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lunedì 27 gennaio 2014

VITO CIANCIMINO "Don Vito"


don  vito

Vito Alfio Ciancimino nacque a Corleone il 2 aprile 1924 figlio di un barbiere, si diplomò geometra nel 1943. Nel 1950 si trasferì a Palermo per frequentare la facoltà di ingegneria ma non conseguì mai la laurea. Per un breve periodo soggiornò a Roma, dove lavorò presso la segreteria del deputato Bernardo Mattarella (allora sottosegretario al Ministero dei Trasporti). A Palermo divenne socio di un'impresa edile ed ottenne un appalto per il "trasporto di vagoni ferroviari a domicilio attraverso carrelli" grazie alla raccomandazione del deputato Mattarella. Nel 1953 Ciancimino venne eletto nel comitato provinciale della Democrazia Cristiana e l'anno successivo divenne commissario comunale. Nel 1956 Ciancimino venne eletto consigliere comunale a Palermo e divenne un sostenitore di Giovanni Gioia, aderendo alla corrente politica di Amintore Fanfani. Per queste ragioni divenne assessore dell'Azienda municipalizzata e nel luglio 1959 divenne assessore ai lavori pubblici nella giunta del sindaco Salvo Lima. Durante il periodo in cui Ciancimino fu assessore, delle 4.000 licenze edilizie rilasciate, 1600 figurarono intestate a tre prestanome, che non avevano nulla a che fare con l'edilizia; l'assessorato di Ciancimino apportò numerose modifiche al piano regolatore di Palermo che permisero alla ditta di Nicolò Di Trapani (pregiudicato per associazione a delinquere) di vendere aree edificabili ad imprese edili mentre il costruttore Girolamo Moncada (legato al boss mafioso Michele Cavataio) ottenne in soli otto giorni licenze edilizie per numerosi edifici. In questi anni Ciancimino entrò in rapporti con tre società edilizie e finanziarie: la SIR, la SICILCASA SpA e la ISEP, di cui faceva parte la moglie di Ciancimino, Epifania Silvia Scardino, insieme ai mafiosi Antonino Sorci (capo della cosca di Villagrazia) e Angelo Di Carlo (cugino del boss Michele Navarra e socio di Luciano Leggio).
Nel 1963 Ciancimino venne denunciato dall'avvocato Lorenzo Pecoraro, amministratore di un'impresa edile a cui fu negata una licenza edilizia mentre alla società "SICILCASA SpA" era stato concesso il permesso di costruire in un terreno contiguo malgrado il progetto violasse in più punti le clausole del piano regolatore; fu fatto sapere a Pecoraro che poteva avere la licenza soltanto se versava una tangente nelle casse della "SICILCASA SpA", di cui Ciancimino era socio occulto e da cui acquistò anche due appartamenti. Qualche tempo dopo l'avvocato Pecoraro ritirò tutte le accuse e dichiarò che Ciancimino era sempre stato un uomo «esemplare per correttezza ed onestà». Ma nonostante ciò, nel giugno 1965 il caso Pecoraro fu riaperto e Ciancimino finì sotto processo, venendo però assolto nel 1966.
Nel 1964 Ciancimino concluse il mandato di assessore ai lavori pubblici e rimase consigliere comunale. Nel 1966 fu nominato capogruppo della Democrazia cristiana nel consiglio comunale di Palermo e tenne questo incarico fino al 1970, venendo anche nominato responsabile degli enti locali della sezione provinciale della Democrazia Cristiana nel 1969.
Nell'ottobre 1970 Ciancimino fu eletto sindaco di Palermo ma nel dicembre successivo fu costretto a dimettersi a causa delle proteste dell’opposizione e delle inchieste della Commissione Parlamentare Antimafia che lo riguardavano; tuttavia Ciancimino rimase in carica fino all'aprile 1971, quando venne eletto il nuovo sindaco Giacomo Marchello. Infatti nel 1976 la relazione di minoranza della Commissione Parlamentare Antimafia, redatta anche dai deputati Pio La Torre e Cesare Terranova, ed altri atti prodotti dalla stessa Commissione accusarono duramente Ciancimino ed altri uomini politici di avere rapporti con la mafia.
Nel 1976 Ciancimino abbandonò la corrente fanfaniana e formò un gruppo autonomo all'interno del consiglio comunale, avvicinandosi a Salvo Lima, che rappresentava la corrente andreottiana: Ciancimino, accompagnato dai deputati Salvo Lima, Mario D'Acquisto e Giovanni Matta, incontrò il senatore Giulio Andreotti a Palazzo Chigi, dove venne stipulato il patto di collaborazione con la corrente, che sfociò nell'appoggio dato dai delegati vicini a Ciancimino alla corrente andreottiana in occasione dei congressi nazionali della Democrazia Cristiana svoltisi nel 1980 e nel 1983.

