare la fusione tra il nostro e il suo gruppo. All'epoca, stante l'interesse alla integrazione dei due gruppi, non chiedemmo al Selis di spiegarci puntualmente le ragioni per cui voleva commettere l'omicidio, d'altra parte il Selis ci disse che si trattava di un suo fatto personale e ci era noto, al riguardo, che tra il Nicolini e il Selis, vari anni prima, durante una comune detenzione dei due, vi erano stati dei violenti screzi, nel carcere di Regina Coeli. Al progetto del Selis di uccidere il Nicolini, non solo non ci opponemmo, ma lo aiutammo, sia per le ragioni sopra esposte, sia perche' anche il Giuseppucci vi era in qualche modo interessato, essendo disturbato dalla presenza del Nicolini presso l'ippodromo di Tor di Valle. Per maggior chiarezza, il Giuseppucci riusciva quasi sempre a condizionare l'andamento di qualche corsa, il Nicolini, da parte sua, essendo un allibratore di un certo calibro e avendo un sostanziale controllo dell'ippodromo, spesso intralciava i programmi del primo »
(Interrogatorio di Maurizio Abbatino del 11 febbraio 1993)
La sera del 25 luglio del 1978, nel momento in cui la gente cominciava a defluire dall'ippodromo dopo l'ultima corsa, nel parcheggio antistante due auto attesero l'arrivo di Nicolini: Renzo Danesi e Maurizio Abbatino erano alla guida rispettivamente, di una Fiat 132 e di una Fiat 131, a bordo delle quali si trovavano Enzo Mastropietro, Giovanni Piconi, Edoardo Toscano, Marcello Colafigli e Nicolino Selis, mentre Franco Giuseppucci rimase in attesa all'interno dell'ippodromo, allo scopo di farsi notare dalla gente per costruirsi l'alibi; Nicolini, giunto nel parcheggio nei pressi della sua Mercedes grigia, venne avvicinato da Toscano e Piconi e freddato all’istante con nove colpi di pistola.
La decisione di uccidere Nicolini venne presa dalla banda anche in virtù del beneplacito, ottenuto dal capo della Nuova Camorra Organizzata, Raffaele Cutolo, il quale, appena evaso dall'ospedale psichiatrico di Aversa, nella primavera del 1978 organizzò un incontro con Selis allo scopo di trovare, tra i rispettivi gruppi, una strategia compatibile con gli obbiettivi di entrambi, nominando così Selis suo luogotenente nella piazza romana.
Raffaele Cutolo
All'incontro, che avvenne in un albergo di Fiuggi dove, secondo la deposizione del pentito Abbatino, Cutolo disponeva di un intero piano per sé ed i propri guardaspalle, parteciparono anche Franco Giuseppucci, Marcello Colafigli e lo stesso Maurizio Abbatino, e questo segnò un momento decisivo nella storia della banda che, tra le sue varie attività, ebbe modo di attivare un canale preferenziale con i camorristi per la fornitura delle sostanze stupefacenti da distribuire poi nella capitale.
La sua eliminazione, oltreché a cementare i rapporti all'interno dei vari gruppi della Banda, si rivelò comunque una tappa fondamentale per la crescita della stessa che, da quel momento in avanti, ebbe via libera per poter gestire un'ottima fonte di guadagno. Da quel momento, infatti, i rapporti di forza all'interno della malavita romana subirono un cambiamento definitivo che vide la banda in una posizione predominante e che perdurò negli anni successivi. L'ascesa degli uomini della Magliana, infatti, avvenne in modo molto rapido ed in poco tempo, dalle semplici rapine, le attività criminali della stessa si spostarono verso reati più redditizi legati ai sequestri di persona, al controllo del gioco d'azzardo e delle scommesse ippiche, ai colpi ai caveau e soprattutto al traffico di sostanze stupefacenti. I vari componenti della banda, comunque, anche quando il loro potere crebbe fino ad assumere il controllo completo delle attività illecite cittadine, continuarono, nonostante le ricchezze acquisite e il conseguente salto di qualità nella scala sociale (da piccoli malavitosi di quartiere ad affaristi del crimine), a partecipare personalmente alle azioni, rimanendo sostanzialmente degli operai del crimine.
Video Processo Pecorelli, parla Mancini:
Il traffico di stupefacenti
L'organizzazione dello spaccio della droga e la sua diffusione capillare nelle varie zone della città avveniva attraverso una rete di spacciatori di medio livello, denominati cavalli, collegati a loro volta a piccoli spacciatori denominati formiche. Tale struttura venne spiegata da Antonio Mancini durante un interrogatorio: «Già nel 1979, c'eravamo estesi su tutta Roma. L'approvvigionamento della droga non era più un problema.»
Tutti gli spacciatori rispondevano, però, ad un referente della banda che si incaricava, dopo avere ricevuto la droga dai canali della criminalità organizzata o dall'estero, di distribuirla al livello inferiore e di ritirare i proventi della vendita della stessa, imponendo una sorta di monopolio della droga, attraverso il quale si controllava l'approvigionamento e lo smercio su tutta Roma. «Battevamo la piazza, per imporre il nostro prodotto agli spacciatori» dichiarò poi il pentito Abbatino, interrogato il 25 novembre 1992 «promettendo e garantendo loro la protezione nei confronti dei precedenti fornitori. In altri termini, mettevamo la concorrenza nelle condizioni di non poter più operare, se non facendo capo a noi.»
Nell'interrogatorio reso il 23 maggio 1994, lo stesso Mancini, confermò questo modus operandi dell'organizzazione: «il sistema funzionava in questo modo: costituito il gruppo e avute le entrature per l'approvigionamento della droga, si prendeva contatto con coloro i quali in qualche modo operavano nel settore; si faceva loro una proposta che non potevano rifiutare, di prendere la droga da o tramite noi, di tal che, accettando, entravano automaticamente a far parte del nostro gruppo. Nessuno si rifiutò mai di accedere alle nostre proposte, in quanto se fosse accaduto il riluttante era un uomo morto.»
Allo scopo di avere un controllo capillare del territorio si rese necessario una divisione dello stesso in varie zone presidiate dai vari gruppi della banda.
« Il mercato romano, fermo restando che la droga che si vendeva era ovunque la stessa, dal momento che le forniture erano comuni a tutti, era ripartito in zone, controllate ovviamente da persone diverse, a seconda dell'influenza, maggiore o minore che si aveva sulle singole aree territoriali. A tal proposito, esisteva un accordo tra tutti, nel senso che ciascuno doveva curare esclusivamente la distribuzione nel proprio territorio senza invadere quello assegnato agli altri. Si trattava di regole piuttosto ferree e che tutti si era tenuti a rispettare. So' questo perché, per quanto riguardava me avevo assegnato il territorio di Trastevere, che era comunque uno dei più ricchi: una volta che io sconfinai, effettuando una distribuzione alla Garbatella, dove il territorio era assegnato a Manlio Vitale e ad altri, Danilo Abbruciati si arrabbiò molto con me, dal momento che, a suo dire, lo avrei messo in grosse difficoltà, avendo egli dovuto dare al Vitale, personaggio di notevole prestigio nell'ambiente malavitoso, spiegazioni circa lo sconfinamento, faticando a convincerlo che era stata cosa del tutto accidentale e non il sintomo di una volontà di sottrarci al rispetto delle regole. »
(Interrogatorio di Fabiola Moretti dell'8 giugno 1994)
La divisione in zone del territorio rifletteva in pieno la struttura costitutiva della banda che, nata dall'unione di diversi gruppi o batterie, responsabili ognuna della propria, a differenza di altre organizzazioni criminali quali la Camorra o Cosa Nostra, non presentava un'organizzazione piramidale vista l'assenza di un unico capo in grado di prendere decisioni vincolanti per le diverse zone.
« Per quanto concerne le forniture di droga che "lavoravamo" occorre distinguere tra la cocaina e l'eroina: la cocaina, il mio gruppo la riceveva tramite Manuel Fuentes Cancino; l'eroina, che commerciavamo, per come ho detto, unitamente al gruppo Selis e al De Pedis e compagni, la ricevevamo, solitamente, tramite Koh Bak Kim. Costui, da me conosciuto, tramite Gianfranco Urbani (detto "il Pantera"), cominciò a rifornirci di eroina che egli introduceva in Italia, tramite suoi corrieri che venivano dalla Tailandia, Stefano Bontate e Pippo Calo'. »
Stefano Bontate
occultata nelle cornici di quadri, o nei doppi-fondi di valige. Via via che la nostra organizzazione si annetteva sempre piu' vaste fette di mercato la stessa si allargava, a seguito delle scarcerazioni di Enrico De Pedis, amico sia mio che del Giuseppucci, e di Raffaele Pernasetti, i quali ne entravano a far parte a pieno titolo, apportando nuovi canali di approvigionamento che consentivano di soddisfare le esigenze di conservazione del mercato acquisito e di ulteriori ampliamenti dell'attività. Amico del De Pedis era Danilo Abbruciati, il quale consenti' di prendere contatto con fornitori del calibro di
(Interrogatorio di Maurizio Abbatino del 25 novembre 1992)
I proventi di questo traffico, così come quelli relativi al gioco d'azzardo, alla prostituzione, alle scommesse clandestine, al traffico di armi e di tutte le altre attività criminali in cui la banda era impegnata, oltre ad assicurare un adeguato livello di corruzione di periti, avvocati, personale sanitario ed anche di alcuni esponenti delle forze dell’ordine, erano divisi sempre in parti uguali: tutti i membri ricevevano la cosiddetta stecca para, ossia una sorta di dividendo indipendente dal lavoro svolto in quel periodo, che anche i membri detenuti (e i familiari degli stessi) continuavano a ricevere assieme ad un'adeguata assistenza legale per evitare delazioni; questo insieme di regole era vincolante per gli appartenenti alla banda e l’inosservanza delle stesse portava a vendette ed anche all'omicidio.
Video Processo alla Banda della Magliana parla Antonio Mancini:
Il deposito di armi al Ministero della Sanità
Il notevole aumento del numero di armi a disposizione della banda che, sino a quel punto venivano custodite da una serie di favoreggiatori incensurati, indusse l'organizzazione a valutare l'opportunità di raggrupparle in un unico deposito. Da un lato, vi era chi avrebbe preferito custodirle in un appartamento disabitato e, dall'altro chi invece premeva affinché venissero affidate ad un'unica persona in un ambiente insospettabile.
« Marcello Colafigli aveva un notevole ascendente su Alvaro Pompili, all'epoca impiegato del Ministero della Sanità, pertanto gli prospetto' la possibilità di costituire un deposito presso tale Ministero. Alvaro Pompili, a sua volta, era particolarmente legato a Biagio Alesse, custode e centralinista presso il Ministero della Sanità, il quale si fece convincere agevolmente a fare anche il custode delle armi, con un compenso fisso di circa un milione al mese e con la tacita garanzia che, per ogni necessità economica, la banda avrebbe fatto fronte ai suoi impegni. Fu cosi' che gran parte delle armi furono trasferite dai precedenti depositi presso la Sanità. Per quanto poi concerne, in particolare, la riconsegna, questa veniva effettuata quasi sempre da Claudio Sicilia e da Gianfranco Sestili: essi si limitavano a lasciare il borsone all'Alesse, il quale provvedeva autonomamente all'occultamento. Mentre per quanto concerne il ritiro e la preparazione delle armi, l'Alesse poteva consentirla soltanto ai due predetti, a me, a Marcello Colafigli e alle persone che si fossero presentate in nostra compagnia. Per quanto sono in grado di ricordare e per quel che mi risulta personalmente, mi recai al Ministero una volta in compagnia di Danilo Abbruciati e un'altra in compagnia di Massimo Carminati. Ora, mentre Danilo Abbruciati non era autorizzato a recarsi da solo presso il Ministero, a Massimo Carminati venne consentito, invece, in un secondo momento, di accedere liberamente al Ministero. La decisione di consentire l'accesso con maggiore libertà al Carminati, venne presa da me, nell'ottica di uno scambio di favori tra la banda e il suo gruppo. Le armi custodite nel deposito della Sanità appartenevano a tutte le componenti della banda, rispondeva pertanto unicamente a esigenze di sicurezza limitare alle persone che ho indicato il libero accesso al Ministero, anche per non creare dei problemi ulteriori all'Alesse. »
(Interrogatorio di Maurizio Abbatino del 3 dicembre 1992)
Il 25 novembre del 1981, nel corso di una perquisizione, la polizia rinvenne in uno scantinato del Ministero della Sanità, al civico 34 di via Liszt all'Eur, l'arsenale composto da 19 tra pistole e revolver, una machine pistol M12, un mitra moschetto automatico Beretta (Mab), un mitragliatore Sten, altri fucili mitragliatori, oltre a cartucce ed a bombe a mano.
