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venerdì 24 aprile 2015

FRANCESCO DI CARLO

roberto calvi

Francesco Di Carlo (Altofonte, 18 febbraio 1941) ex Cosa Nostra diventato collaboratore di giustizia nel 1996; è entrato in relazione con la famiglia mafiosa di Altofonte negli anni 60.
Divenne capo famiglia a metà degli anni 1970. Altofonte era parte del mandamento di San Giuseppe Jato, guidato da Antonio Salamone e Bernardo Brusca. Secondo il pentito Giuseppe Marchese, Di Carlo era un mafioso influente e un trafficante di droga connesso con i Corleonesi.
Il 24 aprile 2014 è apparso, a volto coperto, per la prima volta in televisione, intervistato a Servizio Pubblico Più da Sandro Ruotolo sui rapporti con Silvio Berlusconi e Marcello Dell'Utri.
Di Carlo è stato espulso da Cosa Nostra per un conflitto riguardo ad un carico di eroina perduto o una consegna di hashish non pagata. Grazie ai suoi utili servizi alla mafia non è stato ucciso, ma ha dovuto lasciare l'Italia. Si è trasferito a Londra. Suo fratello Andrea Di Carlo lo sostituì a capo della famiglia mafiosa e divenne un membro della Commissione.
Secondo Di Carlo è stato espulso nel 1982 perché si era rifiutato di tradire alcuni membri del clan Cuntrera-Caruana (Pasquale Cuntrera e Alfonso Caruana) durante la guerra di mafia nella provincia di Agrigento.

Traffico di droga

Nel Regno Unito Di Carlo ha trafficato hashish ed eroina. Ha comprato una villa a Woking, Surrey, e si è alleato ad Alfonso Caruana. Ha comprato un hotel, agenzie di viaggio e compagnie import-export per agevolare il contrabbando.
Nel giugno del 1985 la polizia trovò 58 chili di eroina in una consegna. Venne arrestato insieme ad altre tre persone. Nel marzo del 1987 è stato condannato a 25 anni di prigione per traffico di eroina. Il fratello di Alfonso Caruana, Gerlando Caruana venne condannato in Canada.

Il pentimento
Nel giugno del 1996 Di Carlo decise di collaborare con le autorità italiane. Venne trasferito dalla sua prigione del Regno Unito a Roma. Venne considerato come il "nuovo Tommaso Buscetta". Di Carlo fece i nomi di molti politici come membri di Cosa Nostra, tra gli altri: Bernardo Mattarella, il precedente presidente della Sicilia Giovanni Provenzano e Giovanni Musotto, padre di Francesco Musotto, il precedente presidente della provincia di Palermo che era stato accusato di associazione mafiosa.
Testimoniò anche a proposito dell'omicidio del giornalista Mauro De Mauro, che era stato rapito e ucciso dalla mafia nel 1970. Nel 2001 disse che era stato ucciso perché aveva appreso che uno dei suoi vecchi amici, il principe Junio Valerio Borghese, stava pianificando un colpo di Stato (il cosiddetto Golpe Borghese ) per fermare quella che era considerata la svolta a sinistra dell'Italia.


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Coinvolgimento nell'omicidio di Roberto Calvi
Nel luglio del 1991 il pentito Francesco Marino Mannoia affermò che Di Carlo aveva ucciso Roberto Calvi, soprannominato "il banchiere di Dio" per il suo incarico al Banco Ambrosiano. Calvi sarebbe stato ucciso perché avrebbe perso i fondi della mafia quando il Banco Ambrosiano era collassato. L'ordine di uccidere Calvi sarebbe provenuto dal boss mafioso Giuseppe Calò.
Quando Di Carlo divenne un testimone nel giugno del 1996 negò di essere l'assassino, ma ammise che Calò gli aveva chiesto di uccidere Calvi. Comunque, Di Carlo non poteva essere raggiunto in tempo, e quando successivamente chiamò Calò, quest'ultimo gli disse che si erano già organizzati diversamente. Secondo Di Carlo, gli assassini erano Vincenzo Casillo e Sergio Vaccari, che apparteneva alla Camorra di Napoli ed era stato ucciso.




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lunedì 27 gennaio 2014

VITO CIANCIMINO "Don Vito"


don  vito

Vito Alfio Ciancimino nacque a Corleone il 2 aprile 1924 figlio di un barbiere, si diplomò geometra nel 1943. Nel 1950 si trasferì a Palermo per frequentare la facoltà di ingegneria ma non conseguì mai la laurea. Per un breve periodo soggiornò a Roma, dove lavorò presso la segreteria del deputato Bernardo Mattarella (allora sottosegretario al Ministero dei Trasporti). A Palermo divenne socio di un'impresa edile ed ottenne un appalto per il "trasporto di vagoni ferroviari a domicilio attraverso carrelli" grazie alla raccomandazione del deputato Mattarella. Nel 1953 Ciancimino venne eletto nel comitato provinciale della Democrazia Cristiana e l'anno successivo divenne commissario comunale. Nel 1956 Ciancimino venne eletto consigliere comunale a Palermo e divenne un sostenitore di Giovanni Gioia, aderendo alla corrente politica di Amintore Fanfani. Per queste ragioni divenne assessore dell'Azienda municipalizzata e nel luglio 1959 divenne assessore ai lavori pubblici nella giunta del sindaco Salvo Lima. Durante il periodo in cui Ciancimino fu assessore, delle 4.000 licenze edilizie rilasciate, 1600 figurarono intestate a tre prestanome, che non avevano nulla a che fare con l'edilizia; l'assessorato di Ciancimino apportò numerose modifiche al piano regolatore di Palermo che permisero alla ditta di Nicolò Di Trapani (pregiudicato per associazione a delinquere) di vendere aree edificabili ad imprese edili mentre il costruttore Girolamo Moncada (legato al boss mafioso Michele Cavataio) ottenne in soli otto giorni licenze edilizie per numerosi edifici. In questi anni Ciancimino entrò in rapporti con tre società edilizie e finanziarie: la SIR, la SICILCASA SpA e la ISEP, di cui faceva parte la moglie di Ciancimino, Epifania Silvia Scardino, insieme ai mafiosi Antonino Sorci (capo della cosca di Villagrazia) e Angelo Di Carlo (cugino del boss Michele Navarra e socio di Luciano Leggio).
Nel 1963 Ciancimino venne denunciato dall'avvocato Lorenzo Pecoraro, amministratore di un'impresa edile a cui fu negata una licenza edilizia mentre alla società "SICILCASA SpA" era stato concesso il permesso di costruire in un terreno contiguo malgrado il progetto violasse in più punti le clausole del piano regolatore; fu fatto sapere a Pecoraro che poteva avere la licenza soltanto se versava una tangente nelle casse della "SICILCASA SpA", di cui Ciancimino era socio occulto e da cui acquistò anche due appartamenti. Qualche tempo dopo l'avvocato Pecoraro ritirò tutte le accuse e dichiarò che Ciancimino era sempre stato un uomo «esemplare per correttezza ed onestà». Ma nonostante ciò, nel giugno 1965 il caso Pecoraro fu riaperto e Ciancimino finì sotto processo, venendo però assolto nel 1966.
Nel 1964 Ciancimino concluse il mandato di assessore ai lavori pubblici e rimase consigliere comunale. Nel 1966 fu nominato capogruppo della Democrazia cristiana nel consiglio comunale di Palermo e tenne questo incarico fino al 1970, venendo anche nominato responsabile degli enti locali della sezione provinciale della Democrazia Cristiana nel 1969.
Nell'ottobre 1970 Ciancimino fu eletto sindaco di Palermo ma nel dicembre successivo fu costretto a dimettersi a causa delle proteste dell’opposizione e delle inchieste della Commissione Parlamentare Antimafia che lo riguardavano; tuttavia Ciancimino rimase in carica fino all'aprile 1971, quando venne eletto il nuovo sindaco Giacomo Marchello. Infatti nel 1976 la relazione di minoranza della Commissione Parlamentare Antimafia, redatta anche dai deputati Pio La Torre e Cesare Terranova, ed altri atti prodotti dalla stessa Commissione accusarono duramente Ciancimino ed altri uomini politici di avere rapporti con la mafia.
Nel 1976 Ciancimino abbandonò la corrente fanfaniana e formò un gruppo autonomo all'interno del consiglio comunale, avvicinandosi a Salvo Lima, che rappresentava la corrente andreottiana: Ciancimino, accompagnato dai deputati Salvo Lima, Mario D'Acquisto e Giovanni Matta, incontrò il senatore Giulio Andreotti a Palazzo Chigi, dove venne stipulato il patto di collaborazione con la corrente, che sfociò nell'appoggio dato dai delegati vicini a Ciancimino alla corrente andreottiana in occasione dei congressi nazionali della Democrazia Cristiana svoltisi nel 1980 e nel 1983.

