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giovedì 12 dicembre 2013

ANGELO RIZZOLI "Angelone"

p2  angelo rizzoli


angelo rizzoli senior
Angelo Rizzoli Senior (1889-1970)
Angelo Rizzoli nasce a Como il 12 novembre 1943 figlio di Andrea Rizzoli, presidente dell'omonima casa editrice, negli anni settanta il primo gruppo editoriale italiano. A 18 anni scopre di essere malato di sclerosi multipla. Con l'aiuto dei medici riesce ad evitare la disabilità totale, rimarrà però claudicante alla gamba destra. A 23 anni si laurea in Scienze politiche all'Università di Pavia; ottiene la specializzazione in Media and communications alla Columbia University di New York. Nel 1970 muore il nonno Angelo senior. L'anno seguente "Angelone", così chiamato per la sua stazza imponente e per distinguerlo dal celebre nonno, entra nel consiglio di amministrazione dell'azienda di famiglia, all'età di 28 anni.
Il 12 luglio 1974 il padre Andrea decide di rafforzare la casa editrice acquistando il primo quotidiano italiano, il Corriere della Sera. Acquisendo il Corriere realizza il suo sogno di imprenditore, ma comincia a fare i conti anche con un enorme indebitamento. Il Corriere perde infatti circa 5 miliardi di lire l'anno, con un tasso di inflazione che in Italia è in costante crescita.
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Angelo rizzoli con il padre
Sede del Corriere della Sera in via Solferino
La sede del Corriere della Sera oggi in vendita

Nel 1978 eredita la presidenza del gruppo, subentrando al padre. Eredita però anche un cumulo di debiti e di aziende non più profittevoli. Pressato dal sistema bancario in pochi anni cede al Banco Ambrosiano di Roberto Calvi, Licio Gelli ed altri iscritti alla loggia P2 il controllo del Gruppo Rizzoli-Corriere della Sera, il tutto all'insaputa dell'opinione pubblica. L'immagine della Rizzoli, primo gruppo editoriale italiano, è all'apice; Angelo junior è considerato un uomo di successo.