Analizzando le armi, gli inquirenti poterono risalire anche ai legami tra la banda e la destra eversiva dei Nuclei Armati Rivoluzionari che, proprio tramite Massimo Carminati, ebbero modo di utilizzare alcune di quelle armi, a cominciare dal depistaggio delle indagini sulla strage di Bologna operato dai servizi deviati.
La guerra con il Clan Proietti
Il primo componente della banda a cadere sul campo fu Franco Giuseppucci, ucciso a Piazza San Cosimato nel cuore del quartiere di Trastevere, il 13 settembre 1980, in un agguato orchestrato da parte di esponenti del clan rivale della famiglia Proietti, detti i Pesciaroli per via della loro attività commerciale all'interno del mercato ittico della capitale. Un gruppo criminale molto numeroso e che si avvaleva di consanguinei, fratelli, cugini e affini e molto vicino a quel Franco Nicolini, giustiziato dai componenti della Magliana per il controllo del giro di scommesse clandestine presso l'ippodromo di Tor di Valle.
Raggiunto da una pallottola al fianco mentre saliva a bordo della sua Renault 5, Giuseppucci riuscì comunque a mettere in moto la vettura e ad arrivare fino in ospedale, crollando poi fra le braccia degli infermieri e spirando proprio mentre i medici si apprestavano ad intervenire. La morte di Giuseppucci fu il pretesto per scatenare una sanguinosa guerra contro il clan rivale che segnò però anche un forte momento di aggregazione della banda. Gli scontri violenti e gli agguati tra i due gruppi si manifestarono ben presto con una serie impressionante di omicidi e tentativi di omicidio e con gravissime perdite riportate dai Proietti.
Il primo atto della vendetta nei confronti dei Proietti, relativamente all'uccisione di Franco Giuseppucci, fu un errore, uno scambio di persona da parte della banda. La sera del 19 settembre 1980, Maurizio Abbatino, Paolo Frau, Edoardo Toscano e Marcello Colafigli, appostati davanti ad una villa tra Ostia e Castelfusano abitualmente frequentata da Enrico Proietti, detto er Cane, fecero fuoco contro una macchina a bordo della quale c'erano Pierluigi Parente, avvocato ventottenne e figlio di un industriale, e la sua fidanzata Nicoletta Marchesi, completamente estranei al clan Proietti.
« Intorno alle due di notte vedemmo uscire una Fiat Ritmo dalla villa. La inseguimmo e dopo duecento o trecento metri la superammo: eravamo muniti di un fucile a pompa, un mitra Mab e una pistola calibro 9 con silenziatore. Avevamo anche una bomba a mano. Il silenziatore della calibro 9, dopo due o tre colpi, si ruppe. Il conducente della Fiat Ritmo fece una rapidissima retromarcia, riportandosi davanti al cancello della villa, balzò fuori dall'auto e si gettò in un burrone, mentre l'altro passeggero, che non avevamo capito si trattasse di una donna, restò accucciato nella macchina. Io mi trovavo alla guida della nostra autovettura, gli altri spararono tutti: Colafigli col fucile a pompa sparò all'interno dell'abitacolo della Fiat Ritmo. »
(Interrogatorio di Maurizio Abbatino del 6 novembre 1992)
Il ragazzo fece in tempo a darsi alla fuga, mentre la sua fidanzata rimase gravemente ferita. La rappresaglia continuò poi il 27 ottobre 1980 quando, Enrico Proietti detto "Er Cane", venne ferito in un agguato nei suoi confronti e riuscì a sfuggire miracolosamente ai suoi aggressori. Meno fortunati furono invece Orazio, figlio di Enrico, che morì di overdose dopo essere stato comunque ferito anche lui in un agguato della banda, il 31 ottobre 1980 e poi Fernando, detto Il Pugile, giustiziato il 30 giugno del 1982.
L'episodio più significativo, però, avvenne la sera del 16 marzo 1981 quando, Antonio Mancini e Marcello Colafigli intercettarono Maurizio Proietti detto il Pescetto e suo fratello Mario (Palle D'oro), quest'ultimo già sfuggito miracolosamente ad un agguato qualche tempo prima. I due, in compagnia delle rispettive famiglie, facevano infatti rientro alle loro abitazioni site in via di Donna Olimpia n°152, nei pressi del quartiere Monteverde. Nel furibondo scontro a fuoco che ne seguì, Maurizio fu colpito a morte, mentre i due criminali della Magliana rimasero lievemente feriti e, nel tentativo di evitare l’arresto e di aprirsi un varco verso la fuga, iniziarono a sparare sulla polizia che a sua volta rispose al fuoco. I due killer feriti tentarono disperatamente la fuga, ma vennero quindi arrestati all'interno di un appartamento dello stabile nel quale si erano barricati.
Come ebbe poi a rivelare il pentito Abbatino: «Tutte le persone della banda erano a conoscenza della vendetta, in quanto tutti amici del Giuseppucci, avevano concorso a programmarla nelle linee generali ed erano disponibili, nell'ambito di una interna distribuzione dei ruoli, a intervenire materialmente (o eseguendo gli omicidi, ovvero svolgendo le attività preparatorie necessarie, ovvero ancora fornendo le strutture logistiche), ai fini dell'attuazione dei singoli atti omicidiari. Questa guerra impedi' il dissolversi del sodalizio, rappresentando un forte momento di aggregazione.»
I rapporti con la destra eversiva
La concomitanza temporale tra l'ascesa della banda della Magliana ed i cosiddetti anni di piombo, ossia quel periodo che, dalla metà degli anni settanta agli inizi degli anni ottanta, segnò in Italia il culmine della lotta armata politica, con una serie di omicidi, stragi e fatti di sangue, innescò, tra le altre cose, anche un'insolita convergenza di interessi fra gli uomini della Magliana ed alcuni ambienti dell'eversione neofascista.
Fatta, però, esclusione per sporadiche simpatie fasciste di alcuni componenti della Magliana (come ad esempio Giuseppucci, che conservava in casa alcuni dischi con i discorsi di Mussolini e diversi altri simboli fascisti), il fine ultimo di tali rapporti era decisamente scevro di qualsiasi orpello ideologico e politico e, come anche per altre occasioni, può essere individuato esclusivamente nell'interesse dell'organizzazione allo scambio di armi, al potenziamento del controllo sul territorio, al riciclaggio di denaro, ecc. L'obiettivo venne presto raggiunto attraverso la conoscenza di alcuni uomini cerniera e di raccordo tra la criminalità organizzata, i settori deviati dei servizi e le organizzazioni eversive neofasciste come Alessandro D'Ortenzi, Massimo Carminati ed altri ancora.
Con il professor Aldo Semerari
Uno dei personaggi attivi nell'area dell'eversione nera che entrò in contatto con la banda fu il professor Aldo Semerari. Celebre psichiatra forense, massone e iscritto alla Loggia P2, agente dei servizi d’informazione militare e tra i più autorevoli criminologi italiani, Semerari lavora come consulente per redigere alcune delle perizie psichiatriche dei casi giudiziari più eclatanti degli anni settanta come, ad esempio, quella su Pino Pelosi nel caso dell'omicidio di Pier Paolo Pasolini.
« L'istituzione di collegamenti tra gruppi eversivi dell'estrema destra e la malavita
Aldo Semerari
organizzata romana rientrava in un disegno strategico comune al Prof. Aldo Semerari e al Prof. Fabio De Felice, convinti che per il finanziamento dell'attività eversiva non fosse necessario creare una struttura finalizzata al reperimento programmatico di fondi, quando, senza eccessive compromissioni, si poteva svolgere un'attività di supporto di tipo informativo e logistico rispetto a strutture di criminalità comune già esistenti e operanti, onde garantirsi, lo storno degli utili derivanti dalle operazioni rispetto alle quali si forniva un contributo. Il primo collegamento venne realizzato attraverso Alessandro D'Ortenzi detto "zanzarone", in un incontro che, se mal non ricordo, si svolse presso la villa del Prof. De Felice. Per quanto ho potuto constatare di persona, i rapporti che intercorrevano tra il gruppo criminale denominato Banda della Magliana, o per meglio dire, tra i suoi esponenti, e il Prof. Semerari, era quello di una sorta di sudditanza dei primi al secondo, il quale esercitava su di loro una notevole influenza in forza dei benefici che costoro si aspettavano di conseguire per effetto delle sue prestazioni professionali. Con il passar del tempo, probabilmente, in considerazione di aspettative frustrate dai fatti, ho potuto constatare un progressivo raffreddamento di rapporti degli uni verso l'altro. »
(Interrogatorio di Paolo Aleandri dell'8 agosto 1990)
Leader del gruppo neofascista, Costruiamo l'azione, durante l'estate del 1978 organizzò diversi seminari e incontri politici nella villa del professor Fabio De Felice sita a Poggio Catino in provincia di Rieti, a cui parteciparono anche alcuni componenti della banda introdotti da Alessandro D'Ortenzi, detto Zanzarone, un pregiudicato in rapporti di confidenza con il professore e che per i suoi trascorsi giudiziari e la sua familiarità con diversi specialisti in psichiatria, veniva utilizzato per ottenere perizie compiacenti. Semerari seguì una precisa strategia eversiva basata anche sulla collaborazione fattiva tra estremismo di destra e malavita comune e, secondo il pentito Abbatino: «A lui piaceva proprio avere contatti con le bande. E c’è stato un periodo in cui loro utilizzavano noi, e noi loro per le perizie e per l’approvvigionamento e l’acquisto di armi. Semerari pensava a un appoggio di tipo logistico, come un colpo di Stato: loro facevano dei raduni nelle campagne di Rieti proprio simulando colpi di Stato.»