vito e massimo ciancimino

In questi anni Cosa Nostra compì alcuni "omicidi politici" ed avvertimenti per proteggere gli interessi di Ciancimino: il 9 marzo 1979 fu ucciso Michele Reina, segretario provinciale della Democrazia Cristiana che era entrato in contrasto con costruttori legati a Ciancimino; il 6 gennaio 1980 venne eliminato Piersanti Mattarella, presidente della Regione che contrastava Ciancimino per un suo rientro nel partito con incarichi direttivi; il 30 aprile 1982 venne trucidato Pio La Torre, segretario regionale del PCI che aveva più volte indicato pubblicamente Ciancimino come personaggio legato a Cosa Nostra; nel dicembre 1980 una carica di esplosivo distrusse una parte della villa del sindaco Nello Martellucci, che si era mostrato poco disponibile con Ciancimino nel concedergli un appalto per il risanamento dei quartieri vecchi di Palermo.
In occasione del congresso regionale di Agrigento della Democrazia Cristiana nel 1983, il segretario nazionale Ciriaco De Mita espresse chiaramente la necessità di allontanare Ciancimino dal partito e per questo non gli venne rinnovata la tessera.



Le inchieste penali
Nel 1984 il collaboratore di giustizia Tommaso Buscetta dichiarò al giudice Giovanni Falcone che «Ciancimino è nelle mani dei Corleonesi» e per questo venne arrestato per associazione mafiosa nello stesso anno.
Nel 1992 venne condannato definitivamente in Cassazione a 8 anni di reclusione per associazione mafiosa e corruzione. Fu condannato inoltre a 3 anni e due mesi di carcere (pena condonata) per peculato, interesse in atti d' ufficio, falsità in bilancio, frode e truffa pluriaggravata nel processo per i grandi appalti di Palermo e a 3 anni e 8 mesi per aver pilotato due appalti comunali quando non aveva più cariche pubbliche. Pochi giorni prima che morisse, il comune di Palermo gli presentò un'ingente richiesta di risarcimento, pari a 150 milioni di euro, per danni arrecati all'amministrazione comunale: ne furono recuperati solo sette.
I magistrati che indagarono su di lui lo definirono «la più esplicita infiltrazione della mafia nell'amministrazione pubblica». Nel 1993 il collaboratore di giustizia Pino Marchese dichiarò addirittura che Ciancimino era regolarmente affiliato nella Famiglia di Corleone. Un altro collaboratore di giustizia, Gioacchino Pennino (ex consigliere comunale e mafioso), dichiarò che nel 1981 voleva abbandonare il gruppo di Ciancimino nel consiglio comunale ma venne convocato dal boss Bernardo Provenzano, il quale gli intimò minacciosamente «di restare al suo posto».
Secondo quanto ricostruito dal giornalista Gianluigi Nuzzi, nel 2009, che si è avvalso dell'archivio di monsignor Renato Dardozzi dall'Istituto per le Opere di Religione sarebbero stati manovrati dei soldi diretti a Ciancimino per conto della mafia. A tal proposito il figlio di Vito Ciancimino, Massimo, affermò:
« Le transazioni a favore di mio padre passavano tutte tramite i conti e le cassette dello IOR »
I conti correnti e le due cassette di sicurezza, allo IOR erano coperti da immunità diplomatica e in caso di perquisizione impossibile esercitare una rogatoria con lo Stato del Vaticano. I conti furono gestiti in un primo momento dal conte Romolo Vaselli, un imprenditore che negli anni 1970 controllava la raccolta dell'immondizia di Palermo. In un momento successivo, furono gestiti da prestanome, prelati compiacenti, nobili e cavalieri del Santo Sepolcro. I conti correnti servivano per pagare le famose «messe a posto» per la gestione degli appalti per la manutenzione delle strade e delle fogne di Palermo affidata al conte Arturo Cassina, cavaliere del Santo Sepolcro. La gestione della manutenzione delle strade e delle fogne di Palermo erano gonfiate per circa l'80 per cento del loro reale valore di mercato. Questo surplus era destinato sia alla corrente andreottiana, che in Sicilia faceva capo a Ciancimino stesso, sia un 20 per cento, alle tangenti dovute a Bernardo Provenzano e Totò Riina.
I capitali venivano trasferiti a Ginevra attraverso il deputato Giovanni Matta e Roberto Parisi, al quale faceva riferimento la manutenzione dell'illuminazione di tutta la città. Ciancimino finanziava anche molti prelati, a iniziare dal cardinale Arcivescovo di Palermo Ernesto Ruffini, con soldi elargiti sotto forma di donazioni.
Attraverso questo sistema di compensazioni sulle cassette venivano gestite anche i soldi delle tessere del partito. In queste cassette passò anche una parte della famosa tangente Enimont: Vito Ciancimino incassò dal deputato Salvo Lima o dal tesoriere, come distribuzione di fondi ai partiti, circa 200 milioni delle vecchie lire.