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Nello stesso anno conosce ad una festa Eleonora Giorgi: meno di un anno dopo i due si sposano (il testimone di Angelo è il manager Bruno Tassan Din), durante una convention Rizzoli a Venezia, nella cripta della Basilica di San Marco, con Eleonora già incinta di cinque mesi. Nascerà un figlio maschio, cui viene dato il nome di Andrea. Il nuovo piano industriale della Rizzoli prevede il lancio di nuovi investimenti, tra cui la fondazione di un quotidiano di taglio popolare, L'Occhio. I conti della casa editrice sono sempre in rosso. La solidità della Rizzoli-Corriere della Sera dipende ora dalle buone relazioni con i partiti politici, commistioni che il padre di Angelone aveva sempre accuratamente evitato.
arresto angelo rizzoli
Nel 1981 il Corriere della Sera è travolto dallo scandalo della Loggia P2, tra i quali iscritti c'è anche Angelone Rizzoli (tessera n° 532), così come il direttore generale del gruppo Bruno Tassan Din. Con la formalizzazione da parte del Tribunale di Milano (4 febbraio 1983), dell'amministrazione controllata per il Corriere della Sera (l'assemblea dei creditori contava ben 2138 iscritti tra cui banche, collaboratori, rivenditori e società collegate, per un totale di 65 miliardi e 670 milioni di crediti) Angelo, il fratello Alberto e Tassan Din (direttore generale) sono arrestati per bancarotta patrimoniale societaria in amministrazione controllata. L'accusa è di aver «occultato, dissipato o distratto» oltre 85 miliardi di lire.
Il fratello Alberto subisce due mesi di carcere e il sequestro dei beni, per poi essere prosciolto in istruttoria. Angelone rimane in carcere 13 mesi. Durante la detenzione del figlio, il padre Andrea è colto da infarto e muore. La sorella minore Isabella, appena diciottenne, è indagata e privata del patrimonio. Minacciata più volte di arresto, cadrà in una forte depressione e si suiciderà nel 1987, a 22 anni. Tutti i beni di Angelo Rizzoli jr, incluso il 50,2% della casa editrice rimasto in suo possesso, gli sono sequestrati e affidati ai custodi giudiziari.
Rizzoli non ne può disporre neanche dopo il ritorno in libertà: i custodi giudiziari vendono i suoi beni a chi è stato loro indicato dai giudici del Tribunale di Milano (una cordata che comprende Gemina, Montedison, Mittel e Giovanni Arvedi). Secondo Rizzoli, i beni vengono ceduti a un prezzo molto inferiore al loro valore di mercato, causandogli un notevole danno economico. «Il restante 50,2% delle mie azioni [è stato svenduto] per circa 9 miliardi, a fronte di una perizia contabile eseguita per conto del tribunale di Milano dal professor Luigi Guatri, già rettore della Bocconi, che valutava il solo patrimonio attivo, senza valori di testata e di avviamento, almeno 270 miliardi di lire».
Angelone fa causa ai compratori della sua ex casa editrice, ma l'istanza viene rigettata: il tribunale accerta la congruità del prezzo e del dissesto della società. Nello stesso annus horribilis 1984, il 19 gennaio la Corte d'Appello civile di Roma condanna Rizzoli, mentre è ancora in carcere, per condotte distrattive a danno di Cineriz. Sei mesi dopo l'uscita dal carcere inizia anche la causa di separazione con la moglie, per "incompatibilità della vita in comune". Nei mesi successivi Eleonora Giorgi chiede la metà del patrimonio del marito, valutabile in 400 miliardi di lire. Ottiene 10 miliardi di lire.
morte angelo rizzoliNel 1985 Rizzoli versa 4 miliardi di lire alla nuova proprietà del gruppo editoriale, per saldare ogni debito personale con la sua ex azienda. Dopo un lungo periodo di silenzio, negli anni novanta Angelone Rizzoli riprende l'attività come produttore cinematografico e televisivo. Tra le sue produzioni, «Padre Pio» con Sergio Castellitto, «Incompreso», «Cuore», «La guerra è finita» e «Le ali della libertà» con Sabrina Ferilli. Oggi la sua società di produzione fattura oltre 50 milioni di euro all'anno.
Angelone Rizzoli si sposò con Melania De Nichilo (conosciuta nel 1989), medico e parlamentare del PDL, da cui ha avuto due figli, Arrigo e Alberto. Ha vissuto gli ultimi anni della sua vita a Roma, nel quartiere Parioli. È scomparso proprio nella Capitale, presso il Policlinico Gemelli, nella serata dell'11 dicembre 2013 all'età di 70 anni.