« Grazie al contatto istituito da D'Ortenzi, si fece una riunione nella villa di Fabio De Felice, per discutere i possibili scambi di favori tra la nostra banda e i terroristi di destra che facevano capo al Semerari. All'incontro, per la banda, partecipammo io, Marcello Colafigli, Giovanni Piconi e Franco Giuseppucci. Era presente Alessandro D'Ortenzi. Oltre al De Felice ricordo presenti all'incontro il Prof. Semerari e Paoletto Aleandri. Nell'occasione, fermo restando il nostro assoluto disinteresse per le prospettazioni ideologiche di Aldo Semerari - per quanto potei constatare frequentando Franco Giuseppucci, questi aveva delle spiccate simpatie per il fascismo, deteneva dischi riproducenti discorsi di Benito Mussolini, medaglie e gagliardetti, tuttavia questa sua infatuazione non ne condizionava minimamente l'azione, ne' lo conduceva a perdere di vista gli interessi e gli scopi della banda che erano tuttaltro che politici - si valuto' la praticabilità di una collaborazione tra noi e i terroristi neri, finalizzata, per quanto li riguardava, al finanziamento delle attività di tipo piu' propriamente politico. In particolare si raggiunse una sorta di accordo di massima per la commissione in comune di sequestri di persona a scopo di estorsione e di rapine. Nell'incontro in questione, tuttavia, non si ando' oltre un accordo di massima, quel che e' certo non si raggiunse un vero e proprio patto operativo. A noi comunque interessava mantenere i contatti, in considerazione dell'influenza del Semerari nel settore giudiziario, essendo egli un famoso e stimato perito medico-legale psichiatrico. »
(Interrogatorio di Maurizio Abbatino del 3 dicembre 1992)
Nonostante il rifiuto ad operare come braccio armato del gruppo politico di Semerari, da quegli incontri uscì un accordo di massima tra il professore ed la banda che prevedeva finanziamenti per il gruppo neofascista in cambio di perizie medico psichiatriche compiacenti e miranti a fare ottenere ai componenti della Magliana, in caso di arresto, condizioni favorevoli di detenzione o scarcerazioni a causa di condizioni di salute inidonee al regime carcerario. Il sodalizio durò fino ai primi mesi del 1982 quando, probabilmente vittima di un regolamento di conti interno alla camorra, il 25 marzo di quello stesso anno, il corpo del professor Semerari fu ritrovato decapitato all'interno di un'automobile, nei pressi di Ottaviano, in provincia di Napoli. La causa della sua morte fu da ricercarsi in un episodio avvenuto poco tempo prima: il professore infatti, nella sua qualità di psichiatra forense, si era adoperato per la scarcerazione di un boss della Nuova Camorra Organizzata di Raffaele Cutolo, per poi accettare l'incarico come consulente anche per la fazione opposta, la famiglia di Roberto Ammaturo. Una errata mossa strategica che, molto probabilmente, gli costò la vita.
Con i Nuclei Armati Rivoluzionari
Di altra natura, invece, fu il rapporto della Banda con l' universo giovanile dell'estremismo di destra e, in particolare, con i componenti del nucleo storico dei Nuclei Armati Rivoluzionari: Alessandro Alibrandi, Cristiano e Valerio Fioravanti, Francesca Mambro, Gilberto Cavallini e, soprattutto, Massimo Carminati. Negli anni settanta, infatti, la contiguità sia temporale che fisica tra gli ambienti dell'eversione politica e del crimine comune organizzato fece si che, tra le parti in causa, cominciò a farsi strada la possibilità di ricercare un terreno di reciproco beneficio comune.
Massimo Carminati
Frequentando i locali del bar Fermi o quelli del bar di via Avicenna (entrambi nella zona di Ponte Marconi), dove spesso si ritrovavano anche molti dei componenti della stessa Banda, nell'estate del 1978 Massimo Carminati entrò in contatto con i boss Danilo Abbruciati e Franco Giuseppucci che, ben presto, lo presero sotto la loro ala protettiva. A loro Carminati iniziò ad affidare i proventi delle rapine di autofinanziamento effettuate con i NAR, in modo da poterli riciclare in altre attività illecite quali l'usura o lo spaccio di droga. In regime di reciproco scambio di favori, la Banda, di tanto in tanto commissiona ai giovani fascisti anche di eliminare alcune persone poco gradite, come nel caso del tabaccaio romano Teodoro Pugliese, ucciso da Carminati (assieme ad Alibrandi e a Claudio Bracci) con tre colpi di pistola calibro 7,65, perché d'intralcio nel traffico di stupefacenti gestito da Giuseppucci. Durante questo periodo, Carminati ottenne addirittura il controllo congiunto (per conto dei NAR ed unico autorizzato del gruppo eversivo) del deposito di armi nascosto negli scantinati del Ministero della Sanità, all'EUR.
Altre indicazioni circa la relazione tra la Banda e l'eversione di destra ci vennero fornite dalle dichiarazioni rese dal neofascista (e pentito) Walter Sordi quando, al giudice di Roma in data 15 ottobre 1982, dichiarò che: «Alibrandi mi disse che Carminati era il pupillo di Abbruciati e Giuseppucci. Parlando in particolare degli investimenti di somme di denaro da noi fatti attraverso la banda Giuseppucci-Abbruciati, posso dire che nel corso dell'80, Alibrandi affidò alla banda stessa 20 milioni di lire, Bracci Claudio 10 milioni, Carminati 20 milioni, Stefano Bracci e Tiraboschi 5 milioni.Ricordo che Alibrandi percepiva un milione al mese di rendita. I soldi affidati alla banda Giuseppucci-Abbruciati erano tutti in contanti. Come ho già spiegato, Giuseppucci e Abbruciati prevalentemente investivano il denaro da noi ricevuto nel traffico di cocaina e nell'usura, ma c'erano anche altri investimenti nelle pietre preziose e nel gioco d'azzardo.»
Nel 1998, la Commissione Parlamentare sul Terrorismo nella sua relazione annuale, scrisse: «All'autofinanziamento furono invece dirette numerose rapine prima presso negozi di filatelia poi agenzie ippiche e banche, rapine che frutteranno una disponibilità economica assai superiore a quella necessaria alla vita dell'organizzazione e connotarono di un tratto di delinquenza ordinaria sia la condotta e il tenore di vita degli autori, sia l'ambiente criminale in cui gli stessi si muovevano. L'organizzazione e l'esecuzione di molti dei colpi avvicinò stabilmente - e per alcuni in modo irreversibile - i ragazzi dei NAR alla criminalità organizzata del gruppo che successivamente verrà indicato (sinteticamente e in parte impropriamente) come Banda della Magliana, attraverso lo stretto legame dei fratelli Fioravanti e di Alibrandi con personaggi come Massimo Sparti, e di Massimo Carminati e dello stesso Fioravanti con Franco Giuseppucci e Danilo Abbruciati. Tali legami verranno a cementarsi, oltre che con la pianificazione e attuazione di rapine (come presso le filatelie o alla Chase Manhattan Bank), attraverso le attività di reinvestimento dei proventi delle rapine (per lo più attraverso il prestito usuraio) che gli estremisti affideranno alla banda, per conto della quale eseguivano attività di intimidazione e di vero e proprio killeraggio.»
Anche per diretta ammissione dei pentiti Claudio Sicilia e Maurizio Abbatino è accertato che, i militanti dei NAR, effettuarono per la banda lavori di manovalanza criminosa come la riscossione di crediti dell'usura, il trasporto di quantitativi di droga oltre che alcuni delitti su commissione. A volte, però, il meccanismo s'inceppò come nel caso della rapina alla Chase Manhattan Bank di Roma del 27 novembre 1979, da parte di Giusva Fioravanti, Alessandro Alibrandi, Peppe Dimitri e Massimo Carminati. Successivamente parte del bottino, consistente in traveller cheque, verrà come sempre affidata nelle mani di Franco Giuseppucci che ne organizzò l'operazione di riciclaggio ma che gli costarono, nel gennaio del 1980, un arresto con l'accusa di ricettazione.
L'intreccio con politica e servizi deviati
La sera del 20 marzo 1979 Mino Pecorelli giornalista, iscritto alla Loggia massonica P2di Licio Gelli, venne assassinato con quattro colpi di pistola calibro 7,65 (uno in faccia e tre alla schiena) da un sicario in via Orazio a Roma, poco lontano dalla redazione del giornale in circostanze ancora oggi non del tutto chiarite. Egli era direttore di OP-Osservatore Politico, dapprima agenzia di stampa e poi rivista settimanale specializzata in scandali politici, tra i quali lo scandalo petroli, il caso Moro, lo scandalo dell'Italcasse, il crack della Sir o gli affari diSindona e Andreotti, che, attraverso delle importanti inchieste, si rivelò anche uno strumento di ricatto e condizionamento del mondo politico per lanciare messaggi cifrati e spesso ricattatori.
Dei proiettili simili a quelli utilizzati nell'agguato (appartenenti allo stesso lotto e con lo stesso grado d'usura del punzone che marca la punta), calibro 7,65 e di marca Gevelot, difficilmente reperibili sul mercato, vennero poi rinvenuti all'interno dell'arsenale della banda nei sotterranei del Ministero della Sanità. Al processo emerse un chiaro coinvolgimento della banda e di Massimo Carminati il quale venne imputato di aver commesso materialmente l'omicidio nell’interesse di Giulio Andreotti, oggetto nella primavera del 1978 di un violento attacco dalle colonne di OP. Tramite dell'accordo sarebbe stato il magistrato e intimo amico del senatore Claudio Vitalone, personaggio molto vicino a esponenti della banda, come ad esempio De Pedis.
Il 3 marzo 1997, durante l'interrogatorio di fronte alla Corte di assise di Perugia, il pentito Maurizio Abbatino dichiarò ai giudici di aver saputo da Franco Giuseppucci che l’omicidio era stato commissionato a loro dai siciliani, ai quali sarebbe stato richiesto da un importante personaggio politico, individuato poi in Giulio Andreotti, oggetto di un duro attacco attraverso gli articoli del settimanale OP.
« La tesi accusatoria nel processo prospettava che il delitto sarebbe stato deciso dal senatore Andreotti il quale, attraverso l’on. Vitalone, avrebbe chiesto ai cugini Salvo l’eliminazione di Pecorelli. I Salvo avrebbero attivato Stefano Bontate e Gaetano Badalamenti, i quali, attraverso la mediazione di Giuseppe Calò, avrebbero incaricato Danilo Abbruciati e Franco Giuseppucci di organizzare il delitto che sarebbe stato eseguito da Massimo Carminati e da Michelangelo La Barbera. »
(Documento del Senato della Repubblica)
Anche Antonio Mancini ebbe a confermare questa circostanza, nell'interrogatorio al pm di Perugia dell'11 marzo 1994, aggiungendo che fu «Massimo Carminati a sparare assieme ad Angiolino il biondo» (Michelangelo La Barbera, ndr), siciliano. Il delitto era servito alla Banda per favorire la crescita del gruppo, favorendo entrature negli ambienti giudiziari, finanziari romani, ossia negli ambienti che detenevano il potere."
A parere dei magistrati però «gli elementi probatori (nei confronti di Vitalone, ndr) non sono univoci» e non permettono «di ritenere riscontrata la chiamata in correità fatta nei suoi confronti». Insomma, Vitalone avrebbe avuto rapporti con l'organizzazione criminale ma non ci furono prove abbastanza evidenti dal punto di vista penale per condannarlo.
Dopo tre gradi di giudizio, nell’ottobre del 2003, la Corte di cassazione di Perugia emanò una sentenza di assoluzione "per non avere commesso il fatto" per Giulio Andreotti, Claudio Vitalone, Gaetano Badalamenti e Pippo Calò accusati di essere i mandanti e per Massimo Carminati e Michelangelo La Barbera da quella di essere gli esecutori materiali dell'omicidio, bollando le testimonianze dei membri della banda come non attendibili.La morte di Pecorelli resta ancora oggi un caso irrisolto come anche la provenienza dell’arma utilizzata nel delitto: tutte le armi dell’arsenale della banda, nel mentre, risultarono misteriosamente manomesse prima che fosse fatta qualche perizia per verificarne il concreto utilizzo.
Il legame con il sequestro Moro
Il 16 marzo del 1978, quando il Presidente della DC Aldo Moro venne rapito da un commando di brigatisti, gran parte della città di Roma era controllata dagli uomini della banda della Magliana e la stessa ubicazione della prigione del popolo (e covo dei terroristi) di via Montalcini, dove probabilmente venne rinchiuso lo statista nei 55 giorni della sua prigionia, era posto tra via Portuense e via della Magliana, ed in seguito si seppe che tale abitazione era circondata dalle abitazioni di molti affiliati alla stessa.