Dopo la condanna
Negli ultimi anni della sua vita, cercò di accreditare un suo ruolo di esperto di "cose di Cosa Nostra": tale ruolo produsse il sospetto che potesse essere "utilizzato" dalle cosche per avvalorare versioni di comodo. Così la Commissione antimafia, che rifiutò di riceverlo in audizione nell'autunno del 1992 malgrado lui si fosse di fatto "proposto" con l'intervista a Giampaolo Pansa a L'espresso in cui cercava di allontanare i sospetti della stagione stragista dalla mafia.

vito ciancimino in tribunale

Nel 1992, nel periodo tra le stragi di Capaci e via d'Amelio, Ciancimino venne contattato dall'allora colonnello Mario Mori e dal capitano Giuseppe De Donno del ROS, il quale dichiarò negli anni successivi: «Decidemmo di contattare in qualche modo la mafia attraverso Vito Ciancimino per fermare le stragi del 1992-93». Il boss Salvatore Riina scrisse allora il suo "papello", in cui venivano elencate le richieste di Cosa Nostra per far cessare la strategia degli attentati in cambio di benefici di legge, nuove norme sul pentitismo e la revisione del Maxiprocesso, e lo fece arrivare a Mori e De Donno tramite Ciancimino. Tuttavia nel dicembre 1992 Ciancimino venne nuovamente arrestato.
Vito Ciancimino morì a Roma il 19 novembre 2002.

vito e massimo ciancimino uscita dal carcere


Presunti rapporti con Silvio Berlusconi
Il 12 novembre 2010 sua moglie Epifania Silvia Scardino rivela al pm di Palermo Antonio Ingroia che suo marito si sarebbe incontrato tre volte a Milano con Silvio Berlusconi tra il 1972 e il 1975. I due avrebbero parlato dello svolgimento del progetto di realizzazione di Milano 2.

vito e massimo ciancimino

Il direttore generale della Banca Popolare di Palermo Giovanni Scilabra, ormai in pensione, ha raccontato ai pm di Palermo di aver avuto un incontro nel 1986 con Ciancimino e Marcello Dell'Utri per un prestito di 20 miliardi da destinare alla Fininvest (di proprietà di Berlusconi). Inoltre i pm stanno facendo degli accertamenti che servirebbero a riscontrare le rivelazioni di Massimo Ciancimino e la documentazione da lui consegnata ai magistrati circa presunti investimenti del padre nel complesso edilizio Milano 2, realizzato da Silvio Berlusconi. Ciancimino avrebbe riferito al figlio Massimo che nella realizzazione di Milano 2 sarebbero stati investiti soldi anche dagli imprenditori mafiosi Salvatore Buscemi e Francesco Bonura. A fare da tramite tra Berlusconi, i costruttori palermitani e l'ex sindaco potrebbe essere stato Marcello Dell'Utri, poi senatore del Pdl, indagato nel 1994, per concorso esterno in associazione mafiosa.



