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venerdì 12 dicembre 2014

SALVATORE RIINA "TOTò U' CURTU"






Carta d'identità del 1958
Salvatore Riina, nasce a Corleone il16 novembre 1930; nel 1943 perse il padre Giovanni e il fratello Francesco (di 7 anni) mentre, insieme a lui e al fratello Gaetano, stavano cercando di estrarre la polvere da sparo da una bomba americana inesplosa, rinvenuta tra le terre che curavano, per rivenderla insieme al metallo. Gaetano rimase ferito e Totò rimase illeso. In questi anni conobbe il mafioso Luciano Liggio, con il quale intraprese il furto di covoni di grano e bestiame e lo affiliò nella locale cosca mafiosa, di cui faceva parte anche lo zio paterno di Riina, Giacomo.
A 19 anni fu condannato ad una pena di 12 anni, scontata parzialmente nel carcere dell' Ucciardone, per aver ucciso in una rissa un suo coetaneo, venendo però scarcerato nel 1956. Insieme a Liggio e alla sua banda, Riina iniziò ad occuparsi di macellazione clandestina di bestiame rubato nei terreni della società armentizia di contrada Piano di Scala. Nel 1958 Liggio eliminò il suo capo Michele Navarra e nei mesi successivi, insieme alla sua banda di cui faceva parte Riina, scatenò un conflitto contro gli ex-uomini di Navarra, che furono in gran parte assassinati fino al 1963.
Riina venne però arrestato nel dicembre del 1963 a Corleone: una notte fu fermato, nella parte alta del paese, da una pattuglia di agenti di Polizia di cui faceva parte anche il commissario Angelo Mangano il quale nel 1964 parteciperà, sotto la direzione del tenente colonnello dei Carabinieri Ignazio Milillo, alla cattura di Luciano Liggio. Riina, che aveva una carta d'identità rubata (dalla quale risultava essere "Giovanni Grande" da Caltanissetta) ed una pistola non regolarmente dichiarata, tentò di scappare ma venne braccato e facilmente catturato dalle forze dell'ordine. Fu riconosciuto dall'agente Biagio Melita.
Tuttavia, dopo aver scontato alcuni anni di prigione al carcere dell'Ucciardone (dove conobbe Gaspare Mutolo), fu assolto per insufficienza di prove nel processo svoltosi a Bari nel 1969. Dopo l'assoluzione, Riina si trasferì con Liggio a Bitonto, in provincia di Bari, ma il Tribunale di Palermo emise un'ordinanza di custodia precauzionale nei loro confronti. Riina tornò da solo a Corleone, dove venne arrestato e gli venne applicata la misura del soggiorno obbligato; scarcerato e munito di foglio di via obbligatorio, Riina non raggiunse mai il soggiorno obbligato e si rese irreperibile, dando inizio alla sua lunga latitanza.

L'ascesa ai vertici di Cosa Nostra
Il 10 dicembre 1969 Riina fu tra gli esecutori della cosiddetta «strage di Viale Lazio», che doveva punire il boss Michele Cavataio. Nel periodo successivo Riina sostituì spesso Liggio nel "triumvirato" provvisorio di cui faceva parte con i boss Stefano Bontate e Gaetano Badalamenti, che aveva il compito di dirimere le dispute tra le varie cosche della provincia di Palermo. Riina e Liggio divennero i principali capi-elettori del loro compaesano Vito Ciancimino, il quale venne eletto sindaco di Palermo; nel 1971 Riina fu esecutore materiale dell'omicidio del procuratore Pietro Scaglione e, nello stesso anno, partecipò ai sequestri a scopo di estorsione ordinati da Liggio a Palermo: furono rapiti Antonino Caruso, figlio dell'industriale Giacomo, ed anche il figlio del costruttore Francesco Vassallo mentre nel 1972 Riina stesso ordinò il sequestro del costruttore Luciano Cassina, nel quale vennero implicati uomini della cosca di Giuseppe Calò: l'obiettivo principale di Riina non era solo quello di incassare il denaro del riscatto ma anche quello di colpire Badalamenti e Bontate, che erano legati al padre dell'ostaggio, il conte Arturo Cassina, che aveva il monopolio della manutenzione della rete stradale, dell'illuminazione pubblica e della rete fognaria a Palermo.


Attraverso Liggio, Riina divenne "compare di anello" di Mico Tripodo, boss della 'Ndrangheta, e si legò ai fratelli Nuvoletta, camorristi napoletani affiliati a Cosa Nostra, con cui avviò un contrabbando di sigarette estere. Nel 1974 Riina divenne il reggente della cosca di Corleone dopo l'arresto di Liggio e l'anno successivo fece sequestrare ed uccidere Luigi Corleo, suocero di Nino Salvo, ricco e famoso esattore affiliato alla cosca di Salemi; il sequestro venne attuato per dare un duro colpo al prestigio di Badalamenti e di Bontate, i quali erano legati a Salvo e non riusciranno ad ottenere né la liberazione dell'ostaggio, né la restituzione del corpo, anche se Riina negò con forza ogni coinvolgimento nel sequestro.
Nel 1978 Riina mise Badalamenti in minoranza nella "Commissione" con una scusa e lo fece espellere, facendo passare l'incarico di dirigere la "Commissione" a Michele Greco, con cui era strettamente legato. Per queste ragioni, Giuseppe Di Cristina, capo della cosca di Riesi legato a Bontate e Badalamenti, tentò di mettersi in contatto con i Carabinieri, accusando Riina e il suo luogotenente Bernardo Provenzano di essere responsabili di numerosi omicidi per conto di Liggio, all'epoca detenuto; alcuni giorni dopo le sue confessioni, Di Cristina venne ucciso a Palermo mentre qualche tempo dopo anche il suo associato Giuseppe Calderone, capo della Famiglia di Catania, finì assassinato dal suo luogotenente Nitto Santapaola, che si era accordato con Riina.
Nel 1981 Riina fece eliminare Giuseppe Panno, capo della cosca di Casteldaccia strettamente legato a Bontate, il quale reagì organizzando un complotto per uccidere Riina, che però venne rivelato da Michele Greco; Riina allora fece assassinare Bontate e il suo associato Salvatore Inzerillo: i due omicidi diedero inizio alla cosiddetta «seconda guerra di mafia» e nei mesi successivi nella provincia di Palermo lo schieramento dei boss che facevano capo a Riina uccisero oltre 200 mafiosi della fazione Bontate-Inzerillo-Badalamenti mentre molti altri rimasero vittime della cosiddetta «lupara bianca». Il massacro continuò fino al 1982, quando si insediò una nuova "Commissione", composta soltanto da capimandamento fedeli a Riina e guidata dallo stesso Riina.


Legami con la politica
Il principale referente politico di Riina inizialmente fu Vito Ciancimino, il quale nel 1976 instaurò un rapporto di collaborazione con la corrente dell'onorevole Giulio Andreotti, in particolare con Salvo Lima, che sfociò poi in un formale inserimento in tale gruppo politico e nell'appoggio dato dai delegati vicini a Ciancimino alla corrente andreottiana in occasione dei congressi nazionali della Democrazia Cristiana svoltisi nel 1980 e nel 1983. Per proteggere gli interessi di Ciancimino, Riina propose alla "Commissione" gli omicidi dei suoi avversari politici: il 9 marzo 1979 fu ucciso Michele Reina, segretario provinciale della Democrazia Cristiana che era entrato in contrasto con costruttori legati a Ciancimino; il 6 gennaio 1980 venne eliminato Piersanti Mattarella, presidente della Regione che contrastava Ciancimino per un suo rientro nel partito con incarichi direttivi; il 30 aprile 1982 venne trucidato Pio La Torre, segretario regionale del PCI che aveva più volte indicato pubblicamente Ciancimino come personaggio legato a Cosa Nostra.
Dopo l'inizio della «seconda guerra di mafia», i cugini Ignazio e Nino Salvo, ricchi e famosi esattori affiliati alla cosca di Salemi, passarono dalla parte dello schieramento dei Corleonesi, che faceva capo proprio a Riina, e furono incaricati di curare le relazioni con l'onorevole Salvo Lima, che divenne il nuovo referente politico di Riina, soprattutto per cercare di ottenere una favorevole soluzione di vicende processuali; infatti, sempre secondo i collaboratori di giustizia, l'onorevole Lima si sarebbe attivato per modificare in Cassazione la sentenza del Maxiprocesso di Palermo che condannava Riina e molti altri boss all'ergastolo. In particolare, il collaboratore Baldassare Di Maggio riferì che nel 1987 accompagnò Riina nella casa di Ignazio Salvo a Palermo, dove avrebbe incontrato Lima e il suo capocorrente Giulio Andreotti per sollecitare il loro intervento sulla sentenza; la testimonianza dell'incontro venne però considerata inattendibile nella sentenza del processo contro Andreotti.
Tuttavia però il 30 gennaio 1992 la Cassazione confermò gli ergastoli del Maxiprocesso e sancì la validità delle dichiarazioni del pentito Tommaso Buscetta. Sempre secondo le testimonianze dei collaboratori di giustizia, Riina decise allora di lanciare un avvertimento ad Andreotti, che si era disinteressato alla sentenza ed anzi aveva firmato un decreto-legge che aveva fatto tornare in carcere gli imputati del Maxiprocesso scarcerati per decorrenza dei termini e quelli agli arresti domiciliari: per queste ragioni il 12 marzo 1992 Lima venne ucciso alla vigilia delle elezioni politiche ed, alcuni mesi dopo, la stessa sorte toccò ad Ignazio Salvo.


Le ritorsioni verso i collaboratori di giustizia
Le deposizioni dei collaboratori di giustizia (su tutti Tommaso Buscetta) scatenarono la ritorsione di Cosa Nostra su precisa indicazione di Totò Riina, il quale autorizzò i capofamiglia ad eliminare i familiari dei pentiti "sino al 20º grado di parentela", compresi i bambini e le donne.

Il Papello e la trattativa con lo stato
L'allora vicecomandante dei Ros, Mario Mori, incontrò tra giugno e ottobre 1992 Vito Ciancimino, proponendo una trattativa con Cosa Nostra per mettere fine alla lunga scia di stragi che insanguinavano Palermo. La proposta era in realtà, secondo la versione fornita da Mori, una trappola per cercare di stanare qualche latitante, ma Riina rispose alla richiesta con il famoso Papello, un documento di richieste per ammorbidire le condizioni dei detenuti, degli indagati, delle loro famiglie, la cancellazione della legge sui pentiti e la revisione del maxiprocesso.
L'esistenza della trattativa tra stato e Cosa Nostra è stata successivamente smentita dallo stesso Mori. Il 12 marzo 2012, però, nella motivazione della sentenza del processo a Francesco Tagliavia per le stragi del 1992 - 1993, i giudici scrivono che la trattativa tra Stato e Cosa nostra "ci fu e venne quantomeno inizialmente impostata su un do ut des [...] L'iniziativa fu assunta da rappresentanti dello Stato e non dagli uomini di mafia".

L'arresto

Il 15 gennaio del 1993 fu catturato dal Crimor (squadra speciale dei ROS guidata dal Capitano Ultimo). Riina, latitante dal 1969, venne arrestato al primo incrocio davanti alla sua villa in via Bernini n. 54, insieme al suo autista Salvatore Biondino, a Palermo. Nella villa aveva trascorso alcuni anni della sua latitanza insieme alla moglie Antonietta Bagarella e ai suoi figli. L'arresto fu favorito dalle dichiarazioni rese nei giorni precedenti dall'ex autista di Riina, Baldassare (Balduccio) Di Maggio al generale dei carabinieri Francesco Delfino, che decise di collaborare per ritorsione verso Cosa Nostra che lo aveva condannato a morte.








Il carcere
A partire dal dicembre 1995, Riina è stato rinchiuso nel supercarcere dell'Asinara, in Sardegna. In seguito è stato trasferito al carcere di Marino del Tronto ad Ascoli Piceno dov
e, per circa tre anni, è stato sottoposto al carcere duro previsto per chi commette reati di mafia, il 41 bis, ma il 12 marzo del 2001 gli venne revocato l'isolamento, consentendogli di fatto la possibilità di vedere altri detenuti nell'ora di libertà.
Proprio mentre era sottoposto a regime di 41 bis, il 24 maggio 1994 durante una pausa del processo di primo grado a Reggio Calabria per l'uccisione del giudice Antonino Scopelliti fu raggiunto dal capo-redattore della Gazzetta del Sud Paolo Pollichieni, al quale rilasciò dichiarazioni minacciose contro il procuratore Giancarlo Caselli ed altri rappresentanti delle istituzioni, lamentandosi delle severe condizioni imposte dal carcere duro. L'intervento di Riina causò l'apertura di un provvedimento disciplinare da parte del Consiglio Superiore della Magistratura contro il pubblico ministero Salvatore Boemi, accusato di non aver vigilato sul detenuto. Dopo pochi mesi dalle dichiarazioni del boss corleonese il regime di 41 bis (allora valido per soli tre anni, decorsi i quali decadeva la sua applicabilità) è stato rafforzato mediante vari interventi legislativi volti a renderlo prorogabile di anno in anno.
Nella primavera del 2003 subisce un intervento chirurgico per problemi cardiaci, e nel maggio dello stesso anno viene ricoverato nell'ospedale di Ascoli Piceno per un infarto. Sempre nel 2003, a settembre, viene nuovamente ricoverato per problemi cardiaci. Il 22 maggio 2004, nell'udienza del processo di Firenze per la strage di via dei Georgofili, accusa il coinvolgimento dei servizi segreti nelle stragi di Capaci e via d'Amelio, e riferisce dei contatti fra l'allora colonnello Mario Mori e Vito Ciancimino, attraverso il figlio di lui Massimo al tempo non convocato in dibattimento.Trasferito nel carcere milanese di Opera, viene nuovamente ricoverato nel 2006 all'ospedale San Paolo di Milano, sempre per problemi cardiaci.Nel novembre 2013 trapela la notizia di minacce da parte del Riina nei confronti del magistrato Antonino Di Matteo, il pm che aveva retto l'accusa in numerosi procedimenti penali a suo carico. Il 4 marzo 2014 viene nuovamente ricoverato.
Muore nel carcere di Parma nel novembre 2017.





Il processo per la trattativa Stato-Mafia
Dal carcere di Opera, il 19 luglio 2009, nel ricorrerne l'anniversario, Riina espresse di nuovo la sua posizione secondo cui la strage di via d'Amelio sarebbe da imputare ad altri soggetti e non a lui, nello stesso periodo in cui Massimo Ciancimino annunciò che avrebbe consegnato ai magistrati il “papello”, una sola pagina a firma di Riina che conterrebbe le condizioni poste dalla mafia allo Stato. Tuttavia i legali di Riina smentirono che il loro assistito abbia partecipato a una trattativa fra Stato e mafia:
« Abbiamo parlato della trattativa. Riina sostiene che è stato oggetto e non soggetto di quella trattativa di cui tanto si è discusso in questi anni. Lui sostiene che la trattativa è passata sopra di lui, che l'ha fatta Vito Ciancimino per conto suo e per i suoi affari e insieme ai carabinieri: e che lui, Totò Riina, era al di fuori. Non a caso io, come suo difensore, proprio al processo per le stragi di Firenze già quattro anni fa ho chiesto che venisse ascoltato Massimo Ciancimino in aula proprio sulla trattativa. Riina voleva che Ciancimino deponesse, purtroppo la Corte ha respinto la mia istanza»
Il 24 luglio 2012 la Procura di Palermo, sotto Antonio Ingroia e in riferimento all'indagine sulla Trattativa Stato-Mafia, ha chiesto il rinvio a giudizio di Riina e altri 11 indagati accusati di "concorso esterno in associazione mafiosa" e "violenza o minaccia a corpo politico dello Stato". Gli altri imputati sono i politici Calogero Mannino, Marcello Dell'Utri, gli ufficiali Mario Mori e Giuseppe De Donno, i boss Giovanni Brusca, Leoluca Bagarella, Antonino Cinà e Bernardo Provenzano, il collaboratore di giustizia Massimo Ciancimino (anche "calunnia") e l'ex ministro Nicola Mancino ("falsa testimonianza").

sabato 7 dicembre 2013

CARLO ALBERTO DALLA CHIESA


giovane alberto dalla chiesa

Buscetta: "Nel ' 79 ero in carcere a Cuneo e mi mandarono un' ambasciata perche' parlassi con i terroristi. Volevano sapere se i terroristi avrebbero accettato di rivendicare l' omicidio, in qualunque parte d' Italia, del generale Dalla Chiesa. Circuii un terrorista che era con me, un terrorista importante che aveva partecipato al sequestro Moro. Gli chiesi, nello stile mafioso, che sarebbe stato bello se si ammazzasse Dalla Chiesa. Ma se qualcuno lo ammazzasse voi lo rivendichereste? Mi rispose: "No. Solo se qualcuno di noi partecipa". Mandai questa risposta. Dalla Chiesa rimase vivo". Violante. "Ma nel ' 79 che interesse poteva esserci ad ammazzare il generale Dalla Chiesa?". Buscetta. "Bravo. Se lo spieghi da solo. Io non so spiegarmelo. Fino allora non aveva disturbato nessun mafioso".


Carlo Alberto Dalla Chiesa figlio di un carabiniere (il padre Romano, che partecipò alle campagne del Prefetto Mori, nel 1955 fu nominato vice comandante generale dell'Arma),  nacque a Saluzzo il 27 settembre 1920; entrò nell'Esercito partecipando alla Guerra in Montenegro nel 1941 come sottotenente; divenne ufficiale di complemento di fanteria nel 1942 e nello stesso anno passò all'Arma dei Carabinieri (dove già prestava servizio il fratello Romolo) in servizio permanente effettivo, completando gli studi di giurisprudenza.
giovane alberto dalla chiesaCome primo incarico viene mandato a comandare la caserma di San Benedetto del Tronto, dove rimane fino al giorno dell'armistizio, 8 settembre 1943.A causa del suo rifiuto di collaborare nella caccia ai partigiani, viene inserito nella lista nera dai nazisti, ma riesce a fuggire prima che le SS riesca
no a catturarlo.
Dopo l'armistizio entrò nella Resistenza, operando in clandestinità nelle Marche, dove organizzò i gruppi per fronteggiare i tedeschi. Nel dicembre del 1943 entrò tra le linee nemiche con le truppe alleate, ritrovandosi in una zona d'Italia già liberata. Viene inviato a Roma per seguire gli alleati nel loro ingresso e per provvedere alla sicurezza della Presidenza del Consiglio dei ministri dell'Italia liberata.
Dopo la guerra fu inviato a comandare una tenenza a Bari, dove riesce a conseguire 2 lauree; una in giurisprudenza e l'altra in scienze politiche (per quest'ultima segue i corsi di Laurea tenuti dall'allora docente Aldo Moro). A Bari conosce Dora Fabbo, la ragazza che nel 1945 diventerà sua moglie.
Arriva poi in Campania, avendo per prima destinazione il Comando Compagnia di Casoria (Napoli), dove erano in corso rilevanti operazioni nella lotta al banditismo. Durante la permanenza a Casoria, nasce la figlia Rita. Proprio in questa lotta si distinse e nel 1949 fu, pertanto, inviato in Sicilia, al Comando forze repressione banditismo, agli ordini del colonnello Ugo Luca, formazione interforze costituita per eleminare le bande di criminali nell'isola, come quella del bandito Salvatore Giuliano; qui comandò il Gruppo Squadriglie di Corleone e svolse ruoli importanti e di grande delicatezza come quello di Capo di stato maggiore, meritando peraltro una Medaglia d'Argento al Valor Militare.
Nel novembre del 1949, nasce a Firenze il figlio, Nando Dalla Chiesa. Il 23 ottobre 1952, sempre a Firenze, nasce la terza figlia, Simona dalla Chiesa.
Da Capitano, indagò sulla scomparsa (poi rivelatasi omicidio) del sindacalista Placido Rizzotto, giungendo ad indagare e incriminare l'allora emergente boss della mafia Luciano Liggio. Il posto di Rizzotto sarebbe stato preso da Pio La Torre, che Dalla Chiesa conobbe in tale occasione e che in seguito fu anch'egli ucciso dalla mafia.


Gli incarichi a Milano e Roma
Dopo il periodo in Sicilia, venne trasferito prima a Firenze, successivamente a Como e quindi presso il comando della Brigata di Roma.
Nel 1964 passò al coordinamento del nucleo di polizia giudiziaria presso la Corte d'appello di Milano, che poi unificò e diresse come nuovo gruppo.



Il ritorno in Sicilia
Dal 1966 al 1973 tornò in Sicilia con il grado di colonnello, al comando della legione carabinieri di Palermo. Iniziò particolari indagini per contrastare Cosa Nostra, che nel 1966 e 1967 sembrava aver abbassato i toni dello scontro che si era verificato nei primi anni '60. Nel gennaio 1968 intervenne coi suoi reparti in soccorso delle popolazioni del Belice colpite dal sisma, riportandone una medaglia di bronzo al valor civile per la personale partecipazione "in prima linea" alle operazioni, oltre che la cittadinanza onoraria di Gibellina e Montevago.
Nel 1969 riesplode in maniera evidente lo scontro interno tra le famiglie mafiose con la strage di Viale Lazio, nella quale perse la vita il boss Michele Cavataio. Dalla Chiesa intuì la situazione che andava configurandosi, con scontri violenti per giungere al potere tra elementi mafiosi di una nuova generazione, pronti a lasciare sulla strada cadaveri eccellenti.

generale carlo alberto dalla chiesa

Nel 1970 svolse indagini sulla misteriosa scomparsa del giornalista Mauro De Mauro, il quale poco prima aveva contattato il regista Francesco Rosi, promettendogli materiale, che lasciava intendere scottante, sul caso Mattei. Le indagini furono svolte con ampia collaborazione fra i Carabinieri e la Polizia, sotto la direzione di Boris Giuliano, anch'egli in seguito ucciso dalla mafia mentre iniziava ad intuire le connessioni tra mafia ed alta finanza. Nel 1971 si trova ad indagare sulla morte del procuratore Pietro Scaglione.
Il risultato di queste indagini fu il dossier dei 114 (1974): come conseguenza del dossier, scattarono decine di arresti dei boss e, per coloro i quali non sussisteva la possibilità dell'arresto, scattò il confino.
L'innovazione voluta, però, da Dalla Chiesa fu quella di non mandare i boss al confino nelle periferie delle grandi città del Nord Italia; pretese invece che le destinazioni fossero le isole di Linosa, Asinara e Lampedusa.

In Piemonte, la lotta alle Brigate Rosse
Nel 1973 fu promosso al grado di Generale di Brigata e nel 1974 divenne Comandante della Regione Militare di Nord-Ovest, con giurisdizione su Piemonte, Valle d'Aosta e Liguria.
Si trovò così a dover combattere il crescente numero di episodi di violenza portati avanti dalle Brigate Rosse ed il loro crescente radicarsi negli ambienti operai. Per fare ciò, utilizzò i metodi che già aveva sperimentato in Sicilia, infiltrando alcuni uomini all'interno dei gruppi terroristici al fine di conoscere perfettamente i loro schemi di potere interni.
Nell'aprile del 1974 viene rapito dalle Brigate Rosse il giudice genovese Mario Sossi, con il quale le BR volevano barattare la liberazione di 8 detenuti della Banda 22 ottobre.
Ad Alessandria una rivolta dei detenuti, guidata dal gruppo Pantere Rosse, che aveva preso degli ostaggi, viene stroncata dal Procuratore Generale di Torino, Carlo Reviglio Della Veneria, e dallo stesso Dalla Chiesa, i quali ordinano un intervento armato che si conclude con l’uccisione di due detenuti, di due agenti di custodia, del medico del carcere e di una assistente sociale[senza fonte].
Dopo aver selezionato dieci ufficiali dell'arma, Dalla Chiesa creò nel maggio del 1974 una struttura antiterrorismo, denominata Nucleo Speciale Antiterrorismo, con base a Torino.

carlo alberto dalla chiesa generale

Nel settembre del 1974 il Nucleo riuscì a catturare a Pinerolo Renato Curcio e Alberto Franceschini, esponenti di spicco e fondatori delle Brigate Rosse, grazie anche alla determinante collaborazione di Silvano Girotto, detto "frate mitra".
Nel febbraio del 1975 Curcio riesce ad evadere dal carcere di Casale Monferrato, grazie ad un intervento dei compagni brigatisti, capeggiati dalla moglie dello stesso Curcio, Margherita Cagol.
Sempre nel 1975, i Carabinieri intervennero nel rapimento di Vittorio Gancia, uccidendo nel conflitto a fuoco Margherita Cagol.
Nel 1976 venne sciolto il Nucleo Antiterrorismo, a seguito delle critiche ricevute per i metodi utilizzati nell'infiltrazione degli agenti tra i brigatisti e sulla tempistica dell'arresto di Curcio e Franceschini.
generale carlo alberto dalla chiesaNel 1977 fu nominato Coordinatore del Servizio di Sicurezza degli Istituti di Prevenzione e Pena e, passato al grado di Generale di Divisione, ottenne in seguito (9 agosto 1978) poteri speciali per diretta determinazione governativa e fu nominato Coordinatore delle Forze di Polizia e degli Agenti Informativi per la lotta contro il terrorismo, sorta di reparto operativo speciale alle dirette dipendenze del Ministro dell'Interno Virginio Rognoni, creato con particolare riferimento alla lotta alle Brigate rosse ed alla ricerca degli assassini di Aldo Moro.
La concessione di poteri speciali a Dalla Chiesa fu veduta da taluni come pericolosa o impropria (le sinistre estreme la catalogarono come "atto di repressione").
Dopo la morte di Aldo Moro, Dalla Chiesa decise di stringere il cerchio intorno ai vertici delle Brigate Rosse.
Nel frattempo, nel febbraio del 1978, Dalla Chiesa aveva perso la moglie Dor
a, stroncata in casa a Torino da un infarto. Per il Generale fu un duro colpo, che lo lasciò per qualche tempo nella disperazione e lo costrinse successivamente a dedicarsi completamente alla lotta contro i brigatisti.
In una perquisizione successiva a due arresti (Lauro Azzolini e Nadia Mantovani) in via Montenevoso a Milano, vengono ritrovate alcune carte riguardanti Aldo Moro, tra le quali un presunto memoriale dello stesso Moro.
Nel 1979 viene trasferito nuovamente a Milano per comandare la Divisione Pastrengo sino al dicembre 1981.
Particolarmente importanti furono i successi contro le Brigate Rosse, ottenuti a seguito della sanguinosa irruzione di via Fracchia, e l'arresto di Patrizio Peci (che con le sue rivelazioni contribuì a sconfiggere le BR) e Rocco Micaletto.
Il 16 dicembre 1981 viene promosso Vice Comandante Generale dell'Arma, la massima carica per un ufficiale dei Carabinieri (all'epoca il Comandante Generale dell'Arma doveva necessariamente provenire, per espressa disposizione di legge, dalle fila dell'Esercito). Rimane in tale carica fino al 5 maggio 1982.


Prefetto in Sicilia per combattere Cosa Nostra
Nel 1982 viene nominato dal Consiglio dei Ministri prefetto di Palermo e posto contemporaneamente in congedo dall'Arma. Il tentativo del governo è quello di ottenere contro Cosa Nostra gli stessi risultati brillanti ottenuti contro le Brigate Rosse. Dalla Chiesa inizialmente si dimostrò perplesso su tale nomina, ma venne convinto dal ministro Virginio Rognoni, che gli promise poteri fuori dall'ordinario per contrastare la guerra tra le cosche, che insanguinava l'isola.
Il 12 luglio nella cappella del castello di Ivano-Fracena, in provincia di Trento, sposò in seconde nozze Emanuela Setti Carraro.
A Palermo, dove arrivò ufficialmente nel maggio del 1982, lamentò più volte la carenza di sostegno da parte dello Stato (emblematica la sua amara frase: "Mi mandano in una realtà come Palermo, con gli stessi poteri del prefetto di Forlì").
In una intervista concessa a Giorgio Bocca, il Generale dichiarò ancora una volta la carenza di sostegno e di mezzi, necessari per la lotta alla mafia, che nei suoi piani doveva essere combattuta strada per strada, rendendo palese alla criminalità la massiccia presenza di forze dell'ordine; inoltre nell'intervista Dalla Chiesa dichiarò:
generale carlo alberto dalla chiesa
« Oggi mi colpisce il policentrismo della Mafia, anche in Sicilia, e questa è davvero una svolta storica. È finita la Mafia geograficamente definita della Sicilia occidentale. Oggi la Mafia è forte anche a Catania, anzi da Catania viene alla conquista di Palermo. Con il consenso della Mafia palermitana, le quattro maggiori imprese edili catanesi oggi lavorano a Palermo. Lei crede che potrebbero farlo se dietro non ci fosse una nuova mappa del potere mafioso?»
Tali dichiarazioni provocarono in forma ufficiale il risentimento dei Cavalieri del Lavoro catanesi Carmelo Costanzo, Mario Rendo, Gaetano Graci e Francesco Finocchiaro (i proprietari delle quattro maggiori imprese edili catanesi, alle quali si riferiva Dalla Chiesa) e diedero inizio ad una polemica con l'allora presidente della Regione Mario D'Acquisto, che invitò pubblicamente Dalla Chiesa a specificare il contenuto delle sue dichiarazioni e ad astenersi da tali giudizi qualora tali circostanze non fossero state provate.
Nel luglio del 1982 Dalla Chiesa dispose che il cosiddetto "rapporto dei 162" fosse trasmesso alla Procura di Palermo: tale rapporto portava la «firma congiunta» di polizia e carabinieri e ricostruiva l'organigramma delle Famiglie mafiose palermitane attraverso scrupolose indagini e riscontri.
Per la prima volta, con una telefonata anonima fatta ai carabinieri di Palermo a fine agosto, Cosa Nostra sembrò annunciare l'attentato al Generale, dichiarando che, dopo gli ultimi omicidi di mafia, «l'operazione Carlo Alberto è quasi conclusa, dico quasi conclusa».



L'omicidio
« Qui è morta la speranza dei palermitani onesti. » (Scritta affissa il giorno seguente in prossimità del luogo dell'attentato)

carlo alberto dalla chiesa emanuela setti carraro matrimonio

Alle ore 21.15 del 3 settembre 1982, la A112 bianca sulla quale viaggiava il Prefetto, guidata dalla moglie Emanuela Setti Carraro, fu affiancata, in via Isidoro Carini a Palermo, da una BMW, dalla quale partirono alcune raffiche di Kalashnikov AK-47, che uccisero il Prefetto e la moglie.
omicidio dalla chiesa

omicidio dalla chiesa


Nello stesso momento l'auto con a bordo l'autista e agente di scorta, Domenico Russo, che seguiva la vettura del Prefetto, veniva affiancata da una motocicletta, dalla quale partì un'altra raffica che uccise Russo.
Per i tre omicidi sono stati condannati all'ergastolo come mandanti i vertici di Cosa Nostra: i boss Totò Riina, Bernardo Provenzano, Michele Greco, Pippo Calò, Bernardo Brusca e Nenè Geraci.
Nel 2002 sono stati condannati in primo grado, quali esecutori materiali dell'attentato, Vincenzo Galatolo e Antonino Madonia entrambi all'ergastolo, Francesco Paolo Anzelmo e Calogero Ganci a 14 anni di reclusione ciascuno.
«La moglie di Dalla Chiesa non è stata uccisa da un proiettile vagante. È stata appositamente massacrata. (Perché) era una puttana (...) che aveva sposato un generale (...) Non sono parole mie, ma il commento negli ambienti del carcere era proprio quello (...) Dalla Chiesa fu ucciso perché era un vero rompipalle, uno che dava fastidio. Conduceva un lavoro investigativo serio contro la criminalità organizzata, rompendo le scatole in quasi tutta la Sicilia (...) e quando è stato ammazzato all’interno della nona sezione dell’Ucciardone si è brindato, ma non champagne come hanno scritto i giornali. Abbiamo preso delle buste di vini e qualcuno ha detto: “ubriachiamoci alla faccia di Dalla Chiesa”... Se non si riesce a pensare con una mente malefica, allora non si può capire veramente la crudeltà, quel terribile demone che regna dentro Cosa Nostra» (nel processo per l’omicidio del generale Dalla Chiesa, sua moglie e l’uomo della scorta, vedi RIINA Salvatore).



I funerali e la reazione dell'opinione pubblica
funerali carloalberto dalla chiesa
Il giorno dei suoi funerali, che si tennero nella chiesa palermitana di San Domenico, una grande folla protestò contro le presenze politiche, accusandole di averlo lasciato solo. Vi furono attimi di tensione tra la folla e le autorità, sottoposte a lanci di monetine e insulti al limite dell'aggressione fisica. Solo il Presidente della Repubblica Sandro Pertini venne risparmiato dalla contestazione.
La figlia Rita pretese che fossero immediatamente tolte di mezzo le corone di fiori inviate dalla Regione Siciliana (era presidente Mario D'Acquisto) e volle che sul feretro del padre fossero deposti il tricolore, la sciabola e il berretto della sua divisa da Generale con le relative insegne.
funerali carloalbertodalla chiesaDell'omelia del cardinale Pappalardo, fecero il giro dei telegiornali le seguenti parole (citazione di un passo di Tito Livio), che furono liberatorie per la folla, mentre causarono imbarazzo tra le autorità (il figlio Nando le definì "una frustata per tutti"):
« Mentre a Roma si pensa sul da fare, la città di Sagunto viene espugnata dai nemici [..] e questa volta non è Sagunto, ma Palermo. Povera la nostra Palermo».
Dalla Chiesa fu insignito di medaglia d'oro al valore civile alla memoria.
Il 5 settembre al quotidiano La Sicilia arrivò un'altra telefonata anonima, che annunciò: "L'operazione Carlo Alberto è conclusa".

funerali carlo alberto dalla chiesa generale



Dalla Chiesa, Andreotti e il caso Moro
Dopo il rapimento e l'uccisione di Aldo Moro, in seguito al ritrovamento di un borsello sopra un pullman carabinieri di Dalla Chiesa riuscirono ad individuare un covo delle Brigate appartenente alla colonna Walter Alasia, situato a Milano in Via Monte Nevoso. Ne scaturirono 9 arresti e una serie di perquisizioni, nella quale furono rinvenuti alcuni documenti riguardanti il rapimento di Moro ed un memoriale dello stesso.
Nel 1990, durante alcuni lavori, furono rinvenuti nell'appartamento di via Monte Nevoso altri documenti riguardanti Moro, nascosti in un doppio fondo di una parete. Seguirono alcune polemiche sulle circostanze in cui nel 1978 i carabinieri avevano condotto l'inchiesta e le perquisizioni.
Il memoriale di Moro sarebbe stato consegnato da Dalla Chiesa a Giulio Andreotti, a causa delle informazioni contenute al suo interno. Secondo la madre di Emanuela Setti Carraro, la figlia le avrebbe confidato che il Generale non consegnò ad Andreotti tutte le carte rinvenute, e che nelle stesse fossero indicati segreti estremamente gravi.
Il giornalista Mino Pecorelli, amico di Dalla Chiesa, aveva dichiarato che di memoriali ne erano stati rinvenuti diversi e che le rivelazioni contenute all'interno fossero collegate alle responsabilità politiche del sequestro Moro. Pochi giorni dopo aver dichiarato di voler pubblicare integralmente uno degli stessi sulla sua rivista Op venne ucciso.
Secondo la sorella del giornalista, Dalla Chiesa aveva incontrato Pecorelli pochi giorni prima che venisse ucciso ed il Generale aveva confidato al giornalista alcune importanti informazioni sul caso Moro, consegnandogli documenti riguardanti il ruolo di Giulio Andreotti. Secondo il collaboratore di giustizia Tommaso Buscetta, Pecorelli e Dalla Chiesa erano a conoscenza di segreti sul sequestro Moro che infastidivano Andreotti; Buscetta inoltre affermò che il boss Gaetano Badalamenti gli disse:
« [Dalla Chiesa] Lo hanno mandato a Palermo per sbarazzarsi di lui. Non aveva fatto ancora niente in Sicilia che potesse giustificare questo grande odio contro di lui »
Nel 2000 un consulente della Commissione Parlamentare d'inchiesta affermò che, a suo giudizio, i carabinieri avessero falsificato la realtà, omettendo di descrivere le modalità di ritrovamento del borsello, impiegando troppo tempo ad effettuare il blitz (il borsello fu ritrovato a fine agosto, il blitz venne fatto ad ottobre) e ipotizzando che la perdita del borsello da parte di Walter Azzolini non fosse stata casuale, ma un'azione che potrebbe far nascere sospetti sul suo reale ruolo in seno alle Brigate Rosse. Tali affermazioni hanno suscitato la reazione di Nando Dalla Chiesa e dei magistrati Pomarici e Spataro, in difesa dei carabinieri che condussero l'indagine, la cui unica lacuna fu di non aver individuato il doppio fondo nel muro.
Inoltre, nel suo diario personale, Dalla Chiesa racconta che ebbe un colloquio con Andreotti il 5 aprile 1982, poco tempo prima di insediarsi come Prefetto di Palermo, nel quale gli disse chiaramente che non avrebbe avuto riguardi per quella parte di elettorato mafioso, alla quale attingevano gli uomini della sua corrente in Sicilia; e successivamente aveva definito la corrente andreottiana a Palermo «la famiglia politica più inquinata del luogo», aggiungendo che gli andreottiani erano fortemente compromessi con Cosa Nostra. Andreotti però negò questa circostanza, sostenendo che Dalla Chiesa sicuramente lo confondeva con altre persone che incontrava in quel periodo.