« Nel quartiere (Magliana, ndr), controllato in modo capillare da questo particolare tipo di malavita collegato a settori deviati dei servizi segreti e all’eversione nera, è situata la prigione del popolo di via Montalcini. Nelle immediate vicinanze di via Montalcini abitano numerosi esponenti della banda: a via Fuggetta 59 ( a 120 passi da via Montalcini) Danilo Abbruciati, Amleto Fabiani, Antonio Mancini; in via Luparelli 82 ( a 230 passi dalla prigione del popolo) Danilo Sbarra e Francesco Picciotto (uomo del boss Pippo Calò); in via Vigna due Torri 135 ( a 150 passi) Ernesto Diotallevi, segretario del finanziere piduista Carboni; infine in via Montalcini 1 c'è villa Bonelli, appartenente a Danilo Sbarra »
(Stefano Grassi, Il Caso Moro).
Aldo Moro
Lo stesso pentito Maurizio Abbatino rivelò poi come la banda fosse stata addirittura contattata per scoprire il luogo in cui il Presidente era tenuto prigioniero: «Cutolo ci ha mandato un personaggio politico a parlare per vedere se sapevamo dov’era il covo di Moro.» disse Abbatino «Abbiamo avuto un incontro con lui, ma io non ero d’accordo a metterci in mezzo a questa storia, anche perché rispettavo qualsiasi forma di delinquenza e criminalità e non vedevo il perché. Poi credo che Franco (Giuseppucci, ndr) abbia saputo dove era Moro, ma non so a chi l’abbia detto. Non era difficile saperlo: nell’appartamento c’era gente pregiudicata che conoscevamo».
In un'intervista rilasciata al giornalista Giuseppe Rinaldi, per la trasmissione Chi l'ha visto?, Abbatino parlò nuovamente del sequestro Moro rivelando altri particolari relativi all'incontro con l'uomo politico mandato da Cutolo:
« Rinaldi: "Dopo il rapimento di Moro chi è che viene a chiedervi qualcosa?"
Abbatino: "È venuto l'onorevole Piccoli, ma non è tanto il fatto che sia venuto lui, ma chi ce l'ha mandato."
Rinaldi: "Ci racconta come è avvenuto questo incontro, dove eravate..."
Abbatino: "È avvenuto a viale Marconi sul bordo del fiume, insomma."
Rinaldi: "Chi eravate?"
Abbatino: "Eravamo un po' quasi tutti della banda. Comunque c'eravamo io, Franco Giuseppucci, Nicolino Selis che appunto aveva preso il contatto ...ma vede Flaminio Piccoli era stato mandato da Raffaele Cutolo..." »
Flaminio Piccoli ed Aldo Moro
Secondo le deposizioni del pentito Tommaso Buscetta, nella Commissione di Cosa Nostra si vennero a formare due distinti e contrapposti schieramenti e l'iniziativa della banda venne quindi bloccata dalla fazione dei Corleonesi contraria alla liberazione che, attraverso il suo referente romano Pippo Calò, intervenne dicendo che ai politici della Democrazia Cristiana, in realtà, interessava Moro morto, dopo che lo statista prigioniero aveva iniziato a collaborare con le Brigate Rosse e stava rivelando segreti molto compromettenti per l'onorevole Giulio Andreotti (il cosiddetto "Memoriale Moro").
Toni Chichiarelli
Altro punto di contatto tra la banda e il sequestro del politico democristiano era Toni Chichiarelli, falsario vicino agli uomini della Magliana e autore del finto comunicato n. 7 che, il 18 aprile 1978, annunciava l'uccisione di Moro e la sua sepoltura nel lago della Duchessa. Quel depistaggio, è oggi accertato, fu commissionato dai servizi segreti per cercare di smuovere le acque in quella fase di stallo del sequestro. Inoltre, dalle testimonianze rese al processo per la morte del falsario, ucciso da un killer rimasto ignoto con nove proiettili il 28 settembre del 1984, emerse che, nel sopralluogo della sua abitazione, compiuto qualche giorno dopo la morte, vennero rinvenute, da parte dei Carabinieri, delle foto Polaroid (ritenute autentiche) di Moro scattate durante la sua prigionia.
I depistaggi nella Strage di Bologna
La probabile convergenza d'interessi tra gli uomini della Magliana gli ambienti dell'eversione nera e alcuni settori deviati dei servizi e della politica, trova perfetta esemplificazione nel tentativo di depistaggio legato alla strage alla stazione ferroviaria di Bologna del 2 agosto 1980, per la quale vennero riconosciuti esecutori materiali (tra gli altri) alcuni militanti dei Nuclei Armati Rivoluzionari, di Giusva Fioravanti.
Nel corso delle indagini, infatti, un mitra Mab con numero di matricola abraso e calcio rifatto artigianalmente, proveniente dal deposito/arsenale della banda all'interno del Ministero della Sanità, venne ritrovato sul treno Taranto-Milano il 13 gennaio 1981, in una valigetta contenente anche due caricatori, un fucile da caccia, due biglietti aerei a nome di due estremisti di destra, un francese e un tedesco, e soprattutto del materiale esplosivo T4, dello stesso tipo utilizzato per la strage di Bologna.
Nella sentenza della Corte suprema di cassazione del 23 novembre 1995, nel processo sulla strage del 2 agosto, risultava infatti che: «Il mitra rinvenuto nella valigia che era stata collocata il 13.1.1981 sul treno Taranto-Milano apparteneva alla cosiddetta "banda della Magliana", una vasta associazione per delinquere, operante a Roma in quegli anni. Maurizio Abbatino, che di quell'associazione aveva fatto parte, aveva rivelato che negli scantinati del Ministero della Sanità l'organizzazione disponeva di un cospicuo deposito di armi e che alcune di esse erano state temporaneamente cedute a Paolo Aleandri, ma non erano state più restituite. Per costringere Aleandri a rispettate l'impegno assunto era stato sequestrato, ma poi era stato liberato, con la mediazione di Massimo Carminati quando all'associazione, in sostituzione delle armi date in prestito ad Aleandri, erano state date due bombe a mano e due mitra ed uno di questi mitra era stato prelevato da Carminati e mai più restituito. Abbatino, dopo aver descritto le peculiari caratteristiche del mitra finito nelle mani di Carminati, caratteristiche conseguenti ad un'artigianale modifica del calcio, riconosceva quell'arma nel M.A.B. che era stato trovato a Bologna la notte del 13 gennaio 1981, in quella valigia. Infine lo stesso Abbatino aveva precisato che Carminati faceva parte di un gruppo di giovani che gravitava nell'area della destra eversiva, gruppo del quale facevano parte i fratelli Valerio e Cristiano Fioravanti, Francesca Mambro, Giorgio Vale e Gilberto Cavallini. Una volta riconosciuta, sulla base di tale complesso ed articolato quadro probatorio, piena attendibilità alle dichiarazioni di Abbatino, al giudice di rinvio è stato agevole rilevare che il percorso del mitra rappresentava la prova del rapporto di collaborazione tra i soggetti coinvolti nel processo.»
Al ritrovamento della valigetta seguì la produzione di un dossier, denominato "Terrore sui treni", in cui venivano riportati gli intenti stragisti dei due terroristi internazionali (intestatari dei biglietti aerei) in relazione con altri esponenti dell'eversione neofascista italiana legati allo spontaneismo armato dei Nuclei Armati Rivoluzionari. I due episodi, si scoprirà dopo, durante il processo, vennero attribuiti ad alcuni vertici dei servizi segreti del SISMI come parte di una precisa strategia di depistaggio organizzata per tentare di indirizzare le indagini in una strada ben precisa e in cui, Massimo Carminati, uomo di cerniera tra la Banda ed esponenti dei servizi segreti deviati e dell'eversione nera, ebbe dunque un ruolo attivo, fornendo il MAB prelevato dall'arsenale della Banda e poi rinvenuto sul treno Taranto-Milano.
Secondo la Corte di Assise di Roma, il depistaggio è “l’ennesimo episodio di una pervicace opera di inquinamento delle prove destinate ad impedire che responsabili della strage di Bologna fossero individuati”.
Il 9 giugno del 2000, nel processo di primo grado, Carminati venne condannato (a 9 anni di reclusione) assieme al generale e al colonnello del Sismi Pietro Musumeci e Federigo Mannucci Benincasa, al colonnello dei carabinieri Giuseppe Belmonte e al venerabile Licio Gelli. Dell'episodio vennero infine ritenuti responsabili, con sentenza definitiva, i soli Musumeci e Belmonte, mentre Carminati verrà poi assolto in appello.
Video Cutolo e la Banda della Magliana (Processo Pecorelli):
Le lotte intestine
La morte di Franco Giuseppucci che, almeno all'inizio, aveva rappresentato un forte momento di aggregazione tra i vari componenti della banda impegnati nella guerra al clan rivale dei i Proietti, aveva solo temporaneamente rimandato il progressivo dissolversi del sodalizio in atto ormai da qualche tempo. Una volta terminata la vendetta nei confronti dei presunti assassini del Negro, infatti, il livello di tensione e di ostilità tra i vari gruppi interni alla banda diventò sempre più alto segnando l'inizio della sua disgregazione.
Con la scomparsa del Negro, boss fondatore e collante tra le varie anime dell'organizzazione, la banda non riuscì infatti più a trovare la compattezza che precedentemente le era propria ed i due gruppi prevalenti, i Testaccini di Danilo Abbruciati ed Enrico De Pedis e quelli della Magliana guidati da Maurizio Abbatino, iniziarono una guerra fredda, una fase di continua tensione dovuta a contrasti sempre più ampi e insanabili, gelosie e rivendicazioni che col passare del tempo si trasformerà in una vera e propria faida interna, tanti furono i morti ammazzati da entrambe le parti.
Francesco Pazienza
Tra le varie cause di questa lotta intestina, prima tra tutte ci fu la presa di coscienza, da parte di alcuni componenti, della predominanza sul piano affaristico dei Testaccini che, in contrasto con quanti avrebbero voluto preservare l'anima genuina della banda, venivano accusati di essere uno strumento nelle mani di loschi poteri e di aver trasformato di fatto la stessa Magliana in una sorta di agenzia del crimine, a completa disposizione di chiunque offrisse denaro o protezione. Una vera e propria holding-criminale, quindi, che nei piani dei Testaccini, sempre più compromessi con mafiosi quali Pippo Calò, e massoni, come Licio Gelli e Francesco Pazienza, avrebbe permesso a De Pedis e soci di fare quel salto di qualità ed entrare così nel racket dell'alta finanza, più in funzione dei tempi e sul modello imprenditoriale di mafia e camorra, abbandonando così quelle che fino ad allora erano le prerogative del gruppo originale della banda e relegando Crispino, e soci, alla semplice gestione delle solite attività illecite quali prostituzione, stupefacenti, usura, rapine, rapimenti e corse clandestine. «Testaccio aveva una mentalità più imprenditoriale» racconta Renzo Danesi «mentre Abbatino commerciava ancora con gli stupefacenti.»
L'omicidio di Nicolino Selis
Altro problema interno alla banda, scoppiato dopo l’uccisione del Negro, era rappresentato dall'irrequietezza di Nicolino Selis, il quale, forte dell’appoggio dei camorristi di Cutolo, dal manicomio giudiziario dove si trovava detenuto iniziò sia a mandare messaggi minacciosi che a pretendere di imporre una sua personale spartizione delle ingenti somme di denaro, provento delle varie azioni delittuose. In particolare Selis iniziò anche a pretendere la "stecca" su attività delittuose svolte a titolo individuale e si dimostrò particolarmente indisposto nei confronti di De Pedis il quale a differenza degli altri che sperperavano tutti i loro introiti, aveva iniziato ad investire i suoi guadagni anche in attività legali, tanto da non voler più dividere la "stecca" con gli altri complici, in quanto essi erano provenienti in larga parte dalle sue attività private. La goccia che fece traboccare il vaso, però avvenne in merito alla spartizione di una nuova fornitura di eroina; come raccontò in seguito il pentito Abbatino ci fu «un errore di valutazione in ordine a quanto accadeva fuori dal carcere da parte di Nicolino Selis. Questi era entrato in contatto con dei siciliani, i quali gli avevano assicurato la fornitura di tre chilogrammi di eroina. Secondo gli accordi, tale fornitura avrebbe dovuto essere ripartita al 50% tra il suo e il nostro gruppo, ma Nicolino ritenne di operare una ripartizione di due chilogrammi per i suoi e di uno per noi e, pertanto, impartì al Toscano istruzioni in tal senso. Si trattò di un passo falso: Edoardo Toscano non attendeva altro. Mi mostrò immediatamente la lettera, fornendo così la prova del "tradimento" del Selis, col quale diventava non più rinviabile il "chiarimento". In altre parole, Nicolino Selis doveva morire».
