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venerdì 13 marzo 2015

MAURO DE MAURO




« De Mauro ha detto la cosa giusta all'uomo sbagliato, e la cosa sbagliata all'uomo giusto. »
 (Leonardo Sciascia)


Mauro De Mauro 

nasce a Foggia nel1921, figlio di un chimico e di un'insegnante di matematica, fu sostenitore del fascismo ed allo scoppio della seconda guerra mondiale s'arruolò volontario. Militò nella Xª Flottiglia MAS di Junio Valerio Borghese; dopo l'8 settembre 1943, aderì alla Repubblica Sociale Italiana. Restò legato al principe anche dopo la guerra ed in suo onore chiamò la seconda figlia Junia.
In seguito ad un incidente stradale mentre guidava una motocicletta riportò lesioni con esiti permanenti in termini di menomazioni fisiche (aveva il naso ricucito ed era claudicante). Sull'origine di queste menomazioni fisiche circolarono però anche altre versioni: secondo alcune sarebbero state causate da un violento pestaggio subito da un gruppo di partigiani, secondo altre a malmenarlo sarebbero stati addirittura alcuni commilitoni fascisti a causa di un presunto tradimento.
Nell'estate del 1945 fu arrestato a Milano dagli Alleati e rinchiuso prima a Ghedi poi nel Campo di concentramento di Coltano, dal quale riuscì a fuggire nel settembre successivo.


Il dopoguerra

Trasferitosi a Palermo con la famiglia (suo fratello minore Tullio De Mauro, linguista e in seguito Ministro della Pubblica Istruzione) dopo la seconda guerra mondiale, lavorò presso giornali come Il Tempo di Sicilia, Il Mattino di Sicilia e poi a L'Ora, rivelandosi un ottimo cronista. Nel 1962 aveva seguito la morte del presidente dell'Eni Enrico Mattei e nel settembre del 1970 si stava nuovamente occupando del caso, in seguito all'incarico ricevuto dal regista Francesco Rosi per il suo film Il caso Mattei, che sarebbe in seguito uscito nel 1972.
De Mauro aveva pubblicato, sempre su L'Ora, il 23 ed il 24 gennaio 1962 il verbale di polizia, risalente al 1937 e caduto nel dimenticatoio, in cui il medico siciliano Melchiorre Allegra, tenente colonnello medico del Regio Esercito durante la prima guerra mondiale, affiliato alla mafia nel 1916 e pentito mafioso dal 1933, elencava tutta la struttura del vertice mafioso, gli aderenti, le regole, l'affiliazione, l'organigramma della società malavitosa. Tommaso Buscetta, davanti ai giudici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, quindici anni dopo la morte del giornalista, ebbe ad affermare che: "... De Mauro era un cadavere che camminava. Cosa Nostra era stata costretta a 'perdonare' il giornalista perché la sua morte avrebbe destato troppi sospetti, ma alla prima occasione utile avrebbe pagato anche per quello scoop. La sentenza di morte era solo stata temporaneamente sospesa".



Il rapimento

Il giornalista da qualche mese era stato trasferito dalla redazione "Cronaca" a quella dello "Sport" de L'Ora, quando venne rapito la sera del 16 settembre del 1970, mentre rientrava nella sua abitazione di Palermo. Il rapimento avvenne un paio di giorni prima della celebrazione delle nozze della figlia Franca. De Mauro fu visto l'ultima volta dalla figlia Franca mentre posteggiava la macchina davanti la sua abitazione di via delle Magnolie.


La figlia, nell'attesa che il padre raccogliesse le sue vettovaglie dal sedile della macchina, entrò nell'androne per chiamare l'ascensore, vedendo però che il padre non la raggiungeva uscì nuovamente dal portone e vide suo padre, circondato da due o tre persone, risalire in macchina e ripartire senza voltarsi per salutarla. Ella riuscì a cogliere soltanto la parola «amunì» detta da qualcuno a suo padre poco prima di mettere in moto e ripartire senza lasciare traccia.
La sera successiva l'auto venne ritrovata a qualche chilometro di distanza in via Pietro D'Asaro, con a bordo piccole vettovaglie che il giornalista aveva acquistato rincasando. L'auto fu ispezionata con cura, il cofano fu aperto dagli artificieri, ma non furono reperiti elementi utili al rintraccio. Furono allestiti posti di blocco e si disposero minuziose ricerche, ma dello scomparso non si seppe più nulla.