vito e massimo ciancimino

In questi anni Cosa Nostra compì alcuni "omicidi politici" ed avvertimenti per proteggere gli interessi di Ciancimino: il 9 marzo 1979 fu ucciso Michele Reina, segretario provinciale della Democrazia Cristiana che era entrato in contrasto con costruttori legati a Ciancimino; il 6 gennaio 1980 venne eliminato Piersanti Mattarella, presidente della Regione che contrastava Ciancimino per un suo rientro nel partito con incarichi direttivi; il 30 aprile 1982 venne trucidato Pio La Torre, segretario regionale del PCI che aveva più volte indicato pubblicamente Ciancimino come personaggio legato a Cosa Nostra; nel dicembre 1980 una carica di esplosivo distrusse una parte della villa del sindaco Nello Martellucci, che si era mostrato poco disponibile con Ciancimino nel concedergli un appalto per il risanamento dei quartieri vecchi di Palermo.
In occasione del congresso regionale di Agrigento della Democrazia Cristiana nel 1983, il segretario nazionale Ciriaco De Mita espresse chiaramente la necessità di allontanare Ciancimino dal partito e per questo non gli venne rinnovata la tessera.



Le inchieste penali
Nel 1984 il collaboratore di giustizia Tommaso Buscetta dichiarò al giudice Giovanni Falcone che «Ciancimino è nelle mani dei Corleonesi» e per questo venne arrestato per associazione mafiosa nello stesso anno.
Nel 1992 venne condannato definitivamente in Cassazione a 8 anni di reclusione per associazione mafiosa e corruzione. Fu condannato inoltre a 3 anni e due mesi di carcere (pena condonata) per peculato, interesse in atti d' ufficio, falsità in bilancio, frode e truffa pluriaggravata nel processo per i grandi appalti di Palermo e a 3 anni e 8 mesi per aver pilotato due appalti comunali quando non aveva più cariche pubbliche. Pochi giorni prima che morisse, il comune di Palermo gli presentò un'ingente richiesta di risarcimento, pari a 150 milioni di euro, per danni arrecati all'amministrazione comunale: ne furono recuperati solo sette.
I magistrati che indagarono su di lui lo definirono «la più esplicita infiltrazione della mafia nell'amministrazione pubblica». Nel 1993 il collaboratore di giustizia Pino Marchese dichiarò addirittura che Ciancimino era regolarmente affiliato nella Famiglia di Corleone. Un altro collaboratore di giustizia, Gioacchino Pennino (ex consigliere comunale e mafioso), dichiarò che nel 1981 voleva abbandonare il gruppo di Ciancimino nel consiglio comunale ma venne convocato dal boss Bernardo Provenzano, il quale gli intimò minacciosamente «di restare al suo posto».
Secondo quanto ricostruito dal giornalista Gianluigi Nuzzi, nel 2009, che si è avvalso dell'archivio di monsignor Renato Dardozzi dall'Istituto per le Opere di Religione sarebbero stati manovrati dei soldi diretti a Ciancimino per conto della mafia. A tal proposito il figlio di Vito Ciancimino, Massimo, affermò:
« Le transazioni a favore di mio padre passavano tutte tramite i conti e le cassette dello IOR »
I conti correnti e le due cassette di sicurezza, allo IOR erano coperti da immunità diplomatica e in caso di perquisizione impossibile esercitare una rogatoria con lo Stato del Vaticano. I conti furono gestiti in un primo momento dal conte Romolo Vaselli, un imprenditore che negli anni 1970 controllava la raccolta dell'immondizia di Palermo. In un momento successivo, furono gestiti da prestanome, prelati compiacenti, nobili e cavalieri del Santo Sepolcro. I conti correnti servivano per pagare le famose «messe a posto» per la gestione degli appalti per la manutenzione delle strade e delle fogne di Palermo affidata al conte Arturo Cassina, cavaliere del Santo Sepolcro. La gestione della manutenzione delle strade e delle fogne di Palermo erano gonfiate per circa l'80 per cento del loro reale valore di mercato. Questo surplus era destinato sia alla corrente andreottiana, che in Sicilia faceva capo a Ciancimino stesso, sia un 20 per cento, alle tangenti dovute a Bernardo Provenzano e Totò Riina.
I capitali venivano trasferiti a Ginevra attraverso il deputato Giovanni Matta e Roberto Parisi, al quale faceva riferimento la manutenzione dell'illuminazione di tutta la città. Ciancimino finanziava anche molti prelati, a iniziare dal cardinale Arcivescovo di Palermo Ernesto Ruffini, con soldi elargiti sotto forma di donazioni.
Attraverso questo sistema di compensazioni sulle cassette venivano gestite anche i soldi delle tessere del partito. In queste cassette passò anche una parte della famosa tangente Enimont: Vito Ciancimino incassò dal deputato Salvo Lima o dal tesoriere, come distribuzione di fondi ai partiti, circa 200 milioni delle vecchie lire.

Dopo la condanna
Negli ultimi anni della sua vita, cercò di accreditare un suo ruolo di esperto di "cose di Cosa Nostra": tale ruolo produsse il sospetto che potesse essere "utilizzato" dalle cosche per avvalorare versioni di comodo. Così la Commissione antimafia, che rifiutò di riceverlo in audizione nell'autunno del 1992 malgrado lui si fosse di fatto "proposto" con l'intervista a Giampaolo Pansa a L'espresso in cui cercava di allontanare i sospetti della stagione stragista dalla mafia.

vito ciancimino in tribunale

Nel 1992, nel periodo tra le stragi di Capaci e via d'Amelio, Ciancimino venne contattato dall'allora colonnello Mario Mori e dal capitano Giuseppe De Donno del ROS, il quale dichiarò negli anni successivi: «Decidemmo di contattare in qualche modo la mafia attraverso Vito Ciancimino per fermare le stragi del 1992-93». Il boss Salvatore Riina scrisse allora il suo "papello", in cui venivano elencate le richieste di Cosa Nostra per far cessare la strategia degli attentati in cambio di benefici di legge, nuove norme sul pentitismo e la revisione del Maxiprocesso, e lo fece arrivare a Mori e De Donno tramite Ciancimino. Tuttavia nel dicembre 1992 Ciancimino venne nuovamente arrestato.
Vito Ciancimino morì a Roma il 19 novembre 2002.

vito e massimo ciancimino uscita dal carcere


Presunti rapporti con Silvio Berlusconi
Il 12 novembre 2010 sua moglie Epifania Silvia Scardino rivela al pm di Palermo Antonio Ingroia che suo marito si sarebbe incontrato tre volte a Milano con Silvio Berlusconi tra il 1972 e il 1975. I due avrebbero parlato dello svolgimento del progetto di realizzazione di Milano 2.