Quando, il 3 febbraio del 1981, Selis uscì dal manicomio giudiziario per un breve permesso, venne organizzato un appuntamento davanti alla Fiera di Roma (all'EUR) con il pretesto di una riappacificazione e per tentare di trovare un accordo d'insieme ma quello che il Sardo non sapeva è che la banda aveva già deciso la sua morte. Selis, accompagnato dal suo cognato e guardaspalle Antonio Leccese, giunse all'EUR a bordo della sua A112 e trovò ad attenderlo Marcello Colafigli, Maurizio Abbatino, Edoardo Toscano, Raffaele Pernasetti, Enrico De Pedis e Danilo Abbruciati. L'intenzione del gruppo era di condurli alla villa di Libero Mancone ad Acilia, ma Leccese, che era in libertà vigilata e ad una ora fissa doveva recarsi presso il commissariato di Polizia a firmare, non venne trattenuto per non dare nell'occhio.
Arrivati sul posto il Sardo venne agguantato con la scusa dell'abbraccio di riappacificazione dando le spalle a Crispino che ebbe il tempo di estrarre la pistola nascosta dentro una scatola di cioccolatini e sparare contro Selis due proiettili, seguiti da altri due di Toscano. Il suo corpo venne poi sepolto in una buca vicino all’argine del Tevere e ricoperto con della calce per affrettare la decomposizione e a tutt'oggi non è stato ancora ritrovato. L'ultimo atto era quello di uccidere Leccese, unico testimone ad aver visto l'ultima volta il Sardo partire con Abbatino e gli altri, che venne ucciso da Abbruciati, De Pedis e Mancini.
L'omicidio Balducci
Le tensioni tra i due gruppi si fecero sempre più forti, soprattutto a causa
Domenico Memmo Balducci
della spegiudicatezza e dell'intraprendenza dei Testaccini che, sempre più slegati dal resto della banda, oramai operavano quasi in un regime di completa indipendenza ed attraverso decisioni prese all'insaputa degli altri, quale l'omicidio, avvenuto la sera del 16 ottobre 1981 ad opera di Abbruciati e De Pedis, di Domenico Memmo Balducci, colpito a morte mentre stava rincasando in motorino, davanti al grande cancello della sua lussuosa villa situata in via di villa Pepoli, all'Aventino, per conto del mafioso Pippo Calò.
Domenico Balducci, meglio noto come Memmo il cravattaro, era un usuraio e proprietario di un piccolo negozietto di elettrodomestici in una stradina adiacente a Campo de' Fiori, ove era esposto in vetrina l'eloquente cartello "Qui si vendono soldi". Attraverso solidi legami con la mafia, i servizi segreti, faccendieri e politici, Memmo gestiva il racket dell'usura per conto dello stesso Calò, il boss palermitano che aveva conosciuto in carcere nel 1954. Il suo errore fu quello di trattenere per sé, nell'estate del 1981, una parte del denaro (150 milioni) destinato a Calò e proveniente dalla cosiddetta "Operazione Siracusa" che avrebbe dovuto garantire alla mafia enormi proventi da una gigantesca speculazione edilizia, firmando così la sua condanna a morte. «Apprendemmo che l’omicidio era stato commesso da Abbruciati, unitamente a Renatino De Pedis e Raffaele Pernasetti per fare un favore ai siciliani: Balducci doveva dei soldi a Pippo Calò» racconterà poi Maurizio Abbatino. «Appresi che l’omicidio era stato commesso nei pressi, mi sembra, di una villa, da Renato e Raffaele, mentre Danilo li attendeva in auto e che i primi due si erano dovuti calare da un muro con una corda per raggiungere l’auto stessa.»
Ne seguì un litigio acceso tra Abbruciati e Abbatino, il quale rinfacciò al testaccino di perseguire propri scopi personali al di fuori dell'interesse comune della banda. In pratica, ai testaccini veniva rivolta l'accusa di essere dei traditori che mettevano in pericolo i compagni unicamente per proteggere gli affari dei Corleonesi.
La morte di Abbruciati
L'intreccio di comuni interessi criminali tra l'anima testaccina della banda, sia con ambienti corrotti dell'economica che della politica e con la mafia di Cosa Nostra, emersero chiaramente in un altro delitto sporco, ossia il tentato omicidio del vice presidente del Banco Ambrosiano Roberto Rosone.
Ernesto Diotallevi
Nel corso del 1981 Roberto Calvi, presidente del Banco Ambrosiano, che in quel momento versava in gravi difficoltà economiche, si era messo in affari, per tentare di coprire i conti in rosso del Banco e salvarsi dal processo in corso a suo carico, con il faccendiere Flavio Carboni ed il mafioso Pippo Calò, i quali, intenzionati poi a recuperare i soldi affidati a Calvi, vennero osteggiati dall'allora vicepresidente dell'istituto di credito Roberto Rosone, il quale aveva assunto la guida della banca dopo il fallimento finanziario ed aveva vietato ulteriori prestiti senza garanzia concessi dal Banco Ambrosiano ad alcune società legate proprio a Flavio Carboni.
Secondo la ricostruzione accusatoria, Carboni informò Calò dell'accaduto e questi, nell'aprile del 1982, tramite Ernesto Diotallevi, affiliato della banda, incaricò Danilo Abbruciati di eseguire un atto di intimidazione a danno di Roberto Rosone.
Giunti in treno a Milano il 26 aprile, la mattina seguente Abbruciati ed il suo complice Bruno Nieddu attesero la vittima sotto casa, in via Ercole Oldofredi, nei pressi della Stazione Centrale ed, intorno alle ore otto, mentre Rosone si dirigeva verso la sua macchina, viene avvicinato da Abbruciati (con il viso coperto) che tentò di sparagli, ma la sua pistola si inceppò, favorendo così la fuga del banchiere che si allontanò precipitosamente. Egli però ebbe il tempo di ricaricare la pistola ed a sparare nuovamente, ferendo Rosone alle gambe, prima di fuggire in sella alla moto guidata dal suo complice. Nel frattempo una guardia giurata posizionata nei pressi di una filiale del Banco Ambrosiano, poco distante dal luogo dell'agguato, uscì e sparò a sua volta un colpo di 357 magnum colpendo a morte l’attentatore mentre cercava di scappare a bordo della moto.
Abbruciati morto
La notizia colse di sorpresa i suoi amici della Magliana (e la stessa Polizia) che, tenuti all'oscuro di tutto, ritennero molto strano il fatto che Abbruciati si riducesse al ruolo di semplice killer su commissione ed accettasse un compito così rischioso anche se ben remunerato. Quello che infastidì maggiormente Abbatino e soci fu il fatto che Abbruciati avesse operato seguendo unicamente il suo tornaconto personale con conseguenze assai pericolose per la stessa banda. Arrivati a questo punto il livello di ostilità tra i due gruppi della banda era ormai diventato sempre più acceso, una divisione troppo grande e senza possibilità di ritorno.
I primi pentiti
Il primo componente della banda a scegliere la via del pentimento fu Fulvio Lucioli
Fulvio Lucioli il Sorcio
. Il Sorcio venne arrestato il 6 maggio del 1983 e tradotto nel carcere romano di Regina Coeli dove, dopo alcuni mesi di travaglio interiore, il 14 ottobre di quello stesso anno scrisse una lunga lettera al direttore dell'istituto di pena dicendosi disposto ad iniziare un programma di collaborazione con la giustizia. E così, il giorno successivo, al davanti al sostituto procuratore Nitto Francesco Palma e ad un funzionario della Squadra Narcotici, Lucioli iniziò il suo raccontò riempiendo i verbali e confessando di omicidi, rapine, traffici di stupefacenti e di armi, oltre che dei legami della banda con politici, cardinali, massoni, mafiosi, camorristi, ndranghetisti, servizi segreti deviati ed eversione nera. Il suo primo atto, però, fu quello di revocare i suoi difensori di fiducia e richiedere un legale d'ufficio: un chiaro segnale mandato verso l'esterno riguardo alle sue intenzioni di pentimento.
Grazie alle sue testimonianze, il 15 dicembre 1983, le forze dell'ordine arrestarono sessantaquattro persone tra boss, seconde linee e fiancheggiatori decapitando, di fatto, gran parte dell'organizzazione. Il 23 giugno 1986, a tre anni e tre mesi dal blitz, con la sentenza del processo di primo grado, trentasette dei sessantaquattro imputati alla sbarra furono condannati ma, solamente, per traffico di sostanze stupefacenti. Confermate nel processo d'appello (il 20 giugno 1987), le condanne furono poi annullate e le assoluzioni per insufficienza di prove trasformate in formula piena dalla Cassazione, il 14 giugno 1988.
Infine, la nuova Corte d'assise d'appello, il 14 marzo 1989, derubricò di fatto l'addebito di associazione per delinquere, screditando la figura del Sorcio definendolo un mitomane e: « una abnormità psichica aggravata da nefaste influenze ambientali a cui sottende un deficit intellettivo meglio definibile come debolezza mentale indice di coscienza non lucida, di stato delirante, di confusione dissociata».
La cosiddetta banda della Magliana, quindi, secondo i magistrati non esisteva ed i vari reati erano stati perlopiù compiuti sulla base di estemporanei accordi e senza un vincolo associativo tra i componenti che andasse al di là dello specifico crimine. Questo era indice del fatto che la banda era ormai penetrata in pieno all'interno dei tribunali ed era quindi capace di corrompere giudici ed avvocati.
Claudio Sicilia
Dopo il pentimento di Lucioli, Claudio Sicilia continuò a gestire le attività del gruppo lasciate dai compagni detenuti fino a quando, arrestato per l'ennesima volta per spaccio nell'autunno del 1986, decise anch'egli di iniziare a collaborare con i magistrati.
Dopo quattro mesi di interrogatori quasi quotidiani, condotti dal sostituto procuratore Andrea De Gasperis, il 17 marzo del 1987, la Procura di Roma, spiccò novantuno ordini di cattura contro le persone chiamate in causa da Sicilia, tra membri della banda, avvocati e professionisti vari. Il 28 marzo e il 1º aprile successivi, però, il Tribunale della libertà di Roma, revocò l’ordine di cattura emesso dal Pubblico Ministero sulla scorta delle chiamate in correità di Sicilia scarcerò circa la metà degli arrestati, una decisione clamorosa dovuta al fatto che il pentito: "altro non era che una persona soggettivamente poco attendibile per i suoi precedenti, la sua posizione giudiziaria, la sua personalità e i suoi presunti moventi."
Nel dicembre del 1990 lo stesso pentito abbandonò il carcere per passare agli arresti domiciliari ed infine tornare libero durante l'estate successiva. Tornato in libertà, ma senza alcuna protezione da parte dello Stato, il Vesuviano trovò la morte la sera del 17 novembre 1991 quando, in via Andrea Mantegna nella zona popolare di Tor Marancia a Roma, due uomini a bordo di una moto di grossa cilindrata lo intercettarono e lo freddarono all'interno di un negozio di scarpe dove aveva cercato riparo.