Le indagini e le piste

Dopo il sequestro, un commercialista di Palermo, Antonino Buttafuoco, entrò nella vicenda con un ruolo che non è mai stato pienamente chiarito, ma che comunque limpido non è mai parso, e per questa sua intromissione nel caso il professionista è stato al centro di indagini e procedimenti. Conosceva direttamente De Mauro e dopo la sua sparizione ne contattò la famiglia e per circa un paio di settimane chiese ai familiari ciò che sapevano in merito alla scomparsa del loro congiunto. Dopo circa una ventina di giorni fu destinatario di un ordine di cattura che fu commentato dal pubblico ministero che l'aveva emesso con le parole «in questa vicenda c'è dentro fino al collo»; dopo un paio di mesi però il commercialista sarebbe stato scarcerato per mancanza di indizi.
All'arresto si era giunti a causa di indizi che volevano il Buttafuoco legato da un rapporto d'amicizia all'avvocato Vito Guarrasi (già in rapporti con Enrico Mattei e non solo), di cui si è ipotizzato un ruolo di "gestione" del caso De Mauro malgrado, secondo il pentito Gaetano Grado fosse «amico di De Mauro e Mauro De Mauro si confidava con lui». Buttafuoco inoltre era strettamente legato al boss mafioso Luciano Leggio e gli fu anche attribuita la paternità di un nastro registrato che fu fatto pervenire al giornale L'Ora, nel quale si affermava che De Mauro era vivo.
Le indagini sulla sparizione del giornalista furono seguite sia dai carabinieri, secondo i quali sarebbe stato eliminato da Cosa Nostra in seguito ad indagini sul traffico di stupefacenti, sia dalla polizia, che ritenne piuttosto che la sua sparizione fosse collegata alle sue ricerche sul caso Mattei (l'aereo caduto era decollato da Catania il 27 ottobre 1962), anche in seguito, il giorno stesso del suo rapimento, alla sparizione dal cassetto del suo ufficio di alcune pagine di appunti e di un nastro registrato con l'ultimo discorso tenuto da Mattei a Gagliano Castelferrato. Principale investigatore per l'Arma fu Carlo Alberto Dalla Chiesa, per la polizia Boris Giuliano; anni dopo entrambi caddero, in circostanze diverse, per mano della mafia.
Carlo Alberto Dalla Chiesa e Boris Giuliano furono i principali investigatori, rispettivamente per i Carabinieri e per la Polizia, che si occuparono del caso De Mauro; entrambi furono in seguito assassinati dalla mafia, Giuliano nel 1979 e Dalla Chiesa nel 1982.
Si trovarono invece, nel cassetto della sua scrivania al giornale, degli appunti di De Mauro nei quali il giornalista citava i nomi di Eugenio Cefis (successore di Mattei all'ENI), di Guarrasi, di altri dirigenti dell'ENI e di alcuni esponenti politici siciliani; secondo il De Sanctis, che ne scrisse nel 1972, questi appunti sarebbero rimasti in qualche modo nell'ombra per qualche tempo. Nel cassetto fu rinvenuto anche un taccuino in cui era scritto: "Colpo di Stato! Colpo di Stato continuato - uomini anche mediocri ma di rottura - La guerra è un anacronismo", in presumibile riferimento al golpe Borghese.
verzotto graziano
Graziano Verzotto
L'ipotesi di un movente legato all'eliminazione del presidente dell'ENI era quella seguita dalla questura, e più volte si sono incrociate le strade giudiziarie dei processi che hanno riguardato il caso Mattei ed il caso De Mauro; è da quest'ultimo che si ricava l'informazione che il questore Ferdinando Li Donni aveva ordinato alla Digos di indagare su Vito Guarrasi e sul presidente dell'Ente Minerario Siciliano Graziano Verzotto. Verzotto era stato incontrato da De Mauro due giorni prima della scomparsa. Secondo Giuseppe Lo Bianco, autore con Sandra Rizza di un libro in cui lega il caso De Mauro ai casi di Mattei e Pier Paolo Pasolini, il presidente dell'EMS avrebbe indicato in Cefis un possibile mandante dell'omicidio di Mattei; e Verzotto, suggerisce Lo Bianco, poteva essere ben informato, essendo fra l'altro finanziatore di agenzie di stampa che avevano pubblicato il libro Questo è Cefis. L'altra faccia dell'onorato presidente, di Giorgio Steimetz, cui aveva attinto Pasolini per il suo Petrolio.