vito e massimo ciancimino

Il direttore generale della Banca Popolare di Palermo Giovanni Scilabra, ormai in pensione, ha raccontato ai pm di Palermo di aver avuto un incontro nel 1986 con Ciancimino e Marcello Dell'Utri per un prestito di 20 miliardi da destinare alla Fininvest (di proprietà di Berlusconi). Inoltre i pm stanno facendo degli accertamenti che servirebbero a riscontrare le rivelazioni di Massimo Ciancimino e la documentazione da lui consegnata ai magistrati circa presunti investimenti del padre nel complesso edilizio Milano 2, realizzato da Silvio Berlusconi. Ciancimino avrebbe riferito al figlio Massimo che nella realizzazione di Milano 2 sarebbero stati investiti soldi anche dagli imprenditori mafiosi Salvatore Buscemi e Francesco Bonura. A fare da tramite tra Berlusconi, i costruttori palermitani e l'ex sindaco potrebbe essere stato Marcello Dell'Utri, poi senatore del Pdl, indagato nel 1994, per concorso esterno in associazione mafiosa.



massimo ciancimino



DOCUMENTI


lunedì 9 dicembre 2013

VITO GUARRASI "Don Vito"





Vito Guarrasi nasce ad Alcamo il 22 aprile 1914; figlio di una agiata famiglia di possidenti introdotta negli ambienti nobiliari dell'isola, è stato un controverso avvocato e manager . Era un lontano cugino di Enrico Cuccia (una zia di Guarrasi era sposata con uno zio di Cuccia).
Nel 1943, con il grado di sottotenente di complemento del servizio automobilistico fu presente alla firma dell'Armistizio di Cassibile assieme al generale Giuseppe Castellano, in qualità di suo aiutante di campo. In un rapporto del 27 novembre 1944 indirizzato al Segretario di Stato USA, il console generale americano a Palermo Alfred Nester affermò che Vito Guarrasi, assieme ad altre personalità dell'isola, fu presente ad una riunione con alti ufficiali americani in cui si discusse se la Sicilia dovesse separarsi dall'Italia e dichiarare l'indipendenza. Il rapporto del console è significativamente intitolato: Formation of group favoring autonomy of Sicily under direction of Mafia. (formazione di un gruppo che favorisca l'autonomia della Sicilia sotto la direzione della Mafia).

firma dell'armistizio di cassibile vito guarrasi
Firma dell'armistizio a Cassibile, all'estrema destra l' avv. Guarrasi 
Dal 2 ottobre 1947 Guarrasi è socio fondatore della società cooperativa La voce della Sicilia, di ispirazione socialista. Dal 7 luglio 1948 al 19 ottobre 1964 è consigliere di amministrazione della società mineraria Val Salso, dedita all'estrazione e alla commercializzazione dello zolfo e dei suoi derivati.
Nel 1948 Guarrasi si candidò nelle liste del Fronte Popolare. Negli anni Cinquanta entrò nel consiglio di amministrazione del giornale comunista L'Ora di Palermo. Avvocato civilista, risulta iscritto all'albo presso il foro di Palermo il 2 maggio 1949.
Dal 20 marzo 1949 al 30 marzo 1952 fu presidente della Cassa Agricola e Professionale Don Rizzo di Alcamo, una piccola banca orientata verso il credito agricolo e privato. Guarrasi, nel corso della gestione della cassa dovette fronteggiare un iniziale flessione dei depositi e un aumento della richiesta di prestiti dovuta al periodo di crisi in cui versava l'economia Italiana nel 1950 e anche una serie sempre più accesa di rivendicazioni sindacali da parte dei dipendenti della cassa. Nel 1953 si candidò al Senato per il PLI nel collegio Alcamo-Castelvetrano, ma non fu eletto.
graziano verzotto vito guarrasi
Graziano Verzotto
Guarrasi ideò e promosse un'iniziativa, poi divenuta la legge regionale n 4 del 13 marzo 1959 che istituì presso il Banco di Sicilia un fondo di rotazione delle miniere di zolfo che trasferì alla regione 12 miliardi di debiti contratti da diversi proprietari delle miniere con il Banco di Sicilia stesso. Fu uno dei promotori insieme a Graziano Verzotto e Domenico La Cavera della nascita della So.Fi.S (Società per il Finanziamento dello Sviluppo in Sicilia), società finanziaria della Regione Siciliana, che fu il primo esempio di società pubblica regionale. Nei primi mesi del 1960 Guarrasi divenne anche consigliere di Enrico Mattei, in particolare in merito alla costruzione di un metanodotto sottomarino che collegasse l'Africa alla Sicilia. La collaborazione fu di breve durata e l'incarico di Guarrasi era terminato già all'epoca della morte di Mattei (27 ottobre 1962). Negli anni Vito Guarrasi è stato azionista, presidente o consigliere di amministrazione di più di 25 differenti società (spesso pubbliche) i cui ambiti spaziano dallo sport (presidente del Palermo Calcio dal 1952 al 1960) all'immobiliaristica, al settore minerario e dell'estrazione di idrocarburi, al turismo e alla commercializzazione di medicinali.


Procedimenti giudiziari
Il pentito Gioacchino Pennino ha affermato nel 2007 che Guarrasi svolse un ruolo nella morte del giornalista dell'Ora Mauro De Mauro, scomparso il 16 settembre 1970 e il cui corpo non è mai più stato ritrovato. All'epoca il giornalista stava raccogliendo informazioni sulla morte di Mattei e sul fallito golpe del principe Junio Valerio Borghese. Pennino ritiene che Guarrasi abbia riferito indirettamente le informazioni in possesso di De Mauro ad alcuni capimafia, che avrebbero così deciso di eliminarlo.
Si dice che il giornalista palermitano, poco prima di scomparire avrebbe incontrato tutta una serie di personalità e, tra queste, anche Guarrasi. L' avvocato replica: I fatti parlano da soli. Io nell' inchiesta De Mauro non ho ricevuto neanche una comunicazione giudiziaria. 
Il 10 luglio 1971 Guarrasi è stato condannato a quattro anni di reclusione per bancarotta fraudolenta dalla 1ª Sezione Penale del Tribunale di Roma; verrà in seguito prosciolto.
vito guarrasi morteNel rapporto del 1976 del senatore Luigi Carraro, relatore della commissione parlamentare antimafia si legge che: L'attività pubblica di Guarrasi è stata caratterizzata da rapidi successi e dalla ricerca costante di posizioni di potere... Non c'è stato settore di qualche importanza della vita economica siciliana che non ha visto impegnato in prima persona l'avvocato Guarrasi... Non sempre però queste iniziative andarono a buon fine.
Nel 1986 Guarrasi è risultato anche iscritto alla loggia della "Massoneria universale di rito scozzese antico e accettato. Supremo Consiglio d'Italia" di via Roma a Palermo, insieme all'esattore di Salemi Nino Salvo e al boss mafioso Salvatore Greco.
Guarrasi è stato interrogato nel 1998 come testimone al processo per mafia a carico di Giulio Andreotti.
Morì un'anno dopo a Mondello.