Il tramonto
Quando i componenti della banda tornarono in libertà, caduto l'impianto accusatorio costruito sulle dichiarazioni dei pentiti Lucioli e Sicilia, dopo un brevissimo periodo di riadattamento alcuni di loro tentarono di riorganizzare le fila del sodalizio criminoso e di ripristinare le vecchie gerarchie in un contesto che, però, vedeva l'organizzazione sempre più divisa da molteplici contrasti interni. Il mancato adempimento degli obblighi di fratellanza riguardanti l'assistenza ai detenuti e ai familiari degli stessi e la generale riottosità del gruppo dei testaccini, capeggiati da De Pedis, nel condividere con gli altri gli introiti delle loro attività criminali, incontrò la feroce opposizione di Edoardo Toscano e Marcello Colafigli, i quali, assieme al loro gruppo di fidati sodali (Vittorio Carnovale, i fratelli Fittirillo, Libero Mancone ed altri ancora), ritennero opportuno mettere un freno alle ambizioni di Renatino e soci.
Come ebbe poi a raccontare la pentita Fabiola Moretti, nell'interrogatorio tenuto l'8 giugno 1994: «Marcello Colafigli ed Edoardo Toscano erano intenzionati, già durante il processo che seguì gli arresti, ad ammazzare Enrico De Pedis. La cosa, parlando con me, mentre eravamo entrambi detenuti, se la lasciò sfuggire Antonio Mancini, al quale chiesi di impedire che a Renatino accadesse qualcosa. Contemporaneamente, all'insaputa di Mancini avvertii, scrivendogli, anche Enrico De Pedis. Di fatto, proprio per l'intervento di Mancini a Renatino, durante il processo non accadde nulla, anzi, almeno in apparenza sembrava si fosse trovato un punto di accordo tra tutti.»
Ma nessun accordo arriverà a pacificare la situazione: il 13 febbraio 1989, uscito di prigione in libertà vigilata, Toscano si mise immediatamente alla ricerca di De Pedis deciso ad ucciderlo per poi fuggire all'estero, subito dopo l'omicidio. Messo al corrente delle intenzioni vendicative dell' Operaietto e giocando d'anticipo sul tempo rispetto all'ex amico e ora rivale, De Pedis escogitò a sua volta una trappola, sapendo che Toscano aveva affidato in custodia una somma di denaro ad un fiancheggiatore della banda di Ostia, Bruno Tosoni.
«Renatino venne a sapere che Edoardo (Toscano, ndr) lo cercava» racconta ancora la Moretti, interrogata nell’estate del 1994 «e ritenne di doverlo uccidere, in quanto altrimenti sarebbe stato ucciso lui. Sapendo che Tosoni reggeva i soldi di Edoardo, circa 50 milioni di lire, offrì a costui una somma di altri 50 milioni perché attirasse Toscano in un'imboscata. L’incarico di uccidere Toscano venne dato da Renatino a Ciletto e a Rufetto. Ciletto, cioè Angelo Cassani era entrato a far parte della banda in occasione dell’omicidio di Roberto Faina. Rufetto anche in altre occasioni era stato usato come killer dei Testaccini come in occasione dell’attentato a Raffaele Garofalo, detto Ciambellone, in piazza Piscinula, dove però il Ciambellone venne mancato. Rufetto faceva il killer già all’epoca di Abbruciati»
Ignaro di ciò che stava per accadere, la mattina del 16 marzo 1989, Toscano si incontrò con Tosoni e rimase del tutto spiazzato quando, alle sue spalle, una moto di grossa cilindrata, con a bordo due uomini con i volti coperti da caschi integrali, fece fuoco su di lui con armi semiautomatiche, colpendolo tre volte e lasciandolo morire sul colpo.
La morte di De Pedis
La vendetta dei sodali di Toscano, tuttavia, non si fece attendere ed, il 2 febbraio del 1990, anche De Pedis rimase sull'asfalto, colpito a morte davanti al civico 65 di Via Del Pellegrino, mentre, in pieno giorno e a bordo del suo motorino, attraversava il mercato romano di Campo de' Fiori.
Il suo intuito per gli affari ed un fiuto imprenditoriale decisamente più oculato rispetto ai suoi compagni aveva portato De Pedis ad intensificare i suoi rapporti con politici e faccendieri, tanto da divenire «un punto di riferimento per i più spregiudicati operatori del mondo finanziario-criminale». Invece di sperperare il denaro accumulato, come tutti gli altri componenti della banda usavano fare, iniziò ad investire gran parte dei proventi delle sue attività illegali in attività legali, costruendo un vero e proprio impero finanziario i cui introiti, secondo i suoi intendimenti, proprio perché frutto di attività proprie, non sarebbero più stati divisibili con gli altri sodali: latitanti, carcerati e familiari degli stessi. «Artefice di quell’impero finanziario, Enrico De Pedis iniziò a essere chiamato, nell’ambiente, il “Presidente” della malavita. Era l’ultimo scorcio degli anni Ottanta, ormai Renatino non si faceva più vedere al bar di via Chiabrera e neppure a Testaccio. Piuttosto, parlava di affari sulla scintillante via Della Vite, nella boutique di Enrico Coveri o anche al Jackie ’O. Renato era diventato snob, a come la vedevano Abbatino e gli altri»
Marcello Colafigli
Con quei soldi, tra le altre cose, De Pedis sistemò anche alcuni suoi familiari comprando loro un paio di esercizi commerciali a Trastevere (la pizzeria Popi Popi 56 e L’Antica Pesa), un supermercato a Ponte Marconi, vari appartamenti in centro e alcune quote di società immobiliari. Naturalmente, il resto della banda, interpretò questa sua emancipazione finanziaria come uno smacco da far pagare a caro prezzo. Un sentimento che ben presto assunse i toni della vendetta vera e propria nel momento in cui De Pedis, anticipando i suoi propositi omicidi, fece uccidere Edoardo Toscano dai suoi uomini scatenando quei propositi di rivalsa da parte della fazione avversa che non si fecero attendere molto. Dopo vari abboccamenti finiti male, infatti, la mattina del 2 febbraio 1990, il gruppo dei maglianesi capeggiati da Marcello Colafigli, riuscì finalmente ad attirare De Pedis (che nell'ultimo periodo girava sempre assieme a dei guardaspalle) in un'imboscata con la complicità di Angelo Angelotti che lo convinse a recarsi presso la sua bottega di antiquario di via del Pellegrino, nei pressi di Campo dei Fiori. Terminato l'incontro, De Pedis, salì a bordo del suo motorino Honda Vision e si avviò verso casa ma venne subito affiancato da una potente moto con a bordo due killer assoldati per l'occasione (Dante Del Santo detto "il cinghiale" e Antonio D’Inzillo), che lo centrarono con un solo colpo alle spalle.
Tumulato inizialmente all'interno del Cimitero del Verano, per volere della famiglia e soprattutto grazie al nulla osta dell'allora vicario di Roma, cardinal Poletti, la sua salma venne poi traslata in grande riservatezza, il successivo 24 aprile, nella Basilica di Sant'Apollinare, a Roma, dove De Pedis si era sposato nel 1988. Negli anni a seguire, la vicenda della sepoltura del boss della Magliana all'interno della chiesa romana, venne legata anche a quella della scomparsa di Emanuela Orlandi, cittadina vaticana e figlia di un commesso della Prefettura della Casa Pontificia, sparita in circostanze misteriose all'età di 15 anni il 22 giugno 1983, a Roma. Nel luglio 2005, infatti, nel corso della trasmissione televisiva Chi l'ha visto? (in onda su Rai Tre) venne mandata in diretta una telefonata anonima che sembrava collegare i due accadimenti: «Riguardo al caso di Emanuela Orlandi per trovare la soluzione del caso andate a vedere chi è sepolto nella cripta della Basilica di Sant'Apollinare e del favore che Renatino (Enrico De Pedis) fece al cardinal Poletti e chiedete alla figlia del barista di via Montebello che anche la figlia stava con lei......con l'altra Emanuela».
Nel 2008, la magistratura romana, registra delle dichiarazioni (mai riscontrate e spesso confutate) della pentita ed ex amante di Renatino, Sabrina Minardi intervistata da Raffaella Notariale e poi interrogata dalla Procura stessa, secondo cui De Pedis avrebbe eseguito materialmente il sequestro per ordine dell'allora capo dell'Istituto per le Opere di Religione (IOR), monsignor Paul Marcinkus.
Il 14 maggio 2012, su disposizione dell'Autorità giudiziaria, si è proceduto all'apertura della bara di De Pedis e la salma, corrispondente a quella del boss, è stata ritrovata in completo scuro, blu, cravatta, camicia gialla e scarpe, proprio come descritto nei verbali dell’epoca.
Il pentimento di Abbatino
Con le prime spaccature all'interno della banda, che vide gli ex sodali trasformarsi in sempre più acerrimi nemici divisi da questioni di denaro e rivendicazioni di potere, il 20 dicembre del 1986, Maurizio Abbatino è protagonista di una rocambolesca evasione dalla clinica romana Villa Gina (nei pressi dell'EUR) dove, grazie a una perizia medica compiacente, si era fatto ricoverare per un tumore osseo avanzato, diagnosticatogli dai medici del carcere. Gli arresti ospedalieri senza piantonamento (vista la presunta impossibilità del detenuto alla deambulazione, costretto su una sedia a rotelle) durarono molto poco e, con l'aiuto del fratello Roberto, Abbatino riuscì a calarsi da una finestra del primo piano ed a scomparire nel nulla.
« Già dall'epoca del mio ricovero agli arresti domiciliari presso Villa Gina, avevo constatato il totale raffreddamento dei rapporti con gli altri componenti della banda; raffreddamento che si era tradotto nella cessazione dell'assistenza economica sia a me che alla famiglia subito dopo il nuovo provvedimento di cattura. In conseguenza del fatto che non potevo avere contatti con l'esterno mi trovai completamente isolato dal resto della banda e quindi impossibilitato a spiegare le ragioni per le quali era opportuno che io restassi in clinica sino a che non fosse intervenuto un provvedimento di scarcerazione, chiarendo l'equivoco per il quale sarebbe stata una soluzione opportunistica quella di non evadere. Ovviamente, attesa la gravità dei reati dei quali dovevo rispondere e per i quali mi trovavo detenuto, era impensabile che potessi restare a Roma una volta fuggito. Pertanto non ritenni di riprendere contatti con i componenti della banda che in quel momento si trovavano in libertà, ma preferii farmi aiutare da mio fratello Roberto, il quale avrebbe dovuto, per come fece, trovarsi nei pressi della clinica con un'autovettura. Il personale addetto alla sorveglianza non fu da me corrotto. Mi limitai ad approfittare della loro buona fede, in quanto, convinti che io fossi veramente malato e paralizzato come davo a credere, durante la notte si limitavano a controllare che io fossi a letto e non stazionavano nella stanza. Alle quattro di notte, dopo aver messo nel letto un cestino e un cuscino che dessero l'impressione che qualcuno vi dormisse, scavalcai la finestra della mia camera posta al primo piano, e con un lenzuolo mi calai nel cortile, scavalcai la bassa inferriata di recinzione e con una certa difficoltà, considerato il lungo periodo di degenza, durante il quale ero stato sempre attento a non fare movimenti con le gambe, affinché non venisse scoperta la mia simulazione, raggiunsi l'auto nella quale mi aspettava mio fratello. Voglio aggiungere che della paralisi dei miei arti si erano convinti anche i componenti della banda, i quali anche per questo, ritenendomi ormai finito, avevano smesso di darmi assistenza economica »
(Interrogatorio di Maurizio Abbatino del 3 dicembre 1992)
Un mese dopo l'evasione dalla clinica Abbatino decise
Abbatino oggi
che Roma era diventata troppo pericolosa per lui, stretto tra la morsa della polizia e dei suoi ex amici della banda scelse allora di fuggire in Sud America, dove gli uomini della squadra mobile romana e della Criminalpol riuscirono a scovarlo solo sei anni dopo, il 24 gennaio del 1992, in un elegante residence alla periferia di Caracas. Gli investigatori che gli davano la caccia intercettarono infatti una sua telefonata, la sera di capodanno del 1991, che permise loro di individuarlo: «Noi ogni anno a Natale e Capodanno eravamo lì ad ascoltare se arrivava una telefonata di auguri alla famiglia e per sei anni non è mai arrivata.» racconta il vicequestore della Mobile Nicolò D’Angelo «Ma il sesto anno è arrivata e questo ci ha permesso di arrestarlo.»