angelo rizzoli


Vicende giudiziarie
Angelone Rizzoli è stato chiamato in giudizio sei volte dalla magistratura italiana. Nel 1983 viene arrestato per bancarotta fraudolenta in amministrazione controllata. È accusato di aver fatto sparire i fondi destinati all’aumento di capitale del 1981. Per questa vicenda Rizzoli venne condannato, con pena condonata, a tre anni e quattro mesi di reclusione. In un processo successivo del 1992 la Cassazione sentenziò che l'imprenditore non aveva trattenuto una parte dei fondi pagati da "La Centrale" di Roberto Calvi”. Quei fondi erano scomparsi per opera di Tassan Din, Gelli e Ortolani.
angelo rizzoli tassan din
Rizzoli e Tassandin
Tre sentenze successive, pronunciate dalla Cassazione, dalla Suprema Corte d’Irlanda e dalla giustizia elvetica, hanno riconosciuto che i fondi del falso aumento di capitale furono trasferiti sui conti Recioto, Zirka e Telada presso la Rothschild Bank di Zurigo e di lì occultati in paradisi fiscali. La sentenza del 1992 viene ribadita in corte d'appello nel 1996: Rizzoli era totalmente estraneo all’operazione, come poi dimostreranno con sentenza definitiva i magistrati milanesi che si sono occupati del crac del Banco Ambrosiano.
La Corte d'Appello Civile di Milano, nel gennaio 1996, condanna invece Rizzoli per diffamazione (fatto avvenuto nel 1984) nei confronti di Giovanni Bazoli, allora presidente del Nuovo Banco Ambrosiano. Tale giudizio si è concluso con la condanna dello stesso Angelo Rizzoli a risarcire il danno (come accertato dal Tribunale di Brescia con sentenza del 28 ottobre 1998). Nel 2006 il reato per cui fu arrestato nel 1983 è stato depenalizzato; successivamente Rizzoli ha chiesto l'archiviazione del caso. Il 20 novembre 2007 il Tribunale di Milano ha rigettato la richiesta, ma Rizzoli ha presentato ricorso avverso la sentenza. Il 26 febbraio 2009 la Corte di Cassazione ha accolto il ricorso ed ha revocato la sentenza di condanna per bancarotta. Tolta l'unica condanna (in sede civile) per diffamazione, Angelone Rizzoli è incensurato davanti alla giustizia italiana.
Al termine della lunga vicenda giudiziaria (durata sei processi per 26 anni complessivi) che riguarda la casa editrice, Rizzoli ha ottenuto sei assoluzioni definitive con formula piena. Successivamente l'imprenditore ha deciso di intraprendere ogni azione legale possibile per vedere ristabilito il suo diritto nei confronti della cordata che, a suo dire, rilevò l'azienda non a prezzi di mercato ma utilizzando il ricatto del carcere. Resta infatti la grande questione di come le procure abbiano potuto accusare i dirigenti della Rizzoli di bancarotta quando l'azienda rimaneva a tutti gli effetti sul mercato. E ancora, resta fortissima l'impressione generale di un'operazione poco trasparente, considerando anche come i presunti debiti Rizzoli non siano mai arrivati nemmeno ad 1/5 del valore dei beni posseduti dall'azienda.
Nel 2010 Angelone Rizzoli ha avanzato la richiesta di risarcimento danni: nel gennaio 2012 il Tribunale di Milano ha però respinto l'istanza ed ha inoltre condannato l'imprenditore a risarcire i convenuti per "lite temeraria". Il 14 febbraio 2013 venne arrestato a Roma con l'accusa di bancarotta fraudolenta.