La figura di Guarrasi, che occhieggia qua e là nella vicenda e da più parti viene di tanto in tanto richiamata, è stata pesantemente accostata all'ipotetico personaggio detto "Signor X", il cui ruolo sarebbe piuttosto legato alla strategia per l'eliminazione di Mattei e forse anche di De Mauro. Un elemento che consentirebbe secondo Giorgio Galli di identificare il Signor X per Vito Guarrasi consisterebbe in un nastro magnetico sul quale era stato registrato un incontro fra l'avvocato e due investigatori della polizia, il dirigente della Squadra Mobile Nino Mendolia e Bruno Contrada (allora capo della sezione investigativa della stessa Mobile, poi arrestato il 24 dicembre 1992 e condannato in via definitiva a 10 anni di carcere per concorso esterno in associazione mafiosa); l'incontro avrebbe avuto luogo il 12 ottobre 1970, una settimana prima dell'arresto di Buttafuoco, ed il nastro recava sul suo involucro la dicitura "conversazione tra Mendolia e X".
Un altro nastro magnetico assume rilievo nella vicenda: si tratta di un nastro che lo stesso giornalista si era procurato e che avrebbe contenuto registrazioni di alcune fasi della manifestazione cui Enrico Mattei aveva partecipato a Gagliano il giorno prima della sua morte. Secondo i familiari, il giornalista riascoltava quel nastro, datogli da un gaglianese, con metodicità quasi ossessiva, ripetutamente fermandolo per riascoltarne alcuni passaggi. Il nastro non è più stato ritrovato. Ma De Mauro ne aveva trascritto brani e preso appunti, ed uno degli appunti recitava «Primo tempo arrivo ore 15, poi ultimo momento anticipato ore 10 perché notizia Tremelloni»: il riferimento era ad un appuntamento imprevisto fra Mattei ed il ministro Roberto Tremelloni, e l'importanza del dato consiste nel fatto - di comune accezione presso gli inquirenti - che solo potendo conoscere in anticipo gli spostamenti del presidente dell'ENI (che non faceva mai sapere in anticipo cose del genere) si sarebbe potuto sabotargli l'aereo. Dunque a Gagliano si sapeva di Tremelloni, si sapeva che questo appuntamento aveva costretto Mattei a programmare il volo per il pomeriggio, e così a Gagliano si poteva già desumere che si sarebbe potuto "agire" sull'aereo. A queste conclusioni, secondo diversi analisti, poteva essere pervenuto De Mauro lavorando al film di Rosi, ricavando per deduzione quelle informazioni che, come ebbe a confidare a colleghi, avrebbero fatto "tremare l'Italia".
In relazione al fatto che il golpe Borghese già nel 1971 fosse stato reso di pubblica nozione dal ministro dell'interno Franco Restivo (amico di famiglia dei De Mauro), e che avessero preso subito a circolare voci di un collegamento fra il rapimento del giornalista e l'iniziativa del principe, Galli comunque sottolineò che la procura di Pavia, nelle indagini sull'incidente di Bascapè, mettesse in risalto come il caso De Mauro potesse risultare più opportunamente collegato al golpe Borghese che non al caso Mattei: nel contesto di manovre politiche di rilievo, con campagne politiche in corso per il Quirinale, il caso Mattei era innominabile, mentre il golpe Borghese non recava imbarazzo politico ad alcuno dei contendenti. E lo stesso autore, ricordando che De Mauro aveva investigato sulle ragioni della mancata partenza sull'aereo di Mattei, all'ultimo momento, del presidente della Regione siciliana, Giuseppe D'Angelo, "era un giornalista troppo professionale per accogliere notizie nelle bische della mafia".
Più volte si è tentato di trovare il luogo dove si presumeva fosse stato nascosto il corpo di De Mauro, ma nessuna di queste ricerche ha dato esito positivo.


