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martedì 4 dicembre 2018

TONY CHICHIARELLI - Il Principe dei Falsari.

toni chicchiarelli

Tony Chichiarelli




1984 La morte

1984 sono le 3 di notte, in via Martini, quartiere Talenti, a due passi da viale Jonio, Chicchiarelli rincasa a bordo della sua Mercedes 190, insieme alla compagna ventunenne Cristina ed al figlioletto di appena un mese  sul sedile posteriore dell'auto.

Ha appena abbandonato una cena, ai commensali dice che il cappellano di Regina Coeli lo deve far entrare di nascosto per parlare con qualcuno.

Arrivato a casa un anonimo assassino attende che la compagna di Chichiarelli scenda dall'auto per aprire il portone di casa e le spara a bruciapelo un colpo con una pistola munita di silenziatore.

La pallottola trapassa un occhio della vittima ed esce dalla parte posteriore del cranio.

La donna viene raggiunta all'occhio sinistro, braccio ed avambraccio destro dai colpi d'una pistola calibro sei e trentacinque e s'accascia priva di conoscenza accanto allo sportello aperto della Mercedes 190.

Chichiarelli allora scende di corsa dall'auto all'inseguimento dell'assassino, ma questi ad un certo punto si volta e gli scarica addosso l'intero caricatore della pistola: prima lo colpisce due volte al torace, Chichiarelli fugge ma il killer lo raggiunge nell'attigua via Landini e lo finisce con due colpi alla testa.

Al rumore degli spari, due metronotte, si precipitano fuori e si danno all'inseguimento dello sparatore, un giovane"di piccola statura, poco più d' un metro e sessanta, con indosso calzoni jeans ed un giubbetto forse di colore verde".

La ragazza si salva, ma Chichiarelli muore, a trentasei anni, alle sette del mattino, senza avere ripreso conoscenza.

Muore dopo alcune ore all'ospedale, nella prima mattina del 28 settembre; lo sparatore che lo ha centrato con sette colpi su dieci, un vero professionista ingaggiato da ignoti era l'esecutore di un tipico "regolamento di conti".

Il primo mistero di quest'omicidio riguarda l'identità del vero bersaglio dell'agguato. Sembra probabile che non fosse Chichiarelli il vero obiettivo, ma la sua compagna.

Un'intimidazione che ebbe un esito non previsto: l'assassino spara a Chichiarelli solo dopo che questi aveva iniziato ad inseguirlo.

La tipologia dell'agguato, inoltre, sembrerebbe esser riconducibile sia ad un regolamento di conti tra malavitosi, che ad un'intimidazione tipica della guerra di spie.

A parte la dinamica dell'omicidio, anche la mancata autopsia sul cadavere non permise di appurare dati assai importanti concernenti il calibro dei proiettili.

Ma i misteri più fitti emersero in seguito alla morte del falsario.

A casa di Tony vengono reperite due rivoltelle calibro 38 special con matricola abrasa e, dentro un contenitore di pellicole fotografiche, un cartoccetto di polvere bianca.

All'interno della cassaforte giacciono 37 milioni in contanti, gioielli e oggetti di grande valore ed una videocassetta.

Vi era registrato lo "Speciale Tg1" sulla rapina alla Brink' s Securmark di soli sei mesi prima.

Vennero pure trovate delle fotografie "Polaroid". In esse era ritratto Aldo Moro vivo nella "Prigione del Popolo" brigatista.

La vita

Danilo Abbruciati
Antonio Giuseppe Chichiarelli, soprannominato Tony, nasce il 16 gennaio 1948 a Rosciolo, frazione di Magliano dei Marsi (AQ), un paese dell'Abruzzo arroccato sugli Appennini.

Nel 1951 rimane orfano di madre, dopo le medie, nel 1962 lascia la scuola dove l'unica passione è per il dipinto.

Nel 1968/1969 espletò il servizio di leva nel corpo degli Alpini. Una volta congedatosi, partì per Roma.

Nel 1970 fu arrestato dalle Forze dell'Ordine per possesso di pistole e mitra, ma venne rilasciato quasi immediatamente.

I primi anni nella capitale furono anni difficili furti, scippi, truffe e ricettazione gli consentirono di avere auto, moto e donne, ma anche i primi guai con la legge, venendo arrestato due volte.

Inoltre, nel 1976, simpatizzando per l'estrema sinistra gravitò nell'ambito dell'Autonomia capitolina.

Nel corso della seconda carcerazione, a Regina Coeli, divenne molto amico di uno dei futuri capi della Banda della Magliana, Danilo Abbruciati, implicato nello spaccio di droga e nel giro delle rapine, e con contatti con l'estremismo di destra e con la Mafia.


La banda della Magliana

Tramite Abbruciati, Tony fece la conoscenza con il rappresentante di Cosa Nostra nella capitale, Pippo Calò, e col Clan dei marsigliesi, che – a quel tempo – si dividevano il mercato della droga nella capitale.

Anche Flavio Carboni ed agenti dei servizi segreti erano in contatto con Abbruciati e per suo tramite con Chichiarelli.

Pippo Calò
Nel corso del 1977 incontrò Chiara Zossolo, che possedeva una galleria d'arte a Trastevere e che lo introdusse nel mercato dell'arte, in cui cominciò a realizzare e vendere Falsi d'autore.

In quell'anno aprì un negozio di mobili ed attrezzature per l'ufficio: proprio dal suo negozio uscì la macchina da scrivere con cui fu redatto il falso comunicato n. 7 delle Brigate Rosse durante il rapimento di Aldo Moro.

Nel gennaio del 1978, Tony prese in affitto, per una cifra allora assai elevata (950.000 lire mensili) una lussuosa villa in Viale Sudafrica, nell'esclusivo quartiere dell'EUR, dove andò a vivere con Chiara, che di lì a poco divenne sua moglie.

Nonostante le sue simpatie politiche per la sinistra extraparlamentare, Tony, in qualità di componente della Banda della Magliana (legata a filo doppio con i NAR), non esitò a frequentare terroristi di stampo neofascista quali Francesca Mambro e suo marito Giuseppe Valerio Fioravanti, Alessandro Alibrandi, Massimo Sparti, Massimo Carminati ed altri esponenti di spicco dell'eversione di destra. Tramite la moglie, Tony fece pure la conoscenza di un trafficante di materiale tecnologico con la Libia, nonché informatore dei Carabinieri, tal Luciano Dal Bello.

Dal Bello, divenuto amico di Tony, stilò un rapporto su di lui, mettendolo nel contempo in contatto con elementi del tentato Golpe Borghese, soprattutto con un informatore della Polizia, tal Giacomo Comacchio.

1978 il caso Moro

I cinque processi del Caso Moro hanno accertato che fu lui a confezionare il falso comunicato numero sette delle Brigate Rosse ("Il comunicato del Lago della Duchessa", fingendo che fosse stato composto dalle Brigate Rosse) durante i 55 giorni del sequestro, ma non venne mai accertato chi fu a commissionarglielo.

Tony fu certamente a conoscenza dei tentativi di giungere a una conclusione positiva del rapimento di Moro: lo Stato incaricò i Servizi Segreti nella persona di Enzo Casillo di trattare con Raffaele Cutolo quale intermediario per giungere alla prigione di Moro grazie all'aiuto della Banda della Magliana e, forse, fu a conoscenza dell'informazione data ad un altro esponente dei Servizi Segreti, Antonio La Bruna, circa l'esatta localizzazione del covo brigatista di Via Gradoli.

Aldo Moro
Martedì 18 aprile 1978 alle ore 09.25 a.m., alla redazione de Il Messaggero, una telefonata anonima annuncia che in un cestino di rifiuti di piazza Gioacchino Belli a Roma è nascosta una copia del comunicato n. 7 delle Brigate Rosse.

È una fotocopia di un comunicato numero 7 che annuncia l'avvenuta esecuzione di Moro, il cui corpo si troverebbe nel lago della Duchessa. I Brigatisti generalmente lasciano dei ciclostilati.

Il messaggio si presenta subito con caratteristiche completamente diverse dai precedenti: è molto breve, ironico e ha al suo interno diversi errori di ortografia.

Non ci sono gli immancabili slogan conclusivi, l'intestazione "Brigate rosse" è scritta a mano. Nonostante ciò la relazione degli esperti garantisce l'autenticità del comunicato.

L'Italia conosce il dramma della avvenuta esecuzione, e apprende che "il corpo del Presidente è nei fondali del Lago della Duchessa", in Abruzzo.

L'autore di quel falso è Tony Chichiarelli, che ne parla agli amici nel suo piccolo laboratorio dove continua a riprodurre qualunque cosa, soprattutto i suoi quadri.

Chi gli ha commissionato il falso comunicato aveva certamente uno scopo che appare ancor oggi ignoto e neppure è dato conoscere quale fosse il messaggio trasversale che tale comunicato volesse lanciare.

Chichiarelli era stato pure l'artefice di altri documenti e materiali di provenienza apparentemente brigatista, ma in realtà apocrifi, fatti ritrovare a Roma in quattro occasioni diverse, tutte successive alla conclusione della vicenda Moro: la prima delle quali il 20 maggio 1978, altre due nel 1979, e l'ultima il 17 novembre 1980. 

Falso comunicato N° 7:


«Oggi 18 aprile 1978, si conclude il periodo "dittatoriale" della DC che per ben trent'anni ha tristemente dominato con la logica del sopruso. In concomitanza con questa data comunichiamo l'avvenuta esecuzione del presidente della DC Aldo Moro, mediante "suicidio".

Consentiamo il recupero della salma, fornendo l'esatto luogo ove egli giace.

La salma di Aldo Moro è immersa nei fondali limacciosi (ecco perché si dichiarava impantanato) del lago Duchessa, alt. mt. 1800 circa località Cartore (RI) zona confinante tra Abruzzo e Lazio.

È soltanto l'inizio di una lunga serie di "suicidi": il "suicidio non deve essere soltanto una "prerogativa" del gruppo Baader Meinhof.


Inizino a tremare per le loro malefatte i vari Cossiga, Andreotti, Taviani e tutti coloro i quali sostengono il regime. P.S. - Rammentiamo ai vari Sossi, Barbaro, Corsi, ecc. che sono sempre sottoposti a libertà "vigilata". 18/4/1978 Per il Comunismo Brigate Rosse'.»

Pecorelli

Carmine Pecorelli fu il direttore di un'agenzia di stampa specializzata nella divulgazione degli scandali politici durante gli anni settanta, Osservatorio Politico (OP).

La sera del 20 marzo 1979 fu ucciso all'interno della sua automobile, nel quartiere Prati di Roma, in via Tacito, poco lontano dalla redazione del suo giornale, con quattro colpi di una pistola calibro 7,65.
I proiettili trovati nel suo corpo sono molto particolari, della marca Gevelot, assai rari sul mercato, anche clandestino, ma dello stesso tipo di quelli che sarebbero poi stati trovati nell'arsenale della Banda della Magliana nascosto nei sotterranei del Ministero della sanità, arsenale a cui attingevano pure i terroristi neofascisti dei NAR.

Omicidio Pecorelli
Chichiarelli fu l'uomo che qualche tempo dopo il delitto Pecorelli confezionò e fece trovare in un taxi romano una serie di false "schede brigatiste" a carico di personaggi pubblici, insieme a oggetti che riportavano ai misteri del sequestro Moro (come una testina rotante IBM da macchina per scrivere, simile a quella usata per stilare i comunicati dei terroristi).

Circa un anno dopo l’uccisione di Aldo Moro, il 14 aprile del 1979, tre ragazzi americani trovano, sul sedile posteriore di un taxi, un borsello da uomo e lo consegnano al comandante del reparto operativo dei Carabinieri di Roma, colonnello Antonio Cornacchia.

Il borsello, contiene una pistola con la matricola abrasa, undici munizioni calibro 7,65 e una di grosso calibro (Moro era stato assassinato con dodici colpi di arma da fuoco, di cui undici di piccolo ed uno di grosso calibro), una testina rotante per macchina da scrivere marca IBM, la stessa usata dalle BR nei vari comunicati diramati durante il sequestro, un mazzo contenete nove chiavi, nove come il numero dei membri del commando che rapì Moro e uccise la sua scorta, due flash marca Silvana, come quelli usati nelle uniche due foto polaroid scattate durante il sequestro, un pacchetto di fazzoletti marca Paloma, come quelli usati per tamponare le ferite di Moro e ritrovati sul suo cadavere, una carta stradale con indicato il Lago della Duchessa, una bustina contenente delle pillole come quelle che i medici avevano prescritto a Moro, delle pagine dell’elenco del telefono relative ad alcuni ministeri, con su scritte le cifre di un codice numerico, analogo a quello usato nel comunicato in codice numero uno, e quattro schede di cui la prima contenente un piano per l’eliminazione delle guardie del corpo del presidente della Camera Pietro Ingrao, un’altra riguardante il piano per l’eliminazione del procuratore della Repubblica di Roma Achille Gallucci, incluso il numero di telefono di casa della vittima risalente agli anni sessanta, la terza indicante il piano per il rapimento del presidente dell’ordine degli avvocati di Roma Giuseppe Prisco di Milano, ed in ultimo un piano per l’eliminazione del giornalista Mino Pecorelli, ucciso il 20 marzo 1979, 25 giorni prima del ritrovamento del borsello.

Nella scheda relativa a Pecorelli oltre alla scritta “da eliminare”era annotato l’indirizzo della sua abitazione, il tipo ed il colore della sua auto, inclusa la targa.

Nella scheda veniva anche specificato di agire entro e non oltre il 24 marzo, aggiungendo che l’avergli concesso ulteriore tempo avrebbe creato altri problemi.
Si specificava inoltre di non rivendicare assolutamente l’omicidio, ma al contrario veniva sottolineata l’esigenza di depistare.

In fondo alla scheda compariva la scritta: “Martedì 20 ore 21:40 giunta notizia operazione conclusa positivamente: recuperato materiale non completo, sprovvisto dei paragrafi 162, 168, 174, 177”.

Probabilmente i paragrafi a cui si fa riferimento sono quelli del memoriale scritto da Aldo Moro durante i 55 giorni di prigionia, in possesso delle BR, di cui risulta ne avessero fatto anche una fotocopia.
Come sappiamo il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, su indicazione di Giulio Andreotti, aveva fatto in modo attraverso un suo uomo di fare sparire il memoriale dal covo di via Montalcini a Roma prima dell’arrivo dei magistrati.

Secondo la testimonianza dei pentiti della Banda della Magliana, Chichiarelli aveva affermato di esser deluso per la magra ricompensa ai suoi servizi resi durante la prigionia di Moro.

Chiara Zossolo riferì alla Corte perugina un suo ricordo del 1981: al Senato era in corso la polemica sulla famosa cena al ristorante "la Famjia piemonteisa", nel corso del quale il senatore Claudio Vitalone e altri personaggi dell'entourage andreottiano avevano offerto soldi a Pecorelli perché cessasse di attaccare Andreotti sul suo giornale, "OP".

Commentando quel fatto, Chichiarelli spiegò di conoscere il vero motivo della morte del giornalista: "Pecorelli - disse l'uomo alla moglie - è stato ucciso perché aveva appurato delle cose sul sequestro Moro: era un brav'uomo e non meritava purtroppo di morire".

A rendere ancora più pesante questo riscontro è una seconda deposizione, resa dalla testimone Franca Mangiavacca, segretaria e ultima compagna di Pecorelli.

La signora Mangiavacca ha infatti riconosciuto, in mezzo a decine di fotografie, quella di Chichiarelli.

È lui l'uomo che ha pedinato lei e Pecorelli nei giorni precedenti all'omicidio del giornalista.

Riassumendo, i giudici hanno stabilito con sufficiente certezza che Chichiarelli, poi a sua volta assassinato, partecipò alla fase di preparazione del delitto Pecorelli.

Chichiarelli dice alla moglie di conoscere il motivo per cui il giornalista è stato ucciso, e questo motivo è lo stesso indicato molti anni dopo da Buscetta.

Da qualche altra menzione, infine, sembra accertato che Chichiarelli fosse a conoscenza della fine di Mauro De Mauro, da mettersi in relazione col fallito Golpe Borghese e dal fatto che, ad organizzare quel tentativo di putsch, fossero stati i servizi segreti, come - peraltro - indica anche il colonnello Amos Spiazzi.

L'indagine aperta all'indomani del delitto Pecorelli coinvolse nomi come Massimo Carminati (esponente dei Nuclei Armati Rivoluzionari e della Banda della Magliana), Licio Gelli, Antonio Viezzer, Cristiano e Valerio Fioravanti, tutti poi prosciolti il 15 novembre 1991.

Secondo le rivelazioni di Buscetta, dal "caso Pecorelli" si passa al caso del cosiddetto memoriale Moro nelle due versioni: quella "censurata", trovata nel 1978, e quella integrale rinvenuta soltanto nel 1990.

È probabile, secondo i magistrati, che il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa abbia avuto tra le mani, fin dal 1978, la versione integrale.

Ed è altrettanto probabile che Dalla Chiesa e Pecorelli si siano incontrati almeno due volte dopo il rinvenimento del primo memoriale.

Dalla Chiesa
Terza cosa - certa - è che Pecorelli sapeva bene che il memoriale pubblicato dai giornali è monco:
"La lettura del testo del memoriale Moro - scrive su "OP" Pecorelli il 24 ottobre 1978, due settimane dopo il ritrovamento da parte degli uomini di dalla Chiesa - ha già sollevato dubbi sulla sua integrità. Esiste infine un altro memoriale in cui Moro sveli importanti segreti di Stato?".


Articoli sgraditi anche perché nei successivi numeri di "OP" Pecorelli comincia a pubblicare notizie e documenti esclusivi proprio su quegli argomenti - scandalo Italcasse, caso Sindona, riferimenti velati all'operazione Gladio - che sono contenuti nel memoriale integrale, quello che diventerà pubblico solo nel 1990. Ancora poco chiaro è il nome di colui che passò a Pecorelli queste notizie.

Come ignoto è il nominativo di colui che passò a Pecorelli la notizia, in anteprima, che il messaggio del Lago della Duchessa fosse un falso creato ad arte.

1984 La rapina del secolo

La sede romana della Brink's Securmark, società di trasporto valori, si trova al chilometro 9.600 della statale Aurelia. Negli anni settanta, uno degli azionisti della società era il bancarottiere Michele Sindona.

A posteriori, in tribunale, la moglie Chiara Zossolo indicherà che fu Tony a progettare una delle più grandi rapine avvenute in Italia, quella dei 35 miliardi di lire sottratti nel caveau della Brink's Securmark.

Un colpo magistrale, addirittura fin troppo facile, a detta degli inquirenti. Non è certo che Tony avesse cooperato con gli altri colleghi della Banda della Magliana.


identikit rapinatori  della briks a destra Chichiarelli


Pare che gli altri appartenenti alla banda non parlassero con un accento romano (tipico dei membri della Banda della Magliana), bensì piemontese.

Appare certo che esistessero almeno un paio di basisti appartenenti all'istituto vittima del furto, un dipendente ed un ex-dipendente.

Michel Sindona
Inoltre, le indagini hanno appurato che Chichiarelli avesse compiuto un sopralluogo qualche settimana prima del fatto addirittura entro il perimetro della banca, dopo l'orario di chiusura.

Circa la banca, Chichiarelli conosceva la planimetria in modo dettagliato, così come i turni di sorveglianza ed i nominativi delle guardie.

Per la riuscita del colpo, inoltre, aveva utilizzato un furgone in tutto simile a quello di proprietà della banca, di cui conosceva accuratamente e specificamente ogni movimento.

La Brink's Securmark non era propriamente una banca, bensì si trattava di un deposito che faceva capo a una catena bancaria di Michele Sindona.

La sera del 23 marzo 1984, un sabato, quattro uomini con il volto coperto da maschere, prelevano, verso l'ora di chiusura, una delle guardie giurate, Franco Parsi, al momento di rincasare.

Il custode avrebbe dovuto iniziare il nuovo turno soltanto la mattina di lunedì 25 marzo, due giorni dopo.

Lo condussero a casa, dicendo a lui ed ai famigliari di essere un commando delle Brigate Rosse.

Lo tennero in ostaggio fino all'alba della mattina successiva insieme alla moglie, alla suocera ed ai figli.

Poi uno dei rapinatori rimase nell'abitazione per tenere a bada i familiari, virtualmente degli ostaggi veri e propri, mentre gli altri tre condussero la guardia giurata, che aveva le chiavi, al caveau della banca, dove disarmarono altri due agenti e senza sparare un colpo portarono via denaro liquido, traveller's cheque, oro e preziosi per una cifra astronomica, che fu stimata intorno a 35-37 miliardi (stima fatta dalla banca stessa, che stanziò due miliardi di ricompensa a chi avesse fornito informazioni utili al recupero della refurtiva).

Chichiarelli, invece, parlò alla compagna di almeno 50-55 miliardi, di cui due dati ai basisti ed altri venti ceduti ai complici con cui aveva condotto in porto l'impresa.

In pratica, almeno 30 miliardi erano tutti per il solo Chichiarelli.

Non fu una rapina qualsiasi: sul bancone gli ignoti lasciarono una serie di oggetti che stavano simbolicamente a rappresentare il vero significato dell'impresa.

Una granata Energa, sette proiettili calibro 7,62, sette piccole catene e sette chiavi. La bomba Energa era dello stesso tipo usata durante l'agguato al colonnello Varisco (il tenente colonnello Antonio Varisco, comandante del nucleo dei carabinieri del Tribunale di Roma, venne ucciso dalle Brigate Rosse il 13 luglio 1979) e proveniva dall'armeria di via List.

Le sette chiavi e le sette catene furono lette come un chiaro riferimento al falso comunicato delle Brigate Rosse sul lago della Duchessa, mentre i sette proiettili calibro 7,62 riportano all'omicidio di Mino Pecorelli, e c'erano anche le cinque schede, identiche a quelle ritrovate dentro il borsello abbandonato nel taxi da Tony Chichiarelli all'epoca dell'omicidio del giornalista: gli oggetti lasciati intenzionalmente sul luogo della rapina facevano così affiorare lo stretto collegamento tra la fine del direttore di OP e il rapimento e la morte di Aldo Moro.

Furono lasciati anche falsi volantini di rivendicazione brigatista della rapina e le immancabili foto Polaroid scattate ai guardiani legati con, sullo sfondo, il drappo raffigurante la stella, emblema del gruppo terroristico.

A differenza di quanto avvenne per il falso comunicato del Lago della Duchessa, in questa occasione gli specialisti riconobbero immediatamente come falsi sia i volantini di rivendicazione, che le fotografie.

Dopo la rapina miliardaria alla Brink's Securmark del 1984, nella quale pare fosse il capo del commando, Chichiarelli iniziò ad investire il frutto della rapina nel mercato immobiliare ed in quello degli stupefacenti.

Egli venne ucciso sei mesi più tardi, a fine settembre di quell'anno, in circostanze mai chiarite.




Le varie ipotesi sul suo omicidio


  • Una vendetta della malavita per il florido commercio di stupefacenti nel frattempo avviato dal falsario.
  • Un regolamento di conti all'interno della malavita (la banca rapinata era collegata all'impero di Michele Sindona).
  • Una "eliminazione preventiva" ad opera dei servizi segreti, essendo il Chichiarelli un personaggio poco discreto, come accertato in aula giudiziaria dalle testimonianza della moglie, della compagna e dei conoscenti.
  • Uno sgarro ai suoi compagni della Banda della Magliana nel caso la rapina fosse stata compiuta da esponenti non appartenenti alla banda stessa, oppure, qualora i proventi della rapina non fossero stati divisi con gli appartenenti alla banda medesima, in base al patto di sangue che legava i componenti dell'associazione criminale.
  • Una eliminazione volta allo scopo di recuperare i documenti compromettenti stipati nel caveau della Brink's Securmark, tra i quali le famose polaroid che ritraevano Aldo Moro vivo nel carcere brigatista: al processo infatti fu avanzata l'ipotesi che il falsario rapinatore non avesse rispettato i patti coi servizi segreti, intenti a recuperare quello scottante materiale, alla base, fu detto, del vero movente della rapina stessa.
Sull'ultimo punto da sottolineare come i complici di Chichiarelli dichiareranno che sembrava più interessato ai documenti che ai soldi.




Luigi Cipriani, Intervento in Commissione stragi sull'affare Moro 15 aprile 1992. 
Allegato alla relazione finale del gruppo sui ritrovamenti di via Montenevoso.


"Signor presidente, concordo con la relazione presentata dal gruppo di lavoro sul caso Moro.

Vorrei però che fossero allegate alcune integrazioni su elementi accennati nella relazione, ma che sono a mio avviso molto importanti, per cui andrebbero ulteriormente ampliati.

Uno di questi riguarda la vicenda Toni Chichiarelli. Toni Chichiarelli è un personaggio romano legato alla banda della Magliana, con tutto ciò che ne consegue: conosciamo infatti i collegamenti della banda della Magliana con la mafia, con la destra eversiva, con i servizi segreti. Toni Chichiarelli era in contatto con un informatore, un agente del Sisde, tale Dal Bello, un personaggio di crocevia tra la malavita romana in collegamento con i servizi segreti e la banda della Magliana.

Toni Chichiarelli interviene nella vicenda Moro dimostrando di essere un personaggio assai addentro alla vicenda stessa (questo è quanto scrive il giudice Monastero che ha condotto l'istruttoria sull'assassinio di Toni Chichiarelli), come dimostrano due episodi.

Il primo, che è stato chiarito, è il seguente: Toni Chichiarelli è l'autore del comunicato n.7, il falso comunicato del Lago della Duchessa; ed è anche l'autore del comunicato n.1 in codice, firmato Brigate rosse-cellula Roma sud.

Toni Chichiarelli fece trovare un borsello sul taxi; all'interno di questo borsello erano contenuti alcuni oggetti che facevano capire che lui conosceva dal di dentro la vicenda Moro.

Fece trovare infatti nove proiettili calibro 7,65 Nato, una pistola Beretta calibro 9 (e si sa che Moro è stato ucciso da undici colpi, dieci di calibro 7,65 e uno di calibro nove); fece trovare dei fazzolettini di carta marca Paloma, gli stessi che furono trovati sul cadavere di Moro per tamponare le ferite; fece trovare quindi una serie di messaggi in codice, e una serie di indirizzi romani sottolineati; fece trovare dei medicinali e anche un pacchetto di sigarette, quelle che normalmente fumava l'onorevole Moro; inoltre un messaggio con le copie di schede di cui farà ritrovare poi l'originale in un secondo episodio.

Vi è un secondo aspetto.

Dopo la rapina della Securmark, ad opera della banda della Magliana con Toni Chichiarelli come mente direttiva, quest'ultimo fa trovare -lo scrive il giudice Monastero- una busta contenente un altro messaggio con gli originali di quattro schede riguardanti Ingrao ed altri personaggi.

Questa volta, come dicevo, ci sono gli originali: si tratta di schede relative ad azioni che erano state programmate e previste; fa trovare però anche un volantino falso di rivendicazione delle Brigate rosse.

Il giudice poi scrive: "Si rinveniva una foto Polaroid dell'onorevole Moro apparentemente scattata durante il sequestro".

Viene eseguita una perizia di questa foto, e si rileva che non si tratta di un fotomontaggio.

Come sappiamo, delle Polaroid non si fanno i negativi; è quindi una foto originale di Moro in prigione che Chichiarelli, dopo l'episodio del borsello, fa ritrovare in questo secondo messaggio, con le schede originali che riguardano Pietro Ingrao, Gallucci, il giornalista Mino Pecorelli, che sarà in seguito ucciso, e l'avvocato Prisco. 

Sulla scheda riguardante l'avvocato Prisco si parlava di questo famoso gruppo Mauro. Anche nel documento della registrazione che il Sisde ha fatto avere ai magistrati, si parla del gruppo Mauro che operava nella zona di Fiumicino e avrebbe dovuto avere in sequestro l'onorevole Moro.

In sostanza emerge il famoso elemento di cui si è sempre parlato, ossia come la gestione del rapimento Moro abbia avuto due fasi; e la seconda fase è confluita nel ruolo giocato dalla banda della Magliana, all'interno della quale conosciamo la parte che hanno sempre svolto i servizi segreti e la mafia.

La vicenda Chichiarelli è quindi centrale all'interno del sequestro Moro, ma i magistrati non l'hanno mai approfondita, sia perché nel Moro-quater si è prestato fede a tutto quello che ha detto Morucci e non si è quindi voluti entrare nel merito di altri aspetti, sia perché il giudice Monastero ha dovuto archiviare ed ha lasciato in sospeso tutte queste parti, perché non erano di sua competenza.

Tuttavia, egli ha fatto delle affermazioni molto precise sul ruolo svolto da Toni Chichiarelli all'interno della vicenda Moro. Vorrei perciò che quanto ho detto fosse allegato alla relazione, perché ritengo che sviluppando questa tematica si capirà molto meglio cosa è accaduto nel rapimento Moro.




venerdì 24 aprile 2015

FRANCESCO DI CARLO

roberto calvi

Francesco Di Carlo (Altofonte, 18 febbraio 1941) ex Cosa Nostra diventato collaboratore di giustizia nel 1996; è entrato in relazione con la famiglia mafiosa di Altofonte negli anni 60.
Divenne capo famiglia a metà degli anni 1970. Altofonte era parte del mandamento di San Giuseppe Jato, guidato da Antonio Salamone e Bernardo Brusca. Secondo il pentito Giuseppe Marchese, Di Carlo era un mafioso influente e un trafficante di droga connesso con i Corleonesi.
Il 24 aprile 2014 è apparso, a volto coperto, per la prima volta in televisione, intervistato a Servizio Pubblico Più da Sandro Ruotolo sui rapporti con Silvio Berlusconi e Marcello Dell'Utri.
Di Carlo è stato espulso da Cosa Nostra per un conflitto riguardo ad un carico di eroina perduto o una consegna di hashish non pagata. Grazie ai suoi utili servizi alla mafia non è stato ucciso, ma ha dovuto lasciare l'Italia. Si è trasferito a Londra. Suo fratello Andrea Di Carlo lo sostituì a capo della famiglia mafiosa e divenne un membro della Commissione.
Secondo Di Carlo è stato espulso nel 1982 perché si era rifiutato di tradire alcuni membri del clan Cuntrera-Caruana (Pasquale Cuntrera e Alfonso Caruana) durante la guerra di mafia nella provincia di Agrigento.

Traffico di droga

Nel Regno Unito Di Carlo ha trafficato hashish ed eroina. Ha comprato una villa a Woking, Surrey, e si è alleato ad Alfonso Caruana. Ha comprato un hotel, agenzie di viaggio e compagnie import-export per agevolare il contrabbando.
Nel giugno del 1985 la polizia trovò 58 chili di eroina in una consegna. Venne arrestato insieme ad altre tre persone. Nel marzo del 1987 è stato condannato a 25 anni di prigione per traffico di eroina. Il fratello di Alfonso Caruana, Gerlando Caruana venne condannato in Canada.

Il pentimento
Nel giugno del 1996 Di Carlo decise di collaborare con le autorità italiane. Venne trasferito dalla sua prigione del Regno Unito a Roma. Venne considerato come il "nuovo Tommaso Buscetta". Di Carlo fece i nomi di molti politici come membri di Cosa Nostra, tra gli altri: Bernardo Mattarella, il precedente presidente della Sicilia Giovanni Provenzano e Giovanni Musotto, padre di Francesco Musotto, il precedente presidente della provincia di Palermo che era stato accusato di associazione mafiosa.
Testimoniò anche a proposito dell'omicidio del giornalista Mauro De Mauro, che era stato rapito e ucciso dalla mafia nel 1970. Nel 2001 disse che era stato ucciso perché aveva appreso che uno dei suoi vecchi amici, il principe Junio Valerio Borghese, stava pianificando un colpo di Stato (il cosiddetto Golpe Borghese ) per fermare quella che era considerata la svolta a sinistra dell'Italia.


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Coinvolgimento nell'omicidio di Roberto Calvi
Nel luglio del 1991 il pentito Francesco Marino Mannoia affermò che Di Carlo aveva ucciso Roberto Calvi, soprannominato "il banchiere di Dio" per il suo incarico al Banco Ambrosiano. Calvi sarebbe stato ucciso perché avrebbe perso i fondi della mafia quando il Banco Ambrosiano era collassato. L'ordine di uccidere Calvi sarebbe provenuto dal boss mafioso Giuseppe Calò.
Quando Di Carlo divenne un testimone nel giugno del 1996 negò di essere l'assassino, ma ammise che Calò gli aveva chiesto di uccidere Calvi. Comunque, Di Carlo non poteva essere raggiunto in tempo, e quando successivamente chiamò Calò, quest'ultimo gli disse che si erano già organizzati diversamente. Secondo Di Carlo, gli assassini erano Vincenzo Casillo e Sergio Vaccari, che apparteneva alla Camorra di Napoli ed era stato ucciso.




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venerdì 12 dicembre 2014

SALVATORE RIINA "TOTò U' CURTU"






Carta d'identità del 1958
Salvatore Riina, nasce a Corleone il16 novembre 1930; nel 1943 perse il padre Giovanni e il fratello Francesco (di 7 anni) mentre, insieme a lui e al fratello Gaetano, stavano cercando di estrarre la polvere da sparo da una bomba americana inesplosa, rinvenuta tra le terre che curavano, per rivenderla insieme al metallo. Gaetano rimase ferito e Totò rimase illeso. In questi anni conobbe il mafioso Luciano Liggio, con il quale intraprese il furto di covoni di grano e bestiame e lo affiliò nella locale cosca mafiosa, di cui faceva parte anche lo zio paterno di Riina, Giacomo.
A 19 anni fu condannato ad una pena di 12 anni, scontata parzialmente nel carcere dell' Ucciardone, per aver ucciso in una rissa un suo coetaneo, venendo però scarcerato nel 1956. Insieme a Liggio e alla sua banda, Riina iniziò ad occuparsi di macellazione clandestina di bestiame rubato nei terreni della società armentizia di contrada Piano di Scala. Nel 1958 Liggio eliminò il suo capo Michele Navarra e nei mesi successivi, insieme alla sua banda di cui faceva parte Riina, scatenò un conflitto contro gli ex-uomini di Navarra, che furono in gran parte assassinati fino al 1963.
Riina venne però arrestato nel dicembre del 1963 a Corleone: una notte fu fermato, nella parte alta del paese, da una pattuglia di agenti di Polizia di cui faceva parte anche il commissario Angelo Mangano il quale nel 1964 parteciperà, sotto la direzione del tenente colonnello dei Carabinieri Ignazio Milillo, alla cattura di Luciano Liggio. Riina, che aveva una carta d'identità rubata (dalla quale risultava essere "Giovanni Grande" da Caltanissetta) ed una pistola non regolarmente dichiarata, tentò di scappare ma venne braccato e facilmente catturato dalle forze dell'ordine. Fu riconosciuto dall'agente Biagio Melita.
Tuttavia, dopo aver scontato alcuni anni di prigione al carcere dell'Ucciardone (dove conobbe Gaspare Mutolo), fu assolto per insufficienza di prove nel processo svoltosi a Bari nel 1969. Dopo l'assoluzione, Riina si trasferì con Liggio a Bitonto, in provincia di Bari, ma il Tribunale di Palermo emise un'ordinanza di custodia precauzionale nei loro confronti. Riina tornò da solo a Corleone, dove venne arrestato e gli venne applicata la misura del soggiorno obbligato; scarcerato e munito di foglio di via obbligatorio, Riina non raggiunse mai il soggiorno obbligato e si rese irreperibile, dando inizio alla sua lunga latitanza.

L'ascesa ai vertici di Cosa Nostra
Il 10 dicembre 1969 Riina fu tra gli esecutori della cosiddetta «strage di Viale Lazio», che doveva punire il boss Michele Cavataio. Nel periodo successivo Riina sostituì spesso Liggio nel "triumvirato" provvisorio di cui faceva parte con i boss Stefano Bontate e Gaetano Badalamenti, che aveva il compito di dirimere le dispute tra le varie cosche della provincia di Palermo. Riina e Liggio divennero i principali capi-elettori del loro compaesano Vito Ciancimino, il quale venne eletto sindaco di Palermo; nel 1971 Riina fu esecutore materiale dell'omicidio del procuratore Pietro Scaglione e, nello stesso anno, partecipò ai sequestri a scopo di estorsione ordinati da Liggio a Palermo: furono rapiti Antonino Caruso, figlio dell'industriale Giacomo, ed anche il figlio del costruttore Francesco Vassallo mentre nel 1972 Riina stesso ordinò il sequestro del costruttore Luciano Cassina, nel quale vennero implicati uomini della cosca di Giuseppe Calò: l'obiettivo principale di Riina non era solo quello di incassare il denaro del riscatto ma anche quello di colpire Badalamenti e Bontate, che erano legati al padre dell'ostaggio, il conte Arturo Cassina, che aveva il monopolio della manutenzione della rete stradale, dell'illuminazione pubblica e della rete fognaria a Palermo.


Attraverso Liggio, Riina divenne "compare di anello" di Mico Tripodo, boss della 'Ndrangheta, e si legò ai fratelli Nuvoletta, camorristi napoletani affiliati a Cosa Nostra, con cui avviò un contrabbando di sigarette estere. Nel 1974 Riina divenne il reggente della cosca di Corleone dopo l'arresto di Liggio e l'anno successivo fece sequestrare ed uccidere Luigi Corleo, suocero di Nino Salvo, ricco e famoso esattore affiliato alla cosca di Salemi; il sequestro venne attuato per dare un duro colpo al prestigio di Badalamenti e di Bontate, i quali erano legati a Salvo e non riusciranno ad ottenere né la liberazione dell'ostaggio, né la restituzione del corpo, anche se Riina negò con forza ogni coinvolgimento nel sequestro.
Nel 1978 Riina mise Badalamenti in minoranza nella "Commissione" con una scusa e lo fece espellere, facendo passare l'incarico di dirigere la "Commissione" a Michele Greco, con cui era strettamente legato. Per queste ragioni, Giuseppe Di Cristina, capo della cosca di Riesi legato a Bontate e Badalamenti, tentò di mettersi in contatto con i Carabinieri, accusando Riina e il suo luogotenente Bernardo Provenzano di essere responsabili di numerosi omicidi per conto di Liggio, all'epoca detenuto; alcuni giorni dopo le sue confessioni, Di Cristina venne ucciso a Palermo mentre qualche tempo dopo anche il suo associato Giuseppe Calderone, capo della Famiglia di Catania, finì assassinato dal suo luogotenente Nitto Santapaola, che si era accordato con Riina.
Nel 1981 Riina fece eliminare Giuseppe Panno, capo della cosca di Casteldaccia strettamente legato a Bontate, il quale reagì organizzando un complotto per uccidere Riina, che però venne rivelato da Michele Greco; Riina allora fece assassinare Bontate e il suo associato Salvatore Inzerillo: i due omicidi diedero inizio alla cosiddetta «seconda guerra di mafia» e nei mesi successivi nella provincia di Palermo lo schieramento dei boss che facevano capo a Riina uccisero oltre 200 mafiosi della fazione Bontate-Inzerillo-Badalamenti mentre molti altri rimasero vittime della cosiddetta «lupara bianca». Il massacro continuò fino al 1982, quando si insediò una nuova "Commissione", composta soltanto da capimandamento fedeli a Riina e guidata dallo stesso Riina.


Legami con la politica
Il principale referente politico di Riina inizialmente fu Vito Ciancimino, il quale nel 1976 instaurò un rapporto di collaborazione con la corrente dell'onorevole Giulio Andreotti, in particolare con Salvo Lima, che sfociò poi in un formale inserimento in tale gruppo politico e nell'appoggio dato dai delegati vicini a Ciancimino alla corrente andreottiana in occasione dei congressi nazionali della Democrazia Cristiana svoltisi nel 1980 e nel 1983. Per proteggere gli interessi di Ciancimino, Riina propose alla "Commissione" gli omicidi dei suoi avversari politici: il 9 marzo 1979 fu ucciso Michele Reina, segretario provinciale della Democrazia Cristiana che era entrato in contrasto con costruttori legati a Ciancimino; il 6 gennaio 1980 venne eliminato Piersanti Mattarella, presidente della Regione che contrastava Ciancimino per un suo rientro nel partito con incarichi direttivi; il 30 aprile 1982 venne trucidato Pio La Torre, segretario regionale del PCI che aveva più volte indicato pubblicamente Ciancimino come personaggio legato a Cosa Nostra.
Dopo l'inizio della «seconda guerra di mafia», i cugini Ignazio e Nino Salvo, ricchi e famosi esattori affiliati alla cosca di Salemi, passarono dalla parte dello schieramento dei Corleonesi, che faceva capo proprio a Riina, e furono incaricati di curare le relazioni con l'onorevole Salvo Lima, che divenne il nuovo referente politico di Riina, soprattutto per cercare di ottenere una favorevole soluzione di vicende processuali; infatti, sempre secondo i collaboratori di giustizia, l'onorevole Lima si sarebbe attivato per modificare in Cassazione la sentenza del Maxiprocesso di Palermo che condannava Riina e molti altri boss all'ergastolo. In particolare, il collaboratore Baldassare Di Maggio riferì che nel 1987 accompagnò Riina nella casa di Ignazio Salvo a Palermo, dove avrebbe incontrato Lima e il suo capocorrente Giulio Andreotti per sollecitare il loro intervento sulla sentenza; la testimonianza dell'incontro venne però considerata inattendibile nella sentenza del processo contro Andreotti.
Tuttavia però il 30 gennaio 1992 la Cassazione confermò gli ergastoli del Maxiprocesso e sancì la validità delle dichiarazioni del pentito Tommaso Buscetta. Sempre secondo le testimonianze dei collaboratori di giustizia, Riina decise allora di lanciare un avvertimento ad Andreotti, che si era disinteressato alla sentenza ed anzi aveva firmato un decreto-legge che aveva fatto tornare in carcere gli imputati del Maxiprocesso scarcerati per decorrenza dei termini e quelli agli arresti domiciliari: per queste ragioni il 12 marzo 1992 Lima venne ucciso alla vigilia delle elezioni politiche ed, alcuni mesi dopo, la stessa sorte toccò ad Ignazio Salvo.


Le ritorsioni verso i collaboratori di giustizia
Le deposizioni dei collaboratori di giustizia (su tutti Tommaso Buscetta) scatenarono la ritorsione di Cosa Nostra su precisa indicazione di Totò Riina, il quale autorizzò i capofamiglia ad eliminare i familiari dei pentiti "sino al 20º grado di parentela", compresi i bambini e le donne.

Il Papello e la trattativa con lo stato
L'allora vicecomandante dei Ros, Mario Mori, incontrò tra giugno e ottobre 1992 Vito Ciancimino, proponendo una trattativa con Cosa Nostra per mettere fine alla lunga scia di stragi che insanguinavano Palermo. La proposta era in realtà, secondo la versione fornita da Mori, una trappola per cercare di stanare qualche latitante, ma Riina rispose alla richiesta con il famoso Papello, un documento di richieste per ammorbidire le condizioni dei detenuti, degli indagati, delle loro famiglie, la cancellazione della legge sui pentiti e la revisione del maxiprocesso.
L'esistenza della trattativa tra stato e Cosa Nostra è stata successivamente smentita dallo stesso Mori. Il 12 marzo 2012, però, nella motivazione della sentenza del processo a Francesco Tagliavia per le stragi del 1992 - 1993, i giudici scrivono che la trattativa tra Stato e Cosa nostra "ci fu e venne quantomeno inizialmente impostata su un do ut des [...] L'iniziativa fu assunta da rappresentanti dello Stato e non dagli uomini di mafia".

L'arresto

Il 15 gennaio del 1993 fu catturato dal Crimor (squadra speciale dei ROS guidata dal Capitano Ultimo). Riina, latitante dal 1969, venne arrestato al primo incrocio davanti alla sua villa in via Bernini n. 54, insieme al suo autista Salvatore Biondino, a Palermo. Nella villa aveva trascorso alcuni anni della sua latitanza insieme alla moglie Antonietta Bagarella e ai suoi figli. L'arresto fu favorito dalle dichiarazioni rese nei giorni precedenti dall'ex autista di Riina, Baldassare (Balduccio) Di Maggio al generale dei carabinieri Francesco Delfino, che decise di collaborare per ritorsione verso Cosa Nostra che lo aveva condannato a morte.








Il carcere
A partire dal dicembre 1995, Riina è stato rinchiuso nel supercarcere dell'Asinara, in Sardegna. In seguito è stato trasferito al carcere di Marino del Tronto ad Ascoli Piceno dov
e, per circa tre anni, è stato sottoposto al carcere duro previsto per chi commette reati di mafia, il 41 bis, ma il 12 marzo del 2001 gli venne revocato l'isolamento, consentendogli di fatto la possibilità di vedere altri detenuti nell'ora di libertà.
Proprio mentre era sottoposto a regime di 41 bis, il 24 maggio 1994 durante una pausa del processo di primo grado a Reggio Calabria per l'uccisione del giudice Antonino Scopelliti fu raggiunto dal capo-redattore della Gazzetta del Sud Paolo Pollichieni, al quale rilasciò dichiarazioni minacciose contro il procuratore Giancarlo Caselli ed altri rappresentanti delle istituzioni, lamentandosi delle severe condizioni imposte dal carcere duro. L'intervento di Riina causò l'apertura di un provvedimento disciplinare da parte del Consiglio Superiore della Magistratura contro il pubblico ministero Salvatore Boemi, accusato di non aver vigilato sul detenuto. Dopo pochi mesi dalle dichiarazioni del boss corleonese il regime di 41 bis (allora valido per soli tre anni, decorsi i quali decadeva la sua applicabilità) è stato rafforzato mediante vari interventi legislativi volti a renderlo prorogabile di anno in anno.
Nella primavera del 2003 subisce un intervento chirurgico per problemi cardiaci, e nel maggio dello stesso anno viene ricoverato nell'ospedale di Ascoli Piceno per un infarto. Sempre nel 2003, a settembre, viene nuovamente ricoverato per problemi cardiaci. Il 22 maggio 2004, nell'udienza del processo di Firenze per la strage di via dei Georgofili, accusa il coinvolgimento dei servizi segreti nelle stragi di Capaci e via d'Amelio, e riferisce dei contatti fra l'allora colonnello Mario Mori e Vito Ciancimino, attraverso il figlio di lui Massimo al tempo non convocato in dibattimento.Trasferito nel carcere milanese di Opera, viene nuovamente ricoverato nel 2006 all'ospedale San Paolo di Milano, sempre per problemi cardiaci.Nel novembre 2013 trapela la notizia di minacce da parte del Riina nei confronti del magistrato Antonino Di Matteo, il pm che aveva retto l'accusa in numerosi procedimenti penali a suo carico. Il 4 marzo 2014 viene nuovamente ricoverato.
Muore nel carcere di Parma nel novembre 2017.





Il processo per la trattativa Stato-Mafia
Dal carcere di Opera, il 19 luglio 2009, nel ricorrerne l'anniversario, Riina espresse di nuovo la sua posizione secondo cui la strage di via d'Amelio sarebbe da imputare ad altri soggetti e non a lui, nello stesso periodo in cui Massimo Ciancimino annunciò che avrebbe consegnato ai magistrati il “papello”, una sola pagina a firma di Riina che conterrebbe le condizioni poste dalla mafia allo Stato. Tuttavia i legali di Riina smentirono che il loro assistito abbia partecipato a una trattativa fra Stato e mafia:
« Abbiamo parlato della trattativa. Riina sostiene che è stato oggetto e non soggetto di quella trattativa di cui tanto si è discusso in questi anni. Lui sostiene che la trattativa è passata sopra di lui, che l'ha fatta Vito Ciancimino per conto suo e per i suoi affari e insieme ai carabinieri: e che lui, Totò Riina, era al di fuori. Non a caso io, come suo difensore, proprio al processo per le stragi di Firenze già quattro anni fa ho chiesto che venisse ascoltato Massimo Ciancimino in aula proprio sulla trattativa. Riina voleva che Ciancimino deponesse, purtroppo la Corte ha respinto la mia istanza»
Il 24 luglio 2012 la Procura di Palermo, sotto Antonio Ingroia e in riferimento all'indagine sulla Trattativa Stato-Mafia, ha chiesto il rinvio a giudizio di Riina e altri 11 indagati accusati di "concorso esterno in associazione mafiosa" e "violenza o minaccia a corpo politico dello Stato". Gli altri imputati sono i politici Calogero Mannino, Marcello Dell'Utri, gli ufficiali Mario Mori e Giuseppe De Donno, i boss Giovanni Brusca, Leoluca Bagarella, Antonino Cinà e Bernardo Provenzano, il collaboratore di giustizia Massimo Ciancimino (anche "calunnia") e l'ex ministro Nicola Mancino ("falsa testimonianza").