In un’intervista a Claudio Sabelli Fioretti, Angelone Rizzoli ha detto:
« Sono passato una sola volta in via Angelo Rizzoli, a Milano. Fu un’emozione enorme. Mi trovavo davanti a qualcosa che si chiama Rizzoli, ha sede in via Angelo Rizzoli, è stata costruita da Angelo Rizzoli e io mi chiamo Angelo Rizzoli. Sogno sempre di tornarci da proprietario. Ma Hölderlin diceva: "L’uomo è un dio quando sogna e un pezzente quando riflette". Quando rifletto mi metto il cuore in pace. Non tornerò mai più a Milano. Mai più in via Rizzoli. »
Nel 1991 rilasciò un'intervista al settimanale L'Europeo in cui fece luce sui suoi rapporti con i partiti politici nel periodo in cui fu alla testa del gruppo editoriale. Ebbe a dire:
« In quella fine degli anni settanta la classe politica italiana, senza esclusione di nessun partito, diventa famelica, dà la caccia ai soldi delle imprese. I partiti sono immense macchine elettorali, costano [così] tanto che non c'è nessun partito in grado di far quadrare i conti. »
« La pressione pluripartitica [faceva leva] su due punti di forza per incidere nelle decisioni aziendali (…). Uno era l'assillo finanziario, come sapevano egregiamente il segretario della DC Amintore Fanfani, o il presidente dell'IMI, Giorgio Cappon (…). L'altro era il potere sindacale, cui erano aggrappati il principale partito d'opposizione, il PCI, i comitati di redazione, i poligrafici. »
Il 23 agosto 2009, in un dibattito tenuto a Cortina d'Ampezzo all'interno della rassegna Cortina Incontra per la presentazione del libro "Vaticano Spa" di Gianluigi Nuzzi, ha ribadito di essere tuttora incensurato ed ha ricostruito e raccontato la sua personale esperienza giudiziaria (che definisce "persecuzione"). In un'intervista successiva Rizzoli rievoca le circostanze che determinarono, nel 1983, l'inizio del suo calvario giudiziario:
« [L'insolvenza] aziendale si verificò nel momento in cui il Banco Ambrosiano disse di aver sottoscritto un aumento di capitale, che in realtà non venne mai versato: quei soldi finirono su conti esteri e io fui accusato di aver distratto i fondi. Una trappola studiata a tavolino. »
In una lettera aperta al Corriere della Sera, Rizzoli fornisce maggiori particolari: si trattò di un aumento di capitale di 150 miliardi di lire, sottoscritto da «La Centrale Finanziaria S.p.A.» (finanziaria presieduta da Roberto Calvi). Il denaro, invece di essere depositato nelle casse della Rizzoli, fu trasferito presso alcuni conti della Banca Rothschild di Zurigo denominati Zinca, Recioto, Telada, ad opera di funzionari di quella stessa Banca fiduciari di Bruno Tassan Din e Umberto Ortolani. Rizzoli aggiunge che i vertici della Banca svizzera furono condannati a vari anni di reclusione per avere distratto circa 180 milioni di dollari di fondi destinati alla Rizzoli verso conti del cosiddetto «gruppo dei BLU» (Bruno Tassan Din, Licio Gelli, Umberto Ortolani).