massimo ciancimino



DOCUMENTI


sabato 7 dicembre 2013

FRANCESCO PAOLO BONTATE "Don Paolino Bontà"

francesco paolo bontate al funerale di calogero vizzini

Francesco Paolo Bontate al funerale ci Calogero Vizzini



Francesco Paolo Bontate 

nacque in una famiglia contadina e venne affiliato dal padre nella cosca di Santa Maria di Gesù legata a Cosa Nostra. Nel 1933 Bontate venne arrestato per rissa e detenzione abusiva di arma da fuoco, venendo coinvolto nel secondo dopoguerra nel contrabbando di generi alimentari e nel furto di bestiame e aderendo al nascente Movimento Indipendentista Siciliano. Nel 1954 Bontate era tra coloro che portarono la bara di Calogero Vizzini, boss di Villalba insieme a Genco Russo. Inoltre Bontate divenne un grande proprietario terriero e impose con la corruzione l'insediamento della fabbrica elettronica Raytheon-Elsi nei suoi terreni a Villagrazia, la quale decollò alla fine del 1962: era lui infatti che decideva le assunzioni e risolveva i conflitti sindacali[.
Bontate era pure ben inserito negli ambienti politici: fu il principale elettore di Ernesto Di Fresco, che venne eletto consigliere comunale di Palermo nella lista del Partito Nazionale Monarchico nel 1956, il quale era anche solito farsi accompagnare da Bontate alle sedute del consiglio comunale. Inoltre Bontate fu sostenitore dell'onorevole Silvio Milazzo, il quale formò un governo regionale con l'alleanza trasversale tra comunisti, missini e democristiani; per queste ragioni, Bontate prese a schiaffi un deputato monarchico che non aveva votato per Milazzo mentre si trovavano in un salone di Palazzo dei Normanni alla presenza degli altri deputati regionali.
Nel 1960 Bontate cedette il comando della cosca al figlio Stefano perché si era gravemente ammalato di diabete e nel 1963 venne denunciato per associazione a delinquere ma riuscì ad uscirne indenne. Morì nel 1964 all'età di 50 anni per problemi di salute.


Da don Paolino a Giovanni, saga di una famiglia d' onore

Corriere della Sera di Enzo Mignosi
Ritratto di famiglia sullo sfondo di vecchie trame politico mafiose. Un affresco con tre personaggi che hanno scritto pagine scottanti della storia criminale siciliana. E' la saga dei Bontade, signori di Villagrazia, influente clan il cui capostipite, don Paolino, poteva permettersi di schiaffeggiare in pubblico ministri e deputati.
Allora i Bontade dominavano la scena insieme con gli alleati del vecchio ordine di Cosa Nostra (i Badalamenti, gli Inzerillo, i Gambino) e condizionavano le scelte politiche regionali con una ragnatela di rapporti eccellenti tessuta fin dal dopoguerra, quando don Paolino era sceso in campo in prima persona per aiutare lo Stato a sanare la piaga del banditismo con l' uccisione a tradimento di Salvatore Giuliano.
Un boss che faceva tremare, Paolino Bontade. Nella borgata lo chiamavano rispettosamente "don bonta' " e tutti gli riconoscevano una potenza che lambiva i palazzi romani, se e' vero che era riuscito a portare a Villagrazia uno dei piu' grossi insediamenti industriali dell' epoca, l' Elettronica sicula (oggi Italtel), gestita come fosse una cosa propria.
Era lui che decideva le assunzioni. Era lui che risolveva i conflitti sindacali con l' autorita' del mafioso. Don Paolino fu uno dei padrini del "milazzismo", un' esperienza fondata sull' estromissione della Dc dal governo regionale e sull' alleanza trasversale tra comunisti, missini e transfughi dello scudo crociato confluiti nel Partito cristiano sociale.
Un forte sostegno al governo presieduto da Silvio Milazzo venne dato dai Cambria e dai Salvo, gli esattori che per 30 anni hanno gestito in regime di monopolio la riscossione delle imposte in Sicilia. Era la fine degli anni Sessanta.
Il patriarca non nascose il suo ruolo in quella operazione e tra i saloni dorati di Palazzo dei Normanni prese a schiaffi un parlamentare monarchico che non aveva votato per Milazzo. La lobby finanziaria nata su quella strana intesa politica fu poi costretta a recuperare i rapporti con la Dc, primo partito siciliano, e Bontade, alfiere di quel ritorno alla normalita' , guadagno' gratitudine dal partito cattolico.
Il cospicuo patrimonio di don Paolino, fatto di miliardi e di relazioni politiche, fu ereditato dal figlio Stefano, "il principe" spesso citato da Tommaso Buscetta per quel sorriso enigmatico che "costituiva la sua arma piu' temibile".
Un amico stretto di Lima, ha detto il pentito. L' uccisione di Stefano Bontade, nell' aprile dell' 81, e' la dichiarazione di guerra lanciata dai corleonesi al vecchio schieramento mafioso.
Per farsi da parte in un momento denso di rischi, Nino Salvo rinvia le nozze della figlia e assieme al cugino Ignazio va in crociera nell' Egeo.
Invita Salvo Lima a seguirlo, ma il deputato rifiuta e per proteggerlo, i Salvo gli danno un' auto blindata. Prima di partire, gli esattori chiamano Buscetta in Brasile, gli chiedono di organizzare un esercito da contrapporre a Toto' Riina.
Lo sterminio dei perdenti sta per cominciare e il fratello di Stefano Bontade, l' "avvocato" Giovanni, per salvare la pelle passa con il nemico. Ma sei anni dopo verra' eliminato assieme alla moglie. Buscetta lo disse subito: "Bontade era amico di Salvo Lima. Si incontravano al Baby Luna". Era l' 84. Fu l' unica ammissione sui rapporti tra mafia e politica. "Dottore, non sono tempi", spiego' il pentito al giudice Falcone. Ora i tempi sono cambiati.





giovedì 27 giugno 2013

PIETRO SCAGLIONE


 Buscetta: "Nel ' 70, mi incontrai con Salvatore Greco per un colpo di Stato in Sicilia. Da quel momento, dopo aver parlato, io e Greco andammo via. Liggio decise... di creare un clima di tensione nel mondo politico, per preparare il colpo politico. Ognuno decise quale fosse il politico da colpire. A Palermo fu colpito un fascista. L' obiettivo di Liggio fu il procuratore Scaglione. Perche' in quel momento Scaglione era interessato alle rivelazioni di una donna che aveva accusato Vincenzo Riina. Ma non e' vero che Scaglione era vicino agli uomini d' onore. La verita' e' che bisognava minare le basi dello Stato... Ci chiamo' Pippo Calderone per farci sapere che si stava preparando un colpo di Stato e che Borghese voleva utilizzare i mafiosi in Sicilia

Pietro Scaglione (Palermo, 2 marzo 1906 – Palermo, 5 maggio 1971) dopo essere entrato in magistratura nel 1928 e dopo avere esordito in aula come pubblico ministero negli anni quaranta, Scaglione indagò sulla banda Giuliano e preparò dure requisitorie contro gli assassini del sindacalista Salvatore Carnevale, ucciso nel 1955, negli anni del latifondismo e delle lotte contadine per la redistribuzione delle terre. La parte civile della famiglia Carnevale fu rappresentata dal futuro presidente della Repubblica, il socialista Sandro Pertini, e dagli avvocati Nino Taormina e Nino Sorgi, anche loro socialisti. Si contrapposero ad un altro futuro presidente della Repubblica, il democristiano Giovanni Leone, difensore degli imputati (i campieri della famiglia aristocratica Notarbartolo). L'impianto accusatorio della Procura di Palermo (supportato dalla parte civile) fu, però, vanificato da altre corti. Alla fine, dopo un lungo iter giudiziario tra assoluzioni e condanne in vari tribunali italiani, la Corte di Appello di Santa Maria di Capua Vetere condannò i campieri della principessa Notarbartolo all'ergastolo, accogliendo le intuizioni di Scaglione, Pertini, Sorgi e Taormina.
File:Pietro Scaglione.jpgDiventato procuratore capo nel 1962, Scaglione indagò sulla strage di Ciaculli e inquisì Salvo Lima, Vito Ciancimino e altri politici locali e nazionali. Pietro Scaglione "fu convinto assertore che la mafia aveva origini politiche e che i mafiosi di maggior rilievo bisognava snidarli nelle pubbliche amministrazioni".
Dopo la strage mafiosa di Ciaculli del 1963, grazie alle inchieste condotte dall'Ufficio Istruzione del Tribunale di Palermo (guidato da Cesare Terranova) e dalla Procura della Repubblica (diretta da Pietro Scaglione) "le organizzazioni mafiose furono scardinate e disperse", come si legge nella Relazione conclusiva della Commissione parlamentare antimafia del 1976.
Pietro Scaglione era impegnato anche nel volontariato e divenne Presidente del Consiglio di Patronato per l'assistenza alle famiglie dei carcerati e degli ex detenuti, promuovendo, tra l'altro, la costruzione di un asilo nido; per queste attività sociali, gli fu conferito dal Ministero della giustizia il Diploma di primo grado al merito della redenzione sociale, con facoltà di fregiarsi della relativa medaglia d'oro. Infine, con Decreto dello stesso Ministero della Giustizia del 1991, previo parere favorevole del Consiglio Superiore della Magistratura, Pietro Scaglione fu riconosciuto "magistrato caduto vittima del dovere e della mafia". 



L'omicidio
Scaglione, che era stato da poco destinato a procuratore generale di Lecce, venne assassinato a colpi di pistola il 5 maggio 1971 in via dei Cipressi a Palermo, dopo essere uscito dal cimitero dove era andato a pregare sulla tomba della moglie, mentre era a bordo di una Fiat 1500 nera insieme al suo autista Antonino Lo Russo, che rimase pure ucciso. Il giorno seguente Scaglione si sarebbe dovuto recare a Milano per testimoniare sull'esistenza di una telefonata avvenuta tra il commercialista Antonino Buttafuoco e l'avvocato Vito Guarrasi durante le indagini sulla scomparsa del giornalista Mauro De Mauro, coordinate dallo stesso Scaglione; Buttafuoco infatti era pesantemente implicato nella scomparsa di De Mauro ed era anche strettamente legato a Guarrasi e al boss mafioso Luciano Leggio, a cui era solito fare visita. 
Inoltre Scaglione si era incontrato con De Mauro pochi giorni prima che questi scomparisse perché il giornalista era entrato in possesso di notizie su Vito Guarrasi e l'onorevole Graziano Verzotto, implicati nell'omicidio di Enrico Mattei, presidente dell'ENI.
L'assassinio di Scaglione si può considerare il primo omicidio eccellente compiuto in Sicilia dopo quello di Emanuele Notabartolo del 1893. Dopo la sua morte si diffusero insinuazioni relative ad una sua collusione e disponibilità ad insabbiare le inchieste, voci che molte fonti giudicano errate, come ribadito dalle sentenze irrevocabili, che lo definiscono magistrato integerrimo.
Le motivazioni ed i retroscena dell'omicidio di Scaglione vennero chiariti dal pentito Tommaso Buscetta: il crimine venne deciso da Luciano Leggio ed eseguito da lui stesso insieme al suo luogotenente Salvatore Riina.
In particolare, come scrivono i giudici del celebre Maxiprocesso di Palermo (istruito da Antonino Caponnetto e Giovanni Falcone), Buscetta definì Pietro Scaglione "un magistrato integerrimo e spietato persecutore della mafia". Sempre secondo Buscetta, il delitto sarebbe stato eseguito dai Corleonesi per diversi moventi, tra i quali l'eliminazione di un "nemico giurato della mafia" come Scaglione e la volontà di fare ricadere la colpa del delitto sul clan dei Rimi di Alcamo, per i quali il procuratore Scaglione si accingeva a chiedere il rinvio a giudizio.

La testimonianza di Piero Grasso 
Nel libro la Mafia Invisibile, il superprocuratore antimafia Piero Grasso (intervistato da Saverio Lodato) si occupa ampiamente dell'omicidio Scaglione affermando, tra le altre cose:
« Ricordo le prime campagne di delegittimazione sulla figura del magistrato. Ricordo che circolarono certe voci per gettare ombre sulla sua attività: calunnie poi categoricamente smentite dalle indagini successive. Scaglione aveva sempre tenuto un atteggiamento coerente e rigoroso nei confronti di una criminalità che allora era ancora difficilmente decifrabile come mafiosa. »
(Lodato; Grasso, La mafia invisibile. La nuova strategia di Cosa Nostra, Milano, Arnoldo Mondadori Editore, 2001, p. 91 ss.)


File:Pietro Scaglione - Antonino Lorusso - Lapide Palermo.jpg