Dichiarazioni dei collaboratori di giustizia

Secondo le dichiarazioni del collaboratore di giustizia Tommaso Buscetta, i boss mafiosi Stefano Bontate, Gaetano Badalamenti e Luciano Leggio furono coloro che organizzarono l'uccisione di De Mauro: «il rapimento di Mauro De Mauro […] è stato effettuato da Cosa Nostra. De Mauro stava indagando sulla morte di Mattei e aveva ottime fonti all'interno di Cosa Nostra. Stefano Bontate venne a sapere che De Mauro stava avvicinandosi troppo alla verità - e di conseguenza al ruolo che egli stesso aveva giocato nell'attentato - e organizzò il "prelevamento" del giornalista in via delle Magnolie. De Mauro fu rapito per ordine di Stefano Bontate che incaricò dell'operazione il suo vice Girolamo Teresi […]. Era stato "spento" un nostro nemico e si dette per scontato che Stefano Bontate, Gaetano Badalamenti e Luciano Liggio avessero autorizzato l'azione».
Un altro collaboratore, Antonino Calderone, dichiarò che la sparizione di De Mauro faceva parte di una serie di azioni eversive attuate da esponenti mafiosi in seguito al fallito Golpe Borghese, in cui si poteva inquadrare anche l'uccisione del procuratore Pietro Scaglione (avvenuta il 5 maggio 1971). Secondo le dichiarazioni del pentito Francesco Di Carlo, De Mauro stava facendo troppe domande sul Golpe Borghese e per questo venne "prelevato" dai mafiosi Emanuele D’Agostino, Stefano Giaconia e Bernardo Provenzano, che lo portarono nella tenuta agricola di Stefano Bontate dove lo strangolarono e seppellirono il cadavere nella vallata del fiume Oreto. Secondo le affermazioni del collaboratore Francesco Marino Mannoia, i resti di De Mauro rimasero per alcuni anni sepolti sotto il ponte del fiume Oreto ma in seguito Bontate li fece rimuovere e poi vennero sciolti nell'acido.
Nel 2011 il collaboratore Rosario Naimo dichiarò che gli fu raccontato che De Mauro venne portato con una scusa nel fondo agricolo del boss Francesco Madonia e lì strangolato e il suo cadavere buttato in un pozzo.


Nuove indagini

Nel 2001 la Procura di Palermo riaprì le indagini sulla sparizione di De Mauro in seguito alle dichiarazioni di Francesco Di Carlo.
Il 20 settembre 2007 a Conflenti, in Calabria, viene riesumata una salma – la cui sepoltura risale al 1971 – che si pensava potesse essere quella di De Mauro. Ma nel marzo 2008 l'esame del DNA ha smentito l'ipotesi.


Processo

Nell'aprile del 2006 è iniziato il processo per l'omicidio di De Mauro, che vide come unico imputato il boss Salvatore Riina.
Il 22 aprile 2011, nella requisitoria, viene chiesto l'ergastolo per Riina, oltre all'isolamento diurno per tre anni. In data 10 giugno 2011 Totò Riina viene assolto, per "incompletezza della prova" (ex art. 530 c.p.p.), dalla Corte d'Assise di Palermo per l'omicidio De Mauro. Oltre un anno dopo, il 7 agosto 2012 viene deposita dalla Corte d'Assise la motivazione di quella sentenza di oltre 2.200 pagine, ove si ipotizza che il giornalista venne eliminato «perché si era spinto troppo oltre nella sua ricerca della verità sulle ultime ore di Enrico Mattei».
Il 23 aprile 2013 si è aperto davanti alla corte d'assise d'appello di Palermo il processo d'appello per il quale è stata richiesta la riapertura dell'istruttoria dibattimentale e l'esame del pentito Francesco Di Carlo in merito alle sue dichiarazioni rese in un libro intervista scritto col giornalista Enrico Bellavia sulle confidenze fattegli dal boss Salvatore Riina durante un summit nel corso del quale si sarebbe deciso il sequestro e l'omicidio del giornalista Mauro De Mauro.