RIZZOLI ALLA P2: UNA SCELTA DEL REGIME LA SPARTIZIONE DELLE TESTATE DC PSI. L'ALLEANZA TASSAN DIN PCI, SIPRA E LEGGE PER L'EDITORIA
di Massimo Teodori
A partire dall'autunno 1981 le grandi manovre per l'acquisto del »Corriere sono in pieno svolgimento con i partiti che patrocinano o fanno fallire i diversi tentativi di soluzione. A loro volta Calvi e Tassan Din li favoriscono o li ostacolano nella misura in cui possono servire a rinsaldare i rapporti con i partiti . Dapprima il sen. Bruno Visentini, presidente del PRI oltre che della Olivetti, tenta la scalata al »Corriere in sostegno di un qualche progetto di governo dei buoni tecnici e, poi, ripete il tentativo il finanziere Giuseppe Cabassi con l'assenso del PSI e di una parte della DC. Ma i socialisti insorgono contro l'ipotesi Visentini sì da arrivare nel settembre 1981 quasi a mettere in crisi il governo Spadolini con un ultimatum di Claudio Martelli; e, specularmente, nel periodo successivo, Tassan Din ostacola il progetto Cabassi enunciando la legge partitocratica che doveva guidare qualsiasi operazione: »non mi sembrava giusto vendere ad un solo partito, il PSI, che stava dietro Cabassi . In un memoriale, lo stesso direttore generale della Rizzoli specifica la sua filosofia: »Mentre intrattenevo rapporti, stipulavo accordi con Gelli, Ortolani e Calvi, dall'altra parte contemporaneamente e per tutto il periodo considerato e cioè fino al 1982, avevo stretto legami e rapporti con la Banca Commerciale, con il prof. Visentini e, in campo politico, con alcuni esponenti del Partito comunista come, ad esempio, Adalberto Minucci e Gianni Cervetti .
Fallite le diverse operazioni di vendita variamente patrocinate, verso la fine del 1981, Calvi arriva a ventilare anche la possibile ipotesi di una formale spartizione del »Corriere fra i partiti se questa estrema offerta avesse potuto risolutamente giovare alla sua posizione di fronte alla giustizia. E quel metodo di scambio politica finanza editoria giustizia che per anni aveva rappresentato la filosofia operativa dei Gelli, Ortolani e Tassan Din, viene riproposto da Calvi e dai suoi consiglieri e suggeritori Pazienza, Carboni, Wilfredo Vitalone con una soluzione formale che avrebbe consentito al presidente dell'Ambrosiano in disgrazia di incassare quell'utile non finanziario messo in rilievo al momento dell'acquisizione alla Centrale del 40% della proprietà del gruppo.
Si susseguono durante l'inverno 1981 82 riunioni, proposte e trattative sulla base di progetti spartitori. Ad alcune di queste manovre partecipa direttamente l'on. Giuseppe Pisanu, sottosegretario al Tesoro, da alcune testimonianze indicato come delegato di Piccoli e della DC a seguire la vicenda del »Corriere . Mentre si sviluppa allo stesso scopo un rapporto stretto con il PSI di Craxi e si cerca un aggancio con il PCI, Calvi mette sul piatto della propria salvezza, insieme a molti miliardi per la corruzione, anche il »Corriere , individuando nel PSI, nella DC e nel PCI gli interlocutori di sempre che potevano contribuire a ribaltare la sua precaria situazione di fronte alla giustizia e alle autorità di controllo e vigilanza finanziaria.
Certo quella di Calvi e dei suoi consiglieri era una visione paradossale e semplificata della realtà, magari distorta dall'ottica di chi si sentiva assediato. Ma, al fondo, corrispondeva alla natura dei rapporti instaurati negli anni precedenti fra il complesso piduistico e i partiti. Da parte loro, i partiti e i loro rappresentanti non fanno che confermare naturalmente in forme diverse da quelle immaginate da Calvi il loro interesse per il »Corriere , per il mantenimento o l'alterazione di determinati equilibri.
Il presidente del Consiglio, Craxi, di fronte alla commissione dichiara: »Per quanto riguarda la questione del "Corriere", c'è un punto fermo nel ragionamento di Calvi: che ogni soluzione che si possa prospettare definitiva per la sistemazione del futuro assetto del gruppo deve ottenere un vasto consenso politico di democristiani, di socialisti e di comunisti. E' ho ragione di ritenere, e ho ragione ben fondata e ben informata di ritenere, che tenesse su questo tema poi si è visto anche su altri, cioè sui finanziamenti che il Banco Ambrosiano erogava rapporti diretti con persone responsabili ed autorevoli di questi tre partiti... . Tale ragionamento di Craxi converge con le valutazioni che, dall'altra sponda della questione, avanza Angelo Rizzoli: »La classe politica ci ha fatto molte promesse e non ne ha mantenuta nessuna, ma nel cuor suo aveva in mente una cosa, portarci via il "Corriere" e, questa, è l'unica promessa che ha mantenuto .
Altre opinioni convergenti sono avanzate da protagonisti come Piccoli: »Mi occupai del "Corriere" come segretario della DC così come se ne occuparono i segretari di tutti gli altri partiti, perché tutti intervennero... ; mentre le smentite di Spadolini (»Ignoravo qualunque contatto con la società finanziaria per il nuovo gruppo del "Corriere"... Non ho mai chiesto niente, non ho ricevuto niente dal ''Corriere'' ) sono frontalmente contraddette dalla testimonianza di Angelo: »Spadolini quando era a Milano veniva tutti i lunedì di pomeriggio a trovarmi in ufficio per chiedere, per fare... Dopo di che, appena io sono uscito dal "Corriere", non si è fatto più vedere. Del resto è naturale: il rapporto con i politici è direttamente proporzionale al potere che hai... . Dal canto suo, il PCI, attraverso suoi autorevoli esponenti, intrattiene rapporti privilegiati con