Le autorità italiane avviarono immediatamente le pratiche per il trasferimento del boss in Italia e, il 4 ottobre dello stesso anno, Abbatino fu espulso dal Venezuela e preso in consegna dagli uomini della Mobile e riportato in patria dove decise subito di intraprendere un percorso di collaborazione con la magistratura, spinto da un grosso sentimento di rivalsa nei confronti dei suoi ex amici, aumentato anche dal fatto che, durante la sua latitanza, si erano resi protagonisti dell'omicidio del fratello Roberto, torturato a morte per cercare di scoprire il rifugio di Crispino. Il suo corpo, completamente massacrato e con il petto squarciato da una coltellata finale, riaffiorò alcuni giorni dopo dal fiume Tevere, all'altezza di Vitinia. «Potevo evadere tranquillamente e non sono stato aiutato.» racconta Abbatino «Poi c’è stata la morte di mio fratello e credo che i responsabili siano stati loro, se non materialmente moralmente perché c’era da parte della banda un sodalizio per cui andavano protetti anche i familiari. Ormai ero rimasto solo e non sapevo più da che parte stare. Non mi fidavo più di nessuno.»
Le sue confessioni, che in gran parte confermarono quelle dei precedenti collaboratori Fulvio Lucioli e Claudio Sicilia (a cui però gli investigatori non concessero allora il credito necessario), si andarono a sommare quelle di Vittorio Carnovale, Antonio Mancini e della sua donna Fabiola Moretti. Nell'interrogatorio reso il 25 aprile 1994, l'Accattone, spiegò cosi le ragioni della sua scelta di collaborazione:
« Immediatamente dopo la mia cattura, avuta contezza delle dichiarazioni di Maurizio Abbatino e del livello elevato delle conoscenze al quale erano giunti gli organismi investigativi, ho trovato la necessaria determinazione per rompere in maniera definitiva con l’ambiente criminale nel quale sono vissuto sin dai primi anni settanta. Verso questo ambiente - a seguito di mie vicissitudini personali legate, da un lato alla mia lunga carcerazione e dall'altro all'aver constatato che, progressivamente, erano state ammazzate, in circostanze che oggi reputo “strane”, persone come Franco Giuseppucci, Danilo Abbruciati, Nicolino Selis, Angelo De Angelis, Edoardo Toscano, Gianni Girlando e lo stesso Renato De Pedis, con le quali avevo intrattenuto fraterni rapporti - avevo maturato un profondò senso di delusione che non esito a definire di schifo »
(Interrogatorio di Antonio Mancini del 25 aprile 1994)
Grazie alle rivelazioni dei pentiti, la mattina del 16 aprile 1993, con la mobilitazione di 500 agenti della Squadra Mobile, scattò una gigantesca operazione di polizia denominata "Operazione Colosseo": un fascicolo di cinquecento pagine pieno zeppo di date, nomi e prove che consentì di ridisegnare la mappa dell'organizzazione malavitosa romana e di stabilire con precisione ruoli e responsabilità dei vari componenti, dal quale scaturirono sessantanove ordini di cattura firmati dal giudice istruttore Otello Lupacchini, di cui una decina vennero consegnati in carcere ad altrettanti detenuti.
I processi
Il primo processo istruito sulla base delle dichiarazioni di Abbatino fu quello per il sequestro e l'omicidio del duca Massimiliano Grazioli . Il 20 gennaio del 1995, davanti alla Seconda Corte d'assise presieduta da Salvatore Giangreco, si diede inizio al procedimento nei confronti dei dieci imputati, sei dei quali appartenenti alla Banda della Magliana (Emilio Castelletti, Renzo Danesi, Giorgio Paradisi, Giovanni Piconi, Marcello Colafigli, oltre al pentito Maurizio Abbatino) e tre a quella di Montespaccato (Franco Catracchi, Antonio Montegrande e Stefano Tobia). Decimo imputato: il basista Enrico Mariotti, all'epoca del processo ancora latitante.
Per tutti, il pubblico ministero Andrea De Gasperis, chiese la condanna all'ergastolo, con la sola eccezione del pentito Abbatino per il quale la pena richiesta fu di otto anni e sei mesi, anche in relazione alla sua collaborazione offerta ai magistrati in fase di istruttoria e battimentale. Il 29 luglio del 1995, dopo appena due ore di camera di consiglio, la corte condannò tutti gli imputati della Magliana, per il solo reato di sequestro di persona, a vent'anni anni di reclusione e a otto anni il pentito Abbatino. Al carcere a vita vennero invece condannati quelli di Montespaccato (ad esclusione di Tobia che venne invece assolto) perché ritenuti responsabili anche di omicidio (del duca) e occultamento di cadavere.
Il 3 ottobre del 1995, nell'aula bunker allestita appositamente nell'ex palestra olimpionica del Foro Italico di Roma, iniziò invece il maxiprocessoche vide alla sbarra l'intera Banda della Magliana. I capi d'imputazione portati davanti alla Corte d'Assise romana presieduta da Francesco Amato, nei confronti dei novantacinque imputati, facevano riferimento a reati quali il traffico di sostanze stupefacenti, le estorsioni, il riciclaggio del denaro sporco, le speculazioni edilizie e commerciali, omicidio, rapina e soprattutto l'associazione a delinquere di stampo mafioso.
Il dibattimento finirà inevitabilmente per toccare anche i legami del gruppo con le altre organizzazioni mafiose (cosa nostra, camorra e 'ndrangheta) e con le organizzazioni legate all'eversione nera, in riferimento al coinvolgimento della banda in molti dei misteri italiani, dal caso Moro, al delitto Pecorelli, alla strage di Bologna.
Il 20 giugno 1996, al termine di una lunghissima istruttoria, il pubblico ministero Andrea De Gasperis richiese per i 69 imputati (mentre altri 19 avevano invece optato per il rito abbreviato) condanne per un totale di quasi cinque secoli di carcere: sei ergastoli, pene variabili tra i due e i 30 anni di reclusione, più 17 assoluzioni.
Il 23 luglio 1996, dopo quasi due giorni di camera di consiglio, la Corte lesse la sentenza che complessivamente confermava in gran parte le richieste del pubblico ministero e dichiarava l'attendibilità dei vari pentiti, a cui vennero quindi applicati i vari sconti di pena.
Raffaele Pernasetti - condannato a 4 ergastoli
Marcello Colafigli - condannato all'ergastolo
Giorgio Paradisi - condannato a 2 ergastoli
Enzo Mastropietro - condannato a 30 anni
Renzo Danesi - condannato a 25 anni
Maurizio Abbatino - condannato a 12 anni
Vittorio Carnovale - condannato a 10 anni
Massimo Carminati - condannato a 10 anni
Giovanni Piconi - condannato a 6 anni
Enrico Nicoletti - condannato a 6 anni
Antonio Mancini - condannato a 1 anno
Fabiola Moretti - condannato a 10 mesi
Tra gli assolti, per non aver commesso il fatto, ci furono Claudio Bracci, Ernesto Diotallevi, Alessandro D'Ortenzi, Paolo Frau, Giovanni Tigani, Emilio Salomone Giovanni Scioscia, Massimo Sabatini e Salvatore Nicitra.
Nel processo di secondo grado, la Prima corte di Assise di Appello, il 27 febbraio del 1998 confermò sostanzialmente le condanne applicando solo alcune lievi riduzioni di pena e tramutando anche alcuni ergastoli in condanne varianti da 21 a 30 anni di reclusione (Paradisi a 22 anni e 6 mesi e Marcello Colafigli a 30 anni).
Negli anni che seguirono, in diverse occasioni esponenti della banda vennero implicati in vario modo anche in altri processi, come quello per l'omicidio del giornalista Mino Pecorelli, del presidente del Banco Ambrosiano Roberto Calvi, per il tentato omicidio del direttore generale del Banco Roberto Rosone o per il coinvolgimento nella strage alla stazione ferroviaria di Bologna.
Colpita al cuore dal lavoro della magistratura nei processi e dalle varie condanne che ne scaturirono, oltre che dagli omicidi legati alla sanguinosa faida interna, la Banda della Magliana si avviò così verso il suo declino completo.
La Banda oggi
« Sono anni che dico che la Banda è viva. I magistrati mi danno retta a intermittenza, ma nessuno ha la forza di smentirmi. Io non ho opinioni. A domanda rispondo e se non so, sto zitto »
(Intervista ad Antonio Mancini)
Anche se il nucleo storico della banda della Magliana, decimato da arresti, omicidi, pentimenti e condanne passate in giudicato ha forse smesso di controllare i centri nevralgici del crimine romano, molti segnali, tra i quali le parole del pentito Mancini ed alcuni fatti di cronaca, sembrano avvalorare la tesi secondo la quale l'organizzazione criminale, o ciò che ne resta, sia ancora attiva e vegeta.
« Roma è ancora in mano alla banda della Magliana. Adesso non spara più ma fa affari importanti. Ha usato e continua a usare i soldi di chi è morto e di chi è finito in galera. E non ha più bisogno di sparare. O almeno, di sparare troppo spesso. La banda ha conquistato la piazza e ha incrementato di nuovo i guadagni. Adesso ci sta la manovalanza e quelli che hanno usufruito delle nostre azioni. La cassa, i soldi, li hanno quelli che sono stati solo sfiorati dalle indagini e ne sono venuti fuori alla grande, potendo tranquillamente continuare a fare i loro affari. Io mi chiedo che fine abbiano fatto tutti i soldi, i palazzi, centro commerciali, night club e le attività in mano ai personaggi legati alla banda? Qualcuno è riuscito a sequestrarli? Assistiamo a dei sequestri a tutte le associazioni criminali, alla Mafia, alla ‘Ndrangheta e la Camorra ma non alla banda della Magliana. Come mai? »
(Intervista ad Antonio Mancini)
I vecchi elementi della banda, supportati da nuova manovalanza criminale, in questi anni hanno forse potuto sperimentare nuove forme di crimine: tutta una serie di seconde file che supportava e girava attorno al nucleo centrale della banda di vent'anni fa e che adesso preferisce fare affari illeciti in silenzio, sparando molto di rado e sfruttando magari la vecchia cassa del gruppo di cui parla Mancini. Gli ultimi fuochi di una storia che sembrava chiusa del tutto con il maxiprocesso e che portò dietro le sbarre boss e affiliati, ogni tanto si scopre ancora attuale e nomi già noti all'opinione pubblica riappaiono sovente tra le righe della cronaca facendo pensare che le traiettorie di quel gruppo criminale non si siano esaurite del tutto.
Il 18 ottobre del 2002 veniva ucciso colpi di arma da fuoco Paolo Frau, 53 anni ed ex luogotenente di "Renatino" De Pedis e poi a capo di un'organizzazione criminale operante sul litorale romano, freddato mentre saliva a bordo sulla sua auto nei pressi della sua abitazione, in via Francesco Grenet ad Ostia Lido. Uno dei dei due killer in moto, con il volto coperto da caschi integrali, dopo aver fatto scattare l'antifurto della sua BMW, attese Frau in strada e lo colpì con tre pallottole a bruciapelo. Assolto in appello nel maxi-processo alla banda, era diventato il luogotenente di Emidio Salomone nella piazza di Ostia, dove assunse il controllo delle nuove attività sul litorale, del racket delle estorsioni e del gioco clandestino. Il suo delitto è, ad oggi, ancora irrisolto.