Riconoscimenti

Ha vinto la prima edizione del Premiolino nel 1960 per l'inchiesta sulla delinquenza siciliana
È uno dei 2.007 giornalisti di tutto il mondo, uccisi per il lavoro che facevano, ricordati nel Journalist Memorial del Newseum di Washington, negli Stati Uniti.
Il 14 maggio 2013, nel giardino della memoria di Ciaculli, parco dedicato a tutti i caduti nella lotta contro la mafia, gli è stato dedicato un albero alla presenza del Sindaco di Palermo Leoluca Orlando, della figlia Franca De Mauro, del procuratore della Repubblica di Palermo Francesco Messineo, del presidente della corte d’appello di Palermo, del presidente regionale dell’Ordine dei giornalisti Riccardo Arena.
Il 16 settembre 2014 in viale delle Magnolie a Palermo, luogo del sequestro di Mauro De Mauro, è stata deposta una corona di fiori su iniziativa dell'Unci (Unione cronisti italiani) alla presenza dei familiani di De Mauro, della figlia Franca De Mauro, del nipote Alessandro, del Sindaco di Palermo Leoluca Orlando, del Prefetto di Palermo Dr.ssa Francesca Cannizzo, del Questore di Palermo Dr.ssa Maria Rosaria Maiorino, del Presidente dell'Odg Sicilia, Riccardo Arena.  Il 20 dicembre 2014 L’ Unci e l’Amministrazione comunale hanno collocato in viale delle Magnolie una lapide per ricordare l’assassinio del giornalista.

venerdì 12 dicembre 2014

SALVATORE RIINA "TOTò U' CURTU"






Carta d'identità del 1958
Salvatore Riina, nasce a Corleone il16 novembre 1930; nel 1943 perse il padre Giovanni e il fratello Francesco (di 7 anni) mentre, insieme a lui e al fratello Gaetano, stavano cercando di estrarre la polvere da sparo da una bomba americana inesplosa, rinvenuta tra le terre che curavano, per rivenderla insieme al metallo. Gaetano rimase ferito e Totò rimase illeso. In questi anni conobbe il mafioso Luciano Liggio, con il quale intraprese il furto di covoni di grano e bestiame e lo affiliò nella locale cosca mafiosa, di cui faceva parte anche lo zio paterno di Riina, Giacomo.
A 19 anni fu condannato ad una pena di 12 anni, scontata parzialmente nel carcere dell' Ucciardone, per aver ucciso in una rissa un suo coetaneo, venendo però scarcerato nel 1956. Insieme a Liggio e alla sua banda, Riina iniziò ad occuparsi di macellazione clandestina di bestiame rubato nei terreni della società armentizia di contrada Piano di Scala. Nel 1958 Liggio eliminò il suo capo Michele Navarra e nei mesi successivi, insieme alla sua banda di cui faceva parte Riina, scatenò un conflitto contro gli ex-uomini di Navarra, che furono in gran parte assassinati fino al 1963.
Riina venne però arrestato nel dicembre del 1963 a Corleone: una notte fu fermato, nella parte alta del paese, da una pattuglia di agenti di Polizia di cui faceva parte anche il commissario Angelo Mangano il quale nel 1964 parteciperà, sotto la direzione del tenente colonnello dei Carabinieri Ignazio Milillo, alla cattura di Luciano Liggio. Riina, che aveva una carta d'identità rubata (dalla quale risultava essere "Giovanni Grande" da Caltanissetta) ed una pistola non regolarmente dichiarata, tentò di scappare ma venne braccato e facilmente catturato dalle forze dell'ordine. Fu riconosciuto dall'agente Biagio Melita.
Tuttavia, dopo aver scontato alcuni anni di prigione al carcere dell'Ucciardone (dove conobbe Gaspare Mutolo), fu assolto per insufficienza di prove nel processo svoltosi a Bari nel 1969. Dopo l'assoluzione, Riina si trasferì con Liggio a Bitonto, in provincia di Bari, ma il Tribunale di Palermo emise un'ordinanza di custodia precauzionale nei loro confronti. Riina tornò da solo a Corleone, dove venne arrestato e gli venne applicata la misura del soggiorno obbligato; scarcerato e munito di foglio di via obbligatorio, Riina non raggiunse mai il soggiorno obbligato e si rese irreperibile, dando inizio alla sua lunga latitanza.

L'ascesa ai vertici di Cosa Nostra
Il 10 dicembre 1969 Riina fu tra gli esecutori della cosiddetta «strage di Viale Lazio», che doveva punire il boss Michele Cavataio. Nel periodo successivo Riina sostituì spesso Liggio nel "triumvirato" provvisorio di cui faceva parte con i boss Stefano Bontate e Gaetano Badalamenti, che aveva il compito di dirimere le dispute tra le varie cosche della provincia di Palermo. Riina e Liggio divennero i principali capi-elettori del loro compaesano Vito Ciancimino, il quale venne eletto sindaco di Palermo; nel 1971 Riina fu esecutore materiale dell'omicidio del procuratore Pietro Scaglione e, nello stesso anno, partecipò ai sequestri a scopo di estorsione ordinati da Liggio a Palermo: furono rapiti Antonino Caruso, figlio dell'industriale Giacomo, ed anche il figlio del costruttore Francesco Vassallo mentre nel 1972 Riina stesso ordinò il sequestro del costruttore Luciano Cassina, nel quale vennero implicati uomini della cosca di Giuseppe Calò: l'obiettivo principale di Riina non era solo quello di incassare il denaro del riscatto ma anche quello di colpire Badalamenti e Bontate, che erano legati al padre dell'ostaggio, il conte Arturo Cassina, che aveva il monopolio della manutenzione della rete stradale, dell'illuminazione pubblica e della rete fognaria a Palermo.


Attraverso Liggio, Riina divenne "compare di anello" di Mico Tripodo, boss della 'Ndrangheta, e si legò ai fratelli Nuvoletta, camorristi napoletani affiliati a Cosa Nostra, con cui avviò un contrabbando di sigarette estere. Nel 1974 Riina divenne il reggente della cosca di Corleone dopo l'arresto di Liggio e l'anno successivo fece sequestrare ed uccidere Luigi Corleo, suocero di Nino Salvo, ricco e famoso esattore affiliato alla cosca di Salemi; il sequestro venne attuato per dare un duro colpo al prestigio di Badalamenti e di Bontate, i quali erano legati a Salvo e non riusciranno ad ottenere né la liberazione dell'ostaggio, né la restituzione del corpo, anche se Riina negò con forza ogni coinvolgimento nel sequestro.
Nel 1978 Riina mise Badalamenti in minoranza nella "Commissione" con una scusa e lo fece espellere, facendo passare l'incarico di dirigere la "Commissione" a Michele Greco, con cui era strettamente legato. Per queste ragioni, Giuseppe Di Cristina, capo della cosca di Riesi legato a Bontate e Badalamenti, tentò di mettersi in contatto con i Carabinieri, accusando Riina e il suo luogotenente Bernardo Provenzano di essere responsabili di numerosi omicidi per conto di Liggio, all'epoca detenuto; alcuni giorni dopo le sue confessioni, Di Cristina venne ucciso a Palermo mentre qualche tempo dopo anche il suo associato Giuseppe Calderone, capo della Famiglia di Catania, finì assassinato dal suo luogotenente Nitto Santapaola, che si era accordato con Riina.
Nel 1981 Riina fece eliminare Giuseppe Panno, capo della cosca di Casteldaccia strettamente legato a Bontate, il quale reagì organizzando un complotto per uccidere Riina, che però venne rivelato da Michele Greco; Riina allora fece assassinare Bontate e il suo associato Salvatore Inzerillo: i due omicidi diedero inizio alla cosiddetta «seconda guerra di mafia» e nei mesi successivi nella provincia di Palermo lo schieramento dei boss che facevano capo a Riina uccisero oltre 200 mafiosi della fazione Bontate-Inzerillo-Badalamenti mentre molti altri rimasero vittime della cosiddetta «lupara bianca». Il massacro continuò fino al 1982, quando si insediò una nuova "Commissione", composta soltanto da capimandamento fedeli a Riina e guidata dallo stesso Riina.


Legami con la politica
Il principale referente politico di Riina inizialmente fu Vito Ciancimino, il quale nel 1976 instaurò un rapporto di collaborazione con la corrente dell'onorevole Giulio Andreotti, in particolare con Salvo Lima, che sfociò poi in un formale inserimento in tale gruppo politico e nell'appoggio dato dai delegati vicini a Ciancimino alla corrente andreottiana in occasione dei congressi nazionali della Democrazia Cristiana svoltisi nel 1980 e nel 1983. Per proteggere gli interessi di Ciancimino, Riina propose alla "Commissione" gli omicidi dei suoi avversari politici: il 9 marzo 1979 fu ucciso Michele Reina, segretario provinciale della Democrazia Cristiana che era entrato in contrasto con costruttori legati a Ciancimino; il 6 gennaio 1980 venne eliminato Piersanti Mattarella, presidente della Regione che contrastava Ciancimino per un suo rientro nel partito con incarichi direttivi; il 30 aprile 1982 venne trucidato Pio La Torre, segretario regionale del PCI che aveva più volte indicato pubblicamente Ciancimino come personaggio legato a Cosa Nostra.
Dopo l'inizio della «seconda guerra di mafia», i cugini Ignazio e Nino Salvo, ricchi e famosi esattori affiliati alla cosca di Salemi, passarono dalla parte dello schieramento dei Corleonesi, che faceva capo proprio a Riina, e furono incaricati di curare le relazioni con l'onorevole Salvo Lima, che divenne il nuovo referente politico di Riina, soprattutto per cercare di ottenere una favorevole soluzione di vicende processuali; infatti, sempre secondo i collaboratori di giustizia, l'onorevole Lima si sarebbe attivato per modificare in Cassazione la sentenza del Maxiprocesso di Palermo che condannava Riina e molti altri boss all'ergastolo. In particolare, il collaboratore Baldassare Di Maggio riferì che nel 1987 accompagnò Riina nella casa di Ignazio Salvo a Palermo, dove avrebbe incontrato Lima e il suo capocorrente Giulio Andreotti per sollecitare il loro intervento sulla sentenza; la testimonianza dell'incontro venne però considerata inattendibile nella sentenza del processo contro Andreotti.
Tuttavia però il 30 gennaio 1992 la Cassazione confermò gli ergastoli del Maxiprocesso e sancì la validità delle dichiarazioni del pentito Tommaso Buscetta. Sempre secondo le testimonianze dei collaboratori di giustizia, Riina decise allora di lanciare un avvertimento ad Andreotti, che si era disinteressato alla sentenza ed anzi aveva firmato un decreto-legge che aveva fatto tornare in carcere gli imputati del Maxiprocesso scarcerati per decorrenza dei termini e quelli agli arresti domiciliari: per queste ragioni il 12 marzo 1992 Lima venne ucciso alla vigilia delle elezioni politiche ed, alcuni mesi dopo, la stessa sorte toccò ad Ignazio Salvo.


Le ritorsioni verso i collaboratori di giustizia
Le deposizioni dei collaboratori di giustizia (su tutti Tommaso Buscetta) scatenarono la ritorsione di Cosa Nostra su precisa indicazione di Totò Riina, il quale autorizzò i capofamiglia ad eliminare i familiari dei pentiti "sino al 20º grado di parentela", compresi i bambini e le donne.

Il Papello e la trattativa con lo stato
L'allora vicecomandante dei Ros, Mario Mori, incontrò tra giugno e ottobre 1992 Vito Ciancimino, proponendo una trattativa con Cosa Nostra per mettere fine alla lunga scia di stragi che insanguinavano Palermo. La proposta era in realtà, secondo la versione fornita da Mori, una trappola per cercare di stanare qualche latitante, ma Riina rispose alla richiesta con il famoso Papello, un documento di richieste per ammorbidire le condizioni dei detenuti, degli indagati, delle loro famiglie, la cancellazione della legge sui pentiti e la revisione del maxiprocesso.
L'esistenza della trattativa tra stato e Cosa Nostra è stata successivamente smentita dallo stesso Mori. Il 12 marzo 2012, però, nella motivazione della sentenza del processo a Francesco Tagliavia per le stragi del 1992 - 1993, i giudici scrivono che la trattativa tra Stato e Cosa nostra "ci fu e venne quantomeno inizialmente impostata su un do ut des [...] L'iniziativa fu assunta da rappresentanti dello Stato e non dagli uomini di mafia".

L'arresto

Il 15 gennaio del 1993 fu catturato dal Crimor (squadra speciale dei ROS guidata dal Capitano Ultimo). Riina, latitante dal 1969, venne arrestato al primo incrocio davanti alla sua villa in via Bernini n. 54, insieme al suo autista Salvatore Biondino, a Palermo. Nella villa aveva trascorso alcuni anni della sua latitanza insieme alla moglie Antonietta Bagarella e ai suoi figli. L'arresto fu favorito dalle dichiarazioni rese nei giorni precedenti dall'ex autista di Riina, Baldassare (Balduccio) Di Maggio al generale dei carabinieri Francesco Delfino, che decise di collaborare per ritorsione verso Cosa Nostra che lo aveva condannato a morte.








Il carcere
A partire dal dicembre 1995, Riina è stato rinchiuso nel supercarcere dell'Asinara, in Sardegna. In seguito è stato trasferito al carcere di Marino del Tronto ad Ascoli Piceno dov
e, per circa tre anni, è stato sottoposto al carcere duro previsto per chi commette reati di mafia, il 41 bis, ma il 12 marzo del 2001 gli venne revocato l'isolamento, consentendogli di fatto la possibilità di vedere altri detenuti nell'ora di libertà.
Proprio mentre era sottoposto a regime di 41 bis, il 24 maggio 1994 durante una pausa del processo di primo grado a Reggio Calabria per l'uccisione del giudice Antonino Scopelliti fu raggiunto dal capo-redattore della Gazzetta del Sud Paolo Pollichieni, al quale rilasciò dichiarazioni minacciose contro il procuratore Giancarlo Caselli ed altri rappresentanti delle istituzioni, lamentandosi delle severe condizioni imposte dal carcere duro. L'intervento di Riina causò l'apertura di un provvedimento disciplinare da parte del Consiglio Superiore della Magistratura contro il pubblico ministero Salvatore Boemi, accusato di non aver vigilato sul detenuto. Dopo pochi mesi dalle dichiarazioni del boss corleonese il regime di 41 bis (allora valido per soli tre anni, decorsi i quali decadeva la sua applicabilità) è stato rafforzato mediante vari interventi legislativi volti a renderlo prorogabile di anno in anno.
Nella primavera del 2003 subisce un intervento chirurgico per problemi cardiaci, e nel maggio dello stesso anno viene ricoverato nell'ospedale di Ascoli Piceno per un infarto. Sempre nel 2003, a settembre, viene nuovamente ricoverato per problemi cardiaci. Il 22 maggio 2004, nell'udienza del processo di Firenze per la strage di via dei Georgofili, accusa il coinvolgimento dei servizi segreti nelle stragi di Capaci e via d'Amelio, e riferisce dei contatti fra l'allora colonnello Mario Mori e Vito Ciancimino, attraverso il figlio di lui Massimo al tempo non convocato in dibattimento.Trasferito nel carcere milanese di Opera, viene nuovamente ricoverato nel 2006 all'ospedale San Paolo di Milano, sempre per problemi cardiaci.Nel novembre 2013 trapela la notizia di minacce da parte del Riina nei confronti del magistrato Antonino Di Matteo, il pm che aveva retto l'accusa in numerosi procedimenti penali a suo carico. Il 4 marzo 2014 viene nuovamente ricoverato.
Muore nel carcere di Parma nel novembre 2017.





Il processo per la trattativa Stato-Mafia
Dal carcere di Opera, il 19 luglio 2009, nel ricorrerne l'anniversario, Riina espresse di nuovo la sua posizione secondo cui la strage di via d'Amelio sarebbe da imputare ad altri soggetti e non a lui, nello stesso periodo in cui Massimo Ciancimino annunciò che avrebbe consegnato ai magistrati il “papello”, una sola pagina a firma di Riina che conterrebbe le condizioni poste dalla mafia allo Stato. Tuttavia i legali di Riina smentirono che il loro assistito abbia partecipato a una trattativa fra Stato e mafia:
« Abbiamo parlato della trattativa. Riina sostiene che è stato oggetto e non soggetto di quella trattativa di cui tanto si è discusso in questi anni. Lui sostiene che la trattativa è passata sopra di lui, che l'ha fatta Vito Ciancimino per conto suo e per i suoi affari e insieme ai carabinieri: e che lui, Totò Riina, era al di fuori. Non a caso io, come suo difensore, proprio al processo per le stragi di Firenze già quattro anni fa ho chiesto che venisse ascoltato Massimo Ciancimino in aula proprio sulla trattativa. Riina voleva che Ciancimino deponesse, purtroppo la Corte ha respinto la mia istanza»
Il 24 luglio 2012 la Procura di Palermo, sotto Antonio Ingroia e in riferimento all'indagine sulla Trattativa Stato-Mafia, ha chiesto il rinvio a giudizio di Riina e altri 11 indagati accusati di "concorso esterno in associazione mafiosa" e "violenza o minaccia a corpo politico dello Stato". Gli altri imputati sono i politici Calogero Mannino, Marcello Dell'Utri, gli ufficiali Mario Mori e Giuseppe De Donno, i boss Giovanni Brusca, Leoluca Bagarella, Antonino Cinà e Bernardo Provenzano, il collaboratore di giustizia Massimo Ciancimino (anche "calunnia") e l'ex ministro Nicola Mancino ("falsa testimonianza").