l'avvocato dei misteri vito guarrasi


LA VITA DI DON VITO GUARRASI
 (IL VERO BOSS DEI BOSS)
DIMENTICATE I RIINA E I PROVENZANO, BIECA MANOVALANZA DEL CRIMINE, LA MAFIA SI INCARNA IN DON VITO - PIÙ POTENTE DI CUCCIA, PIÙ INFLUENTE DI AGNELLI, PIÙ RICCO DI BERLUSCONI, PIÙ ASTUTO DI ANDREOTTI, PIÙ SEGRETO DI FATIMA 
Piero Melati per "il Venerdì di Repubblica"
Di sicuro c'è solo che è morto. L'ultimo giorno di luglio del 1999. Liquidato in tre righe sul Corriere della Sera. Di sicuro c'è solo che il suo nome non si poteva nemmeno pronunciare. Era inteso Mister X. Si diceva nei bar: «Se il Palermo vince, in schedina scrivi uno. Se perde scrivi due. Se pareggia scrivi Guarrasi». Vito Guarrasi. Di lui si sussurrava che era più potente di Cuccia, più influente di Agnelli, più ricco di Berlusconi, più astuto di Andreotti, più segreto di Fatima.
Tra le sue mani di «consulente dei potenti» sono passati i misteri d'Italia: i retroscena dello sbarco degli americani in Sicilia, la morte di Mattei, la scomparsa di De Mauro, il golpe Borghese, l'ascesa di Cefis, l'affare Sindona, la morte di Calvi, gli omicidi politici, i rapporti tra Andreotti e la mafia.
In mezzo, nel crocevia del diavolo, sempre lui. Sempre Guarrasi. Eppure mai un processo, un concorso esterno, un favoreggiamento, un 41 bis. Mai nessuna visibilità, nessuna «esposizione». Sempre nell'ombra. Ha mandato all'opposizione in Sicilia la Dc di don Sturzo e Fanfani, boss di Cosa Nostra del calibro di Calogero Vizzini e Genco Russo diventavano umili al cospetto, i capi della Cia in visita a Palermo andavano a trovarlo nello studio in via Segesta o nella villa di Mondello. Era amico di Nino e Ignazio Salvo, i potenti esattori legati alla mafia, ma per cinque mesi fu anche consigliere di amministrazione dell'Ora, il quotidiano antimafia di Palermo.
Un enigma. Che ora viene risistemato da una biografia (L'avvocato dei misteri, Castelvecchi, pp. 190, euro 16,50) di Marianna Bartoccelli e Francesco D'Ayala, che contiene ampi stralci dal diario privato di Guarrasi. Un libro critico verso l'Antimafia. Ma non per questo meno ricco di dettagli. Anche privati. Guarrasi sposa la bellissima Simonetta Biuso Greco, appena diciottenne, e sarà lei a fornirgli le chiavi di accesso allo studio del padre, l'avvocato più importante del Banco di Sicilia.
Sua moglie fu poi per sedici anni l'amante del suo migliore amico, Domenico La Cavera, detto Mimì, presidente degli industriali siciliani, conosciuto tra i banchi del Gonzaga, un'avventura politica condivisa (anche con il Pci di Emanuele Macaluso), quella del milazzismo. Poi Mimì sposò a sua volta la diva del cinema degli anni Sessanta Eleonora Rossi Drago, che aveva appena troncato una storia d'amore con Alfonso di Borbone, fratello del re di Spagna.


AVVOCATO DEI MISTERI
DI BARTOCCELLI E DAYALA
Una soap opera alla Dynasty. Dal padre Raffaele (sposato con Luigia Dagnino) Guarrasi eredita l'azienda vinicola Rapitalà. È amico per la pelle di Galvano Lanza Branciforti di Trabia, per conto del quale amministra il feudo di Villa Trabia. Dirà La Cavera: «Le Terre rosse di Villa Trabia erano un mito».
Il futuro Mister X, da semplice ufficiale di complemento del servizio automobilistico dell'esercito, non ancora trentenne, viene spedito dal generale Giuseppe Castellano, insieme all'amico Lanza di Trabia, in missione segreta ad Algeri. Incontreranno il generale Dwight «Ike» Eisenhower, futuro presidente degli Stati Uniti, comandante dell'esercito alleato. Lo scopo, trattare la resa dell'Italia, che verrà firmata il 3 settembre a Cassibile e resa nota il fatidico 8 settembre.
Guarrasi smentirà la sua presenza alla firma dell'armistizio. Lui aveva trattato con Ike, ma quel giorno era nella villetta del barone Vincenzo Valenti, in via Dante, a Palermo, a rassicurare i nobili siciliani che lo sbarco alleato in Sicilia non avrebbe comportato derive comuniste. «Quella stessa casa che per eredità è poi pervenuta al sindaco Leoluca Orlando...».
C'erano mafiosi alla riunione? Guarrasi nega: «Figurarsi se mi sarei riunito con la manovalanza. Noblesse oblige». Fatto sta che quella fu la madre di tutte le trattative: appoggio logistico delle «famiglie» allo sbarco, in cambio di impunità e posti di comando. Rapporti spericolati. Ma Guarrasi era solito camminare con le mani basse dietro la schiena, come Enrico Cuccia, il patron di Mediobanca di cui era parente. «Per evitare che qualcuno me lo metta in quel posto».
Con quello stesso spirito affronta l'avventura di Silvio Milazzo: dal ‘58 al ‘60 l'ex deputato dc di Caltagirone mette insieme comunisti e fascisti e taglia fuori lo scudocrociato di Fanfani dal governo. Guarrasi è responsabile del piano di sviluppo.
I Salvo appoggiano Milazzo, don Paolino Bontate (padre di Stefano, il «principe di Villagrazia» ucciso dai corleonesi nella successiva guerra di mafia) schiaffeggia personalmente i deputati monarchici dubbiosi. Padri e figli. Ma non solo quelli delle dinastie mafiose. A diverso titolo, giocheranno un ruolo Bernardo Mattarella (padre di Piersanti, il presidente della Regione Sicilia ucciso dalla mafia nell'81), Salvatore Orlando Cascio (padre del quattro volte sindaco di Palermo Leoluca), Giuseppe La Loggia (padre del leader del Pdl Enrico), Francesco Pignatone (padre del capo della Procura di Roma Giuseppe).
E ancora, Gerlando Miccichè, fratello del defunto Luigi, che fu segretario particolare di Mimì La Cavera, e padre dell'ex sottosegretario berlusconiano Gianfranco, del banchiere Gaetano, del manager del Palermo calcio Guglielmo. O Aldo Profumo, padre dell'ex presidente di Unicredit Alessandro, direttore, ai tempi in cui La Cavera era in auge, della Elettronica Sicula, collegata alle grandi imprese Usa, azienda che inventò i tubi catodici per le tv a colori. La Sicilia vola. Enrico Mattei, presidente dell'Eni, vuole industrializzare l'Isola. Usa i partiti come taxi, sfida le sette sorelle del petrolio. Ma muore in un incidente aereo a Bescapè (27 ottobre ‘62).
Un attentato? Gli succede Eugenio Cefis. Guarrasi è consulente di Mattei, lo resta anche di Cefis nei decenni successivi. Ma intanto, caduto Milazzo, fa approvare una legge che scarica sulla Regione i debiti mostruosi delle industrie minerarie. «Io non faccio le leggi. Le scrivo» dirà. Si cominciano a mangiare la Sicilia. Otto anni dopo scompare il cronista dell'Ora De Mauro, al tempo di Salò legato alla X Mas del principe nero Junio Valerio Borghese. De Mauro lavorava come consultente al film del regista Francesco Rosi sul giallo di Mattei. Il capo della squadra Mobile Boris Giuliano (ucciso dalla mafia nel ‘79) batte la pista che porta a 
Palermo scommette: stanno per futtiri Mister X. Lo definisce così, sull'Espresso, il questore dell'epoca, Angelo Mangano, lo sbirro che arrestò Luciano Liggio. Ma la palude inghiotte tutto. Qualche lume verrà 27 anni dopo. Un giudice a Pavia, Vincenzo Calia, riapre l'inchiesta. E ascolta il pm Ugo Saitto, che rivela: Boris Giuliano gli confidò di un summit nella panormita Villa Boscogrande, presieduto dal capo dei servizi, il piduista Vito Miceli. Qui, tra zagare, gelsomini e fette di cassata, si era deciso di insabbiare tutto. Poi ci si mette Graziano Verzotto, ex partigiano e braccio destro di Mattei, latitante per 16 anni, ad accusare Guarrasi.
Dice al giudice Calia che le mani di Mister X sono lorde del sangue di Mattei e De Mauro. Ne esce un intrigo che finisce nei soldi riciclati dalle banche di Sindona. Ma dell'inchiesta non si parlerà (fino a Rizza e Lo Bianco, Profondo nero, Chiarelettere, 2009). Il fantasma di Michele Sindona lo tira fuori al processo Andreotti il pentito Angelo Siino, che fu l'autista di papa Giovanni Paolo II in Sicilia. Siino sostiene di aver accompagnato Sindona da Guarrasi. L'accusa cita un rapporto della Finanza del ‘93, che parla di «occulta regia» dell'anziano Guarrasi nei mutamenti in corso dentro Cosa Nostra.
La prima Repubblica era crollata un anno prima. E Guarrasi morirà un anno dopo quel processo. Oggi tre inchieste (Il caso De Mauro, Giuseppe Pipitone, Editori Riuniti, pp. 191, euro 16; L'eretico, Nino Amadore, Rubbettino, pp. 115, euro 12; Alfio Caruso, I siciliani, Neri Pozza, pp. 671, euro 18) scavano sul personaggio. E sui misteri mai chiariti nelle quattro interviste rilasciate da Guarrasi in vita (nella prima, a Giuseppe Sottile sull'Espresso, sostenne che De Mauro era stato eliminato per complicità nel golpe Borghese).
Nell'ultima, a Claudio Fava, figlio del giornalista ucciso dalla mafia, plaudì Berlusconi. Lo paragonò a Milazzo. Disse che, più che una rivoluzione, la fine della prima Repubblica era stata una «mareggiata». «Perché?» chiese Fava. «Mancava una cosa: la ghigliottina».