Il 29 febbraio 2008, nel quartiere romano di Centocelle, viene assassinato con un colpo di pistola alla testa Umberto Morzilli, 51 anni, colpito da due sicari in moto che lo bloccano in piazza delle Camelie mentre, a bordo della sua Mercedes, aveva cercato di aprire la portiera nel tentativo di sottrarsi all'agguato. Un passato da carrozziere e poi, affiliato alla banda, prima come spacciatore e successivamente come grosso trafficante di droga. Nel 2002, cominciò a fare affari con Danilo Coppola e, nel 2003, venne arrestato per estorsione assieme a Antonio "Tony" Nicoletti (figlio di Enrico Nicoletti, cassiere della Banda).
Maurizio Lattarulo, chiamato “Provolino”, nel luglio del 2008 ha ricevuto un incarico da esterno per le Politiche Sociali al comune di Roma da parte di Gianni Alemanno. Lattarulo, coinvolto e prosciolto in una indagine sui Nar, da luglio a dicembre 2008 avrebbe ricevuto dal Comune poco più di 13mila euro e nei due anni successivi quasi 31 mila euro. Attualmente (luglio 2012) è segretario particolare dell’attuale presidente della Commissione politiche sociali, Giordano Tredicine.
Il 4 giugno 2009 viene assassinato Emidio Salomone, 55 anni ed un passato nella banda; viene freddato da due killer in moto che gli sparano due colpi di pistola al volto, davanti a una sala giochi di via Cesare Maccari ad Acilia, nella periferia di Roma. Sfuggito nel novembre del 2004 al bliz contro gli eredi della banda, nel quale finirono in manette 18 persone, Salomone venne poi arrestato in Danimarca nel 2005 ma, rimesso in libertà prima ancora di essere estradato dopo una decisione del Tribunale del Riesame di Roma, era rientrato in Italia dove aveva ripreso a lavorare nel racket delle estorsioni, dell'usura e del traffico di droga ad Ostia. Il 12 settembre del 2011 per omicidio premeditato aggravato dal metodo mafioso e in concorso con altre due persone, finisce in manette Massimo Longo con l'accusa di essere il mandante del delitto Salomone il cui movente sarebbe stato lo spaccio di eroina nella piazza di Acilia.
Il 23 febbraio 2010, nell'ambito di una inchiesta sul riciclaggio di capitali legati alla 'Ndrangheta, il senatore del PDL Nicola Di Girolamo, viene accusato di aver partecipato ad un sodalizio criminale che, assieme a Gennaro Mokbel, personaggio collegato in passato ad ambienti della destra eversiva, avrebbe riciclato oltre 2 miliardi di euro e favorito l'elezione del senatore nel collegio estero di Stoccarda, ad opera dalla famiglia Arena, 'ndrina di Isola Capo Rizzuto. Gennaro Mokbel è, tra l'altro, un uomo legato ad Antonio D’Inzillo che, considerato uno dei killer del boss della Magliana Enrico De Pedis, fu arrestato dalla polizia il 22 maggio del 1992 proprio nell'abitazione dello stesso Mokbel, che per questo motivo venne anche denunciato. Nel 1993, D'Inzillo riuscì comunque a fuggire all'estero, schivando il mandato di cattura a suo carico (proprio per per l'omicidio di Renatino) all'interno della famosa Operazione Colosseo che, grazie alle dichiarazioni del pentito Maurizio Abbatino, diede il via al maxiprocesso che decapitò l'intera banda della Magliana. Una latitanza la sua che, l'ordinanza del gip Aldo Morgioni, sostiene sia stata finanziata proprio da Mokbel e che ha termine il 26 giugno 2008 quando viene resa pubblica la notizia della sua morte in un ospedale di Nairobi, in Kenia. Il suo corpo, frettolosamente cremato, non venne mai messo a disposizione della magistratura italiana.
Il 21 settembre del 2010, nell'ambito di una grossa operazione antiriciclaggio disposta dalla Direzione Distrettuale Antimafia di Roma e condotta dalla polizia di Stato che mette fine ad una organizzazione criminale dedita all'usura, al riciclaggio di denaro, al millantato credito, alle estorsioni e alle truffe, porta all'arresto di 11 persone e a numerosissime perquisizioni. Le persone coinvolte sono esponenti della criminalità organizzata romana e napoletana, tra i quali spicca il nome di Enrico Nicoletti, il cosiddetto cassiere della Banda della Magliana. L'indagine era partita dall'omicidio di Umberto Morzilli del febbraio 2008, personaggio legato all'immobiliarista Danilo Coppola.
Il 2 ottobre del 2010 le Squadre Mobili di Roma e Caserta sventano una rapina al caveau di un istituto di credito sito in pieno centro della cittadina campana e arrestano 7 persone tra cui il pluripregiudicato Manlio Vitale, 61 anni e detto Er Gnappa, ex esponente della banda ed amico fraterno di Enrico De Pedis. I sette, sorpresi al lavoro mentre effettuavano il carotaggio di una parete in cemento armato, furono bloccati quando oramai erano a pochi centimetri dal caveau. Arrestato già nel ’78, ’80 e nel 1985, Vitale fu anche coinvolto nell’omicidio di un altro componente della Magliana, Amleto Fabiani e, infine, nel 2000, venne accusato di essere uno dei mandanti del furto di 147 cassette di sicurezza sottratte al caveau della Banca di Roma di piazzale Clodio.
Il 5 luglio 2011, il trentatreenne Flavio Simmi viene ucciso con 9 proiettili esplosi a distanza ravvicinata in un agguato in pieno giorno in via Grazioli Lante, nel quartiere Prati, nel centro di Roma. L'uomo che, era già stato gambizzato solo pochi mesi prima, nel febbraio dello stesso anno, è figlio di Roberto Simmi e nipote di Tiberio, accusati in passato di usura e ricettazione e arrestati (ma poi prosciolti da ogni accusa), nel 1993, nell'ambito dell'Operazione Colosseo perché ritenuti legati al nucleo storico della banda della Magliana. Un’informativa della polizia li descrive in questo modo: «Roberto Simmi è il fratello del più noto Tiberio, più volte visto in compagnia di Enrico De Pedis. Tiberio, con il figlio Alessio, gestisce un negozio di oreficeria assiduamente frequentato da Maurizio Lattarulo, detto Provolino. Presso il negozio di piazza del Monte, invece, è stata rilevata anche la presenza di Antonio Mancini e di Raffaele Pernasetti. Inoltre dall’intercettazione telefonica ancora in corso si è potuto stabilire che il negozio è stato, per un periodo di tempo, frequentato dal famoso faccendiere Ernesto Diotallevi inquisito unitamente ai noti Francesco Pazienza, Flavio Carboni e altri pregiudicati della vecchia Banda della Magliana per le vicende del crack del banco Ambrosiano e per l’attentato al vice direttore Roberto Rosone, durante il quale viene ucciso uno degli attentatori, Danilo Abbruciati. Nelle attività dei fratelli Simmi investiva Franco Giuseppucci il quale ricettava titoli di credito e polizze e, per conto terzi, riciclava denaro sporco presso gli ippodromi e le sale corse.»
Il 6 luglio 2011, viene nuovamente arrestato Enrico Nicoletti con l'accusa di "associazione a delinquere finalizzata alla commissione di millantato credito, truffa, usura, falso, riciclaggio e ricettazione" nell'ambito di una operazione anti-usura e anti-riciclaggio nei confronti di un gruppo criminale dedito alle truffe nel settore immobiliare legato alle aste giudiziarie e di cui Nicoletti sarebbe stato a capo. Dopo poco lacerà il carcere per scontare la pena in regime di arresti domiciliari. Il 27 febbraio 2012 è tornato di nuovo tra le sbarre del carcere romano di Rebibbia per scontare un residuo pena di sei anni e mezzo con sentenza definitiva della Cassazione per associazione a delinquere finalizzata all'usura.
Il 12 luglio 2011, la squadra mobile romana, arresta Giuseppe De Tomasi e altre 11 persone accusate di aver messo in piedi una vera e propria organizzazione criminale dedita alla gestione di sale da gioco, all'estorsione, ricettazione, riciclaggio e usura nei confronti di imprenditori e personaggi del mondo dello spettacolo. Tra gli altri arrestati ci sono molti componenti della sua famiglia: i figli Arianna e Carlo Alberto, la moglie Anna Maria Rossi, il genero Roberto Roberti e la consuocera Celestina Adriana Carletti. Sequestrati anche ventuno conti correnti, dieci immobili, nove società alcune autovetture, per oltre cinque milioni di euro.
Il 28 aprile 2012 la banda torna di nuovo sulle prime pagine dei quotidiani italiani. Durante un tentativo di rapina nei confronti di due fratelli commercianti di gioielli, nel nuovo quartiere di Mezzocammino (Spinaceto) sito alla periferia sud-ovest della capitale, uno dei malviventi viene ucciso, colpito al petto dopo un violento conflitto a fuoco. Si tratta di Angelo Angelotti, 61 anni e componente storico della Magliana che, nel 1995, era già finito sotto processo per l'omicidio di De Pedis perché ritenuto tra coloro che lo attirarono nella trappola in via del Pellegrino vicino a Campo di Fiori, dove poi fu ucciso.
I vivi e i morti
Maurizio Abbatino - Arrestato il 24 gennaio 1992 a Caracas, pochi giorni dopo la sua estradizione in Italia, decise di intraprendere un percorso di collaborazione con la giustizia. Attualmente sta scontando la detenzione in regime di arresti domiciliari, in una località protetta.
Danilo Abbruciati -Ucciso il 27 aprile 1982, a Milano, da una guardia giurata mentre, a bordo di una moto guidata da un complice, tentava la fuga dopo un fallito attentato ai danni del vice presidente del Banco Ambrosiano, Roberto Rosone.
Marcello Colafigli - Condannato all’ergastolo per tre omicidi, è attualmente detenuto nel carcere romano di Rebibbia.
Renzo Danesi - Attualmente sta scontando la detenzione in regime di semilibertà. Da qualche anno fa parte della compagnia teatrale Stabile Assai, composta da detenuti-attori del carcere romano di Rebibbia con cui si è esibito nei maggiori teatri italiani. Fine pena 2015.
Enrico De Pedis - Ucciso il 2 febbraio 1990 in Via del Pellegrino a Roma.
Ernesto Diotallevi - L'ultima assoluzione risale al giugno 2007 dall'accusa di concorso in omicidio del banchiere Roberto Calvi; arrestato nel 2014 insieme a Carminati.
Franco Giuseppucci Ucciso il 13 settembre 1980 in Piazza San Cosimato a Roma.
Antonio Mancini - Attualmente sta scontando la detenzione in regime di arresti domiciliari. Da qualche anno presta servizio volontario di assistenza a ragazzi disabili. Fine pena 2012.
Enrico Nicoletti- Arrestato nuovamente il 27 febbraio 2012, attualmente è detenuto nel carcere di Rebibbia per scontare una condanna a sei anni e sei mesi di reclusione per associazione a delinquere finalizzata ad usura, estorsione e rapina.
Nicolino Selis - Ucciso il 3 febbraio 1981, il suo corpo non fu mai ritrovato.
Claudio Sicilia - Ucciso il 18 novembre 1991 in via Andrea Mantegna a Roma.
Edoardo Toscano - Ucciso il 16 marzo 1989 a Ostia.
La banda della Magliana negli affari del faccendiere dei padri Camilliani
Corriere dell sera 20/11/2013
In un’inchiesta inedita su un giro di riciclaggio della ‘ndrangheta a Roma spuntano i nomi di parlamentari, massoni, manager del calcio e della sanità, esponenti delle forze dell’ordine e funzionari corrotti, religiosi e bancari
C’è un’indagine della procura di Roma, finora rimasta segreta, sui rapporti di affari odierni tra Ernesto Diotallevi, il boss della banda della Magliana, e il faccendiere Paolo Oliverio, braccio destro dell’ex numero uno dell’Ordine religioso dei Padri Camilliani.