DOCUMENTI


venerdì 21 giugno 2013

BERNARDO MATTARELLA





Bernardo Mattarella (Castellammare del Golfo, 15 settembre 1905 – Roma, 1 marzo 1971) è stato un politico italiano,  il principale avversario del separatismo siciliano e più volte Ministro della Repubblica. È il padre di Piersanti e Sergio anch'essi uomini politici.
Di umili origini, si laureò in giurisprudenza a Palermo dove visse fino al 1948 quando si trasferì a Roma. Antifascista. Nel 1941-1943 partecipò a Roma alle riunioni clandestine guidate da Alcide De Gasperi da cui nacque la Democrazia Cristiana.
Nei primi due governi del Comitato di liberazione nazionale, presieduti da Ivanoe Bonomi e composti da tre ministri e tre sottosegretari per ciascuno dei sei partiti del CLN (1944 – 1945), ricoprì la carica di Sottosegretario alla Pubblica Istruzione. Nel 1945, con De Gasperi Segretario nazionale, divenne Vice Segretario della Democrazia Cristiana, insieme ad Attilio Piccioni e a Giuseppe Dossetti.
Alle elezioni dell'Assemblea Costituente del 2 giugno 1946 fu eletto per la DC nella circoscrizione elettorale della Sicilia Occidentale e fece parte dell'Ufficio di Presidenza della Costituente come Questore. Il 18 aprile 1948 alle elezioni del primo parlamento repubblicano, Mattarella fu rieletto nella medesima circoscrizione, nella quale sarà sempre eletto.
Nel quinto Governo De Gasperi (1948) fu nominato Sottosegretario ai Trasporti, carica che mantenne anche nel sesto e settimo degli esecutivi guidati dallo statista trentino.
Costituitosi l'ottavo Governo De Gasperi il 16 luglio 1953, ebbe affidato il Ministero della Marina Mercantile. Caduto questo gabinetto dopo appena 12 giorni e formatosi il Governo Pella il 18 agosto 1953, ebbe l'incarico di Ministro dei Trasporti che mantenne anche nel successivo Governo Fanfani, che cadde il 30 gennaio 1954 a soli 12 giorni dalla sua costituzione. Nel successivo governo guidato da Mario Scelba, ebbe riaffidato lo stesso ministero. Il 6 luglio 1955 nacque il primo Governo Segni e Mattarella passò dai Trasporti al Commercio con l'Estero. Adone Zoli, costituito il suo governo il 18 maggio 1957, lo volle Ministro delle Poste e Telecomunicazioni. Nella terza Legislatura fu Presidente della Commissione Trasporti della Camera dei deputati e componente della direzione nazionale della Democrazia Cristiana, per poi tornare al governo, come Ministro dei Trasporti, nel quarto Governo Fanfani (21 febbraio 1962).
Dopo le elezioni politiche del 1963 si formò il primo Governo Leone, durato in carica dal 21 giugno al 5 novembre 1963, nel quale Mattarella fu Ministro per l'Agricoltura e le Foreste. Nel secondo governo della quarta Legislatura (primo Governo Moro) entrato in carica il 4 dicembre 1963 ritornò al Ministero del Commercio con l'Estero, che mantenne anche nel successivo secondo Governo Moro che rimase in carica fino al 21 gennaio 1966.
Nel successivo governo Moro Mattarella non fu nominato Ministro per motivi di equilibrio tra le correnti democristiane, come affermato da Moro in una lettera con cui ringraziava Mattarella per il lavoro svolto al governo. Mattarella divenne Presidente della Commissione Difesa della Camera dei deputati e rientrò nella direzione nazionale della D.C. E mantenne questi due incarichi fino alla sua morte, a seguito di una malattia durata alcuni mesi.
Alle politiche del 1968, a meno di tre anni dalla morte, fu eletto per l'ultima volta alla Camera dei deputati.

L'atteggiamento nei confronti della Mafia 
La sentenza del Tribunale di Roma del 21.6.1967, confermata dalla Corte d'appello e dalla Corte di cassazione, afferma: “Mattarella ha espresso sempre in modo inequivoco la sua condanna del fenomeno mafioso” e “non è mai entrato in contatto con l' ambiente mafioso da lui invece apertamente e decisamente osteggiato nel corso di tutta la sua carriera politica”.
Nel 1943 fu il primo a entrare in contatto epistolare con don Luigi Sturzo, ancora negli Stati Uniti. In una lettera del 24 maggio 1944 manifestava a Sturzo l'allarme per l'azione del separatismo siciliano, scrivendogli: ”È comunque un movimento che occorre seguire e vigilare continuamente, anche per l'elemento poco buono da cui è circondato, la mafia, riportata dai feudatari separatisti all'onore della ribalta politica". In altra lettera del 29 giugno 1946, poco dopo il voto per l'Assemblea Costituente, Bernardo Mattarella così scriveva a Luigi Sturzo: “La lotta elettorale è stata dura e faticosa, ma ci dato anche il grande risultato del pieno fallimento della mafia... I separatisti, che ne dividevano con i liberali i favori, sono stati miseramente sconfitti”. In un articolo del 3 giugno 1944 su “Popolo e Libertà”, il giornale che dirigeva, Bernardo Mattarella, pubblicò un articolo in cui attaccava il leader dei separatisti, accusandolo di avere l'appoggio della mafia e scrivendo: “Ha sulla coscienza la triste responsabilità di avere riunito attorno a sé, cercando di ripotenziarla, l'organizzazione più pericolosa e sopraffattrice che abbia afflitto, per lunghi anni, le nostre contrade.”
Nel 1958, in una lunga intervista sugli strumenti per sconfiggere la mafia – su Il Giornale del Mezzogiorno del 27 novembre 1958 - espresse opinione favorevole all'istituzione di una commissione di inchiesta sulla mafia, che venne istituita anni dopo.
Al processo per la strage di Portella della Ginestra Mattarella fu accusato da Gaspare Pisciotta di essere implicato nella strage. La sentenza della Corte di assise di Viterbo che concluse quel processo dichiarò infondate le accuse di Pisciotta, componente della banda Giuliano e tra gli autori della strage. Anche il Pubblico Ministero nella sua requisitoria al processo di Viterbo aveva definito inaffidabile Pisciotta che aveva fornito nove diverse versioni della strage e inattendibili le sue accuse contro Scelba e Mattarella. Tali le giudicò anche l'Ufficio istruzione presso la Corte di Appello di Palermo su denunzia presentata dall'on. Giuseppe Montalbano, del PCI, contro tre deputati monarchici e che escludeva coinvolgimenti degli onn. Scelba e Mattarella. Del resto che l'atteggiamento di Pisciotta facesse parte di una manovra organizzata per depistare era stato dichiarato nel corso del processo dalla stessa madre di Giuliano e da alcuni componenti della banda e fu confermato, davanti alla Commissione parlamentare antimafia, sia da questi ultimi nel marzo 1966 sia, nel giugno 1972, dai due membri della banda che avevano seguito Pisciotta in quella manovra.
Mattarella sarebbe stato tra coloro che accolsero Joe Bonanno quando arrivò all'aeroporto di Fiumicino a Roma nel 1957. Questa circostanza è falsa. Essa è contenuta in un libro di memorie del Bonanno, invero piuttosto romanzato, scritto, come si legge nella presentazione, da un terzo: vi si narra del viaggio che il Bonanno fece in Italia, nel settembre 1957, al seguito del direttore del giornale “Il progresso italo americano” F. Pope. Come risulta da quel giornale essi arrivarono a Roma il 13 settembre di quell'anno e l'on. Bernardo Mattarella non era affatto presente. È facile verificarlo sia sul giornale di Pope che su giornali italiani. Del resto, quello stesso giorno, Mattarella, allora Ministro delle Poste, si trovava in altra e lontana città d'Italia per inaugurare un'opera pubblica.
Il sociologo Danilo Dolci lo accusò nel 1965, con un dossier presentato in una conferenza stampa (riprodotto nel libro Chi gioca solo del 1966) di collusioni con la mafia. Mattarella lo querelò, concedendogli facoltà di prova e, dopo un dibattimento durato circa due anni, con l'escussione di decine di testimoni e l'acquisizione di un'amplissima documentazione, e durante il quale Dolci chiese che gli venisse applicata l'amnistia varata nell'anno precedente, questi fu condannato per diffamazione a due anni di reclusione, che non scontò per effetto dell'indulto approvato l'anno precedente. Nella sentenza del Tribunale di Roma del 21.6.67, già citata e confermata in Appello e in Cassazione, è scritto: “Nulla di quanto attribuito al parlamentare siciliano può dirsi rimasto in piedi”. “Ha in sostanza Mattarella portato a conoscenza del Tribunale, obiettivamente documentandolo, l'atteggiamento di insuperabile contrarietà alla mafia assunto e mantenuto nel corso di tutta la sua carriera politica”. “Nulla di quanto contenuto nel dossier che ha costituito la base del massiccio attacco nei riguardi di Mattarella ha trovato quindi conforto e riscontro sul piano della prova, dimostrandosi le dichiarazioni raccolte dagli imputati – Dolci e il suo collaboratore Alasia – nient'altro che il frutto di irresponsabili pettegolezzi, di malevoli dicerie se non addirittura di autentiche falsità”.”Basse, infondate insinuazioni, quindi, calunniose interpretazione di fatti ed avvenimenti, interessate strumentalizzazione di testimonianze che lungi dal fare la storia di un ambiente e di un personaggio, come incautamente asserito dal Dolci nel corso della conferenza stampa, possono al più favorire la peggiore confusione delle idee, intralciare se non addirittura fuorviare il corso degli accertamenti, condurre a infondati giudizi nei confronti di uomini e di cose”.

' VI DICO I NOMI DEI PADRI DELLA MAFIA'
Repubblica 1996
Bernardo Mattarella, ministro della Repubblica e uomo d' onore. Girolamo Bellavista, principe del Foro e uomo d' onore. Giovanni Musotto, docente di Diritto Penale e uomo d' onore. Calogero Volpe, sottosegretario alle Finanze e uomo d' onore, Casimiro Vizzini, senatore della Repubblica e uomo d' onore... L' ultimo pentito racconta la storia "segreta" di Cosa Nostra, fa i nomi dei suoi più illustri affiliati degli Anni Cinquanta e Sessanta, spiega con dovizia di particolari il ruolo di ministri e avvocati al servizio delle "famiglie" della Sicilia occidentale. E' la verità di Francesco Di Carlo, il boss di Altofonte che i procuratori di Palermo definiscono "il nuovo Buscetta".... 

sabato 15 giugno 2013

GASPARE PISCIOTTA





Rosalia Pisciotta (la sorella): «Quali caffè e caffè. Ci misero la stricnina nella medicina a me' frati quando tornò da Viterbo. Cretinu pure lui. ' A Palermo parlerò' , diciva. E parlava dei potenti. Sbaglio grande. O riferiva tutto allora e si liberava in quell' aula, o si stava zittu». 
(da corriere della sera 2007)


Gaspare Pisciotta (Montelepre, 5 marzo 1924 – Palermo, 9 febbraio 1954) era compagno e amico del bandito siciliano Salvatore Giuliano e considerato il vice di Giuliano nella banda omonima. È noto per essere stato uno dei partecipanti alla strage di Portella della Ginestra del 1º maggio 1947. È considerato il responsabile dell'uccisione del bandito Salvatore Giuliano.

Pisciotta a destra con un giovane Salvatore Giuliano


Origini 
Gaspare Pisciotta nacque a Montelepre nella Sicilia occidentale nel 1924. Contrariamente a quanto è largamente ritenuto, lui e Salvatore Giuliano non erano cugini ma si conobbero da bambini e diventarono amici da ragazzi. Mentre Giuliano rimase a Montelepre durante la guerra, Pisciotta si arruolò nell'esercito e fu catturato mentre combatteva contro i tedeschi. Fu rilasciato nel 1945, malato di tubercolosi, e ritornò in Sicilia dove si unì alla campagna separatista di Giuliano, diventando uno dei membri fondatori della banda.





Arresto
Poco dopo la morte di Salvatore Giuliano, avvenuta il 5 luglio 1950, Pisciotta fu catturato e incarcerato. In carcere fece la sorprendente rivelazione che fu lui ad uccidere Giuliano nel sonno, un'affermazione che contraddiceva la versione delle forze dell'ordine che Giuliano fosse stato ucciso dal capitano dei Carabinieri Antonio Perenze in uno scontro a fuoco a Castelvetrano. Sosteneva di aver ucciso Salvatore Giuliano dietro istruzioni del Ministro dell'Interno Mario Scelba e di aver raggiunto un accordo con il colonnello Luca, comandante delle forze anti-banditismo in Sicilia, di collaborare, a condizione che non fosse condannato e che Luca sarebbe intervenuto in suo favore qualora fosse stato arrestato.
Al processo per il massacro di Portella della Ginestra, Pisciotta dichiarò: "Coloro che ci avevano fatto le promesse si chiamavano così: il deputato DC Bernardo Mattarella, il principe Alliata, l'onorevole monarchico Marchesano e anche il signor Scelba… Furono Marchesano, il principe Alliata, l'onorevole Mattarella a ordinare la strage di Portella della Ginestra… Prima del massacro incontrarono Giuliano…". Ciononostante Mattarella, Alliata e Marchesano, in un processo sul loro supposto ruolo nell'evento, furono dichiarati innocenti dalla Corte di Appello di Palermo. Durante il processo Pisciotta non poté confermare le accuse presenti nella documentazione di Giuliano nella quale questi nominava il Governo Italiano, gli alti ufficiali dei Carabinieri e i mafiosi coinvolti nella sua banda. E ancora: “Servimmo con lealtà e disinteresse i separatisti, i monarchici, i democristiani e tutti gli appartenenti a tali partiti che sono a Roma con alte cariche, mentre noi siamo stati scaricati in carcere. Banditi, mafiosi e carabinieri eravamo la stessa cosa”.


Principe Alliata di Montereale
Bernardo Mattarella
Mario Scelba 1947

Fu condannato all'ergastolo e ai lavori forzati; gran parte degli altri 70 banditi incontrarono la stessa sorte. Altri erano in libertà, ma uno per uno scomparirono tutti. Quando Pisciotta si accorse di essere stato abbandonato da tutti e fu condannato, dichiarò che avrebbe raccontato tutta la verità, in particolare su chi firmò la lettera che fu recapitata a Giuliano il 27 aprile 1947, che commissionava il massacro di Portella della Ginestra in cambio della libertà per tutti i membri della banda, e che Giuliano distrusse immediatamente.
La madre di Salvatore Giuliano sospettò Pisciotta come un potenziale traditore del figlio prima che lo stesso fosse assassinato, benché Giuliano le avesse scritto: "...noi ci rispettiamo come fratelli...". Se la testimonianza di Pisciotta fu vera, Giuliano non sospettò nulla fino alla sua morte.

Prigionia e morte 
In prigione, Pisciotta capì che la sua vita era in pericolo. Venne scritto che egli disse: “Uno di questi giorni, mi uccideranno” tanto che rifiutò di dividere la cella con qualcuno prima della sentenza del processo. Secondo alcuni, Gaspare aveva un piccolo passero al quale faceva mangiare il cibo prima di mangiarlo a sua volta, per paura di essere avvelenato, e non mangiava il cibo del carcere ma soltanto quello preparato da sua madre e che gli veniva recapitato in cella. In ogni caso la mattina del 9 febbraio 1954, Gaspare prese un preparato vitaminico che egli stesso sciolse nel caffè. Quasi immediatamente venne colpito da lancinanti dolori addominali e, nonostante fosse stato portato immediatamente all'infermeria della prigione, morì nel giro di quaranta minuti. La causa del decesso, secondo gli esiti dell'autopsia, fu dovuta all'ingestione di 20 mg di stricnina.
Sia il Governo italiano che la mafia furono indicati come i mandanti dell'uccisione di Pisciotta, ma nessuno venne processato per la sua morte. La madre di Gaspare, Rosalia, scrisse una lettera aperta alla stampa il 18 marzo di quell'anno denunciando il possibile coinvolgimento di politici corrotti e della mafia nell'uccisione del figlio, dicendo: “Sì, è vero che mio figlio Gaspare non potrà più parlare e molta gente è convinta di essere al sicuro; ma chissà, forse qualche altra cosa può venir fuori”. Gaspare Pisciotta si suppone abbia potuto scrivere una autobiografia in carcere, alla quale la madre probabilmente si riferiva e che il fratello Pietro provò a far pubblicare. Questo documento andò però smarrito ed il suo contenuto rimase sempre un segreto.

Portella della Ginestra una tesi recente
Una recente tesi più grave attribuisce, invece, la strage ad una coincidenza di interessi tra i post-fascisti, che durante la guerra avevano combattuto nella Xª Flottiglia MAS di Junio Valerio Borghese, i servizi segreti USA (preoccupati dell'avanzata social-comunista in Italia), ed i latifondisti siciliani.
« I rapporti desecretati dell' OSS e del CIC (i servizi segreti statunitensi della Seconda guerra mondiale), che provano l'esistenza di un patto scellerato in Sicilia tra la cosiddetta “banda Giuliano” e elementi già nel fascismo di Salò (in primis, la Decima Mas di Junio Valerio Borghese e la rete eversiva del principe Pignatelli nel meridione) sono il risultato di una ricerca promossa e realizzata negli ultimi anni da Nicola Tranfaglia(Università di Torino), dal ricercatore indipendente Mario J. Cereghino e da chi scrive. »
(da Edscuola, Dossier a cura del prof. Giuseppe Casarrubea)






venerdì 12 aprile 2013

PORTELLA DELLA GINESTRA






Portella della Ginestra

è una località montana situata a 3 km circa da Piana degli Albanesi, al cui territorio appartiene, in provincia di Palermo.
Prende il nome dai fiori selvatici che vi sbocciano in abbondanza in primavera, ed è nota per essere stata teatro il 1º maggio 1947 della prima strage dell'Italia repubblicana. Sul luogo della tragedia ora sorge un Memoriale (Përmendorja in lingua albanese), opera dell'artista Ettore de Conciliis, costituito da numerose iscrizioni incise su pietre locali di grandi dimensioni, poste attorno al "Sasso di Barbato", che prende il nome per l'appunto dall'arbëreshë di Piana degli Albanesi Nicola Barbato, socialista, fra i fondatori dei Fasci Siciliani dei Lavoratori. 

La strage

Il 1º maggio 1947, nell'immediato dopoguerra, si tornava a festeggiare la festa dei lavoratori, spostata al 21 aprile Natale di Roma durante il regime fascista. Circa duemila lavoratori della zona di Piana degli Albanesi, in prevalenza contadini, si riunirono nella vallata di Portella della Ginestra per manifestare contro il latifondismo, a favore dell'occupazione delle terre incolte, e per festeggiare la vittoria del Blocco del Popolo nelle recenti elezioni per l'Assemblea Regionale Siciliana, svoltesi il 20 aprile di quell'anno e nelle quali la coalizione PSI - PCI aveva conquistato 29 rappresentanti (con il 29% circa dei voti) contro i soli 21 della DC (crollata al 20% circa).

Pisciotta e Giuliano

Sulla gente in festa partirono dalle colline circostanti numerose raffiche di mitra che lasciarono sul terreno, secondo le fonti ufficiali, 11 morti (9 adulti e 2 bambini) e 27 feriti, di cui alcuni morirono in seguito per le ferite riportate. La CGIL proclamò lo sciopero generale, accusando i latifondisti siciliani di voler “soffocare nel sangue le organizzazioni dei lavoratori”.
Solo quattro mesi dopo si seppe che a sparare materialmente erano stati gli uomini del bandito separatista Salvatore Giuliano, colonnello dell'E.V.I.S.. Il rapporto dei carabinieri sulla strage faceva chiaramente riferimento ad "elementi reazionari in combutta con i mafiosi".
Nel 1949 Giuliano scrisse una lettera ai giornali, in cui affermava lo scopo politico della strage. Questa tesi fu smentita dall'allora ministro degli Interni Mario Scelba. Nel 1950, il bandito Giuliano fu assassinato dal suo luogotenente Gaspare Pisciotta, il quale morì avvelenato in carcere quattro anni più tardi, dopo aver affermato di voler rivelare i nomi dei mandanti della strage. Attualmente vi sono forti dubbi che Pisciotta fosse l'autore dell'omicidio, come è stato fatto osservare nella trasmissione Blu notte ed emerge dal lavoro di Alberto Di Pisa e Salvatore Parlagreco. L’episodio, che resta ancora oscuro, porta i segni della collusioni fra la mafia e le forze reazionarie dell’isola.




Le prime ipotesi

Sul movente dell'eccidio furono formulate alcune ipotesi già all'indomani della tragedia. Il 2 maggio 1947 il ministro Scelba intervenne all'Assemblea Costituente, affermando che dietro all'episodio non vi era alcuna finalità politica o terroristica, ma che doveva essere considerato un fatto circoscritto, e identificò in Salvatore Giuliano e nella sua banda gli unici responsabili. Il processo del 1951, dapprima istruito a Palermo, poi spostato a Viterbo per legittima suspicione, si concluse con la conferma di questa tesi, con il riconoscimento della colpevolezza di Salvatore Giuliano (morto il 5 luglio 1950, ufficialmente per mano del capitano Antonio Perenze) e con la condanna all'ergastolo di Gaspare Pisciotta e di altri componenti la banda. Pisciotta durante il processo, oltre ad attribuirsi l'assassinio di Giuliano, lanciò pesanti accuse sui presunti mandanti politici della strage.
« Coloro che ci avevano fatto le promesse si chiamavano così: L'onorevole deputato democristiano on. Bernardo Mattarella,l'onorevole deputato regionale Giacomo Cusumano Geloso, il principe Giovanni Alliata di Montereale, l'onorevole monarchico Tommaso Leone Marchesano e anche il signor Scelba. Furono Marchesano, il principe Alliata, l'onorevole Mattarella a ordinare la strage di Portella della Ginestra. Dopo le elezioni del 18 aprile 1948, Giuliano mi ha mandato a chiamare e ci siamo incontrati con Mattarella e Cusumano; l'incontro tra noi e i due mandanti è avvenuto in contrada Parrino, dove Giuliano ha chiesto che le promesse fatte prima del 18 aprile fossero mantenute. I due tornarono allora da Roma e ci hanno fatto sapere che Scelba non era d'accordo con loro, che egli non voleva avere contatti con i banditi. »
La seconda ipotesi fu quella sostenuta da Girolamo Li Causi in sede parlamentare, dalle forze di sinistra e dalla CGIL, secondo la quale il bandito Giuliano era solo l'esecutore del massacro: i mandanti, gli agrari e i mafiosi, avevano voluto lanciare un preciso messaggio politico all'indomani della vittoria del Blocco del Popolo alle elezioni regionali.
In seguito ai riscontri emersi dal processo, diversi parlamentari socialisti e comunisti denunciarono i rapporti tra esponenti delle istituzioni, mafia e banditi. Intervenendo alla seduta della Camera dei deputati del 26 ottobre 1951, lo stesso Li Causi affermava:
« Tutti sanno che i miei colloqui col bandito Giuliano sono stati pubblici e che preferivo parlargli da Portella della Ginestra nell'anniversario della strage. Nel 1949 dissi al bandito: "ma lo capisci che Scelba ti farà ammazzare? Perché non ti affidi alla giustizia, perché continui ad ammazzare i carabinieri che sono figli del popolo come te?". Risposta autografa di Giuliano, allegata agli atti del processo di Viterbo: "Lo so che Scelba vuol farmi uccidere perché lo tengo nell'incubo di fargli gravare grandi responsabilità che possono distruggere la sua carriera politica e finirne la vita". È Giuliano che parla. Il nome di Scelba circolava tra i banditi e Pisciotta ha preteso, per l'attestato di benemerenza, la firma di Scelba; questo nome doveva essere smerciato fra i banditi, da quegli uomini politici che hanno dato malleverie a Giuliano. C'è chi ha detto a Giuliano: sta tranquillo perché Scelba è con noi; Tanto è vero che Luca portava seco Pisciotta a Roma, non a Partinico, e poi magari ammiccava: hai visto che a Roma sono d'accordo con noi? »



Opinioni recenti 

In tempi più prossimi la tesi delle collusioni ad altissimo livello, fino al capolinea del Quirinale, è stata assunta e rilanciata da Sandro Provvisionato, in Misteri d'Italia (Laterza 1994), e da Carlo Ruta, il quale nel prologo de Il binomio Giuliano Scelba (Rubbettino 1995) scrive:
« Sugli scenari che si aprirono con Portella della Ginestra, alcuni quesiti rimangono aperti ancora oggi: fino a che punto quegli eventi tragici videro realmente delle correità di Stato? E quali furono al riguardo le effettive responsabilità, dirette e indirette, di taluni personaggi chiamati in causa per nome dai banditi e da altri? Fra l'oggi e quei lontani avvenimenti vige, a ben vedere, un preciso nesso. Nel pianoro di Portella venne forgiato infatti un peculiare concetto della politica che giunge in sostanza sino a noi. »



Una tesi recente

J. Borghese

Una tesi più grave, recente, attribuisce invece la strage ad una coincidenza di interessi tra i post-fascisti che durante la guerra avevano combattuto nella Xª Flottiglia MAS di Junio Valerio Borghese, i servizi segreti USA (preoccupati dell'avanzata social-comunista in Italia) ed i latifondisti siciliani.
« I rapporti desecretati dell' OSS e del CIC (i servizi segreti statunitensi della Seconda guerra mondiale), che provano l'esistenza di un patto scellerato in Sicilia tra la cosiddetta “banda Giuliano” e elementi già nel fascismo di Salò (in primis, la Decima Mas di Junio Valerio Borghese e la rete eversiva del principe Pignatelli nel meridione) sono il risultato di una ricerca promossa e realizzata n
egli ultimi anni da Nicola Tranfaglia(Università di Torino), dal ricercatore indipendente Mario J. Cereghino e da chi scrive. »
(da Edscuola, Dossier a cura del prof. Giuseppe Casarrubea)
« Il Giuliano allora si è avvicinato a me chiedendomi dove fosse mio fratello. Ho risposto che si trovava in paese con un foruncolo. Egli allora mi ha detto: 'E' venuta la nostra liberazione'. Io ho chiesto: -E qual è?- Ed egli di rimando mi disse: 'Bisogna fare un'azione contro i comunisti: bisogna andare a sparare contro di loro, il 1º maggio a Portella della Ginestra. Io ho risposto dicendo che era un'azione indegna, trattandosi di una festa popolare alla quale avrebbero preso parte donne e bambini ed aggiunsi: 'Non devi prendertela contro le donne ed i bambini, devi prendertela contro Li Causi e gli altri capoccia' »
(Dichiarazione di Gaspare Pisciotta)
Giuliano con Vito Genovese
Non fu mai possibile dimostrare la veridicità di questo scenario, tramite testimonianza diretta, perché Giuliano fu ucciso ufficialmente in uno scontro a fuoco con i carabinieri a Castelvetrano nel 1950. Il probabile assassino, il suo luogotenente e cugino, Gaspare Pisciotta, venne a sua volta ucciso nel 1954, avvelenato in carcere con della stricnina nel caffè, dopo aver preannunciato rivelazioni sulla strage. Sosteneva di aver ucciso Giuliano dietro istruzioni del Ministro dell'Interno Mario Scelba e di aver raggiunto un accordo con il colonnello Ugo Luca, comandante delle forze anti banditismo in Sicilia, di collaborare, a condizione che non fosse condannato e che Luca sarebbe intervenuto in suo favore qualora fosse stato arrestato.
« Il nominato Gaspare Pisciotta di Salvatore e di Lombardo Rosalia, nato a Montelepre il 5 marzo 1924, raffigurato nella fotografia in calce al presente, si sta attivamente adoperando - come da formale assicurazione fornitami nel mio ufficio in data 24 giugno c. dal colonnello Luca - per restituire alla zona di Montelepre e comuni vicini la tranquillità e la concordia, cooperando per il totale ripristino della legge. »
(stralcio dell'attestato di benemerenza rilasciato al bandito Gaspare Pisciotta a firma del ministro Mario Scelba)


Il Memoriale di Portella della Ginestra

Il Memoriale di Portella delle Ginestre (Përmendorja e Purteles së Jinestrës) è una originale sistemazione naturale-monumentale del luogo, situato nella contrada omonima di Piana degli Albanesi. La sistemazione monumentale di Portella della Ginestra è un'opera di land art (arte della terra, del territorio) di cui vi sono altri svariati esempi nel mondo. Il Memoriale è stato progettato e realizzato tra il 1979-1980 da Ettore de Conciliis, pittore e scultore, con la collaborazione del pittore Rocco Falciano e dell'architetto Giorgio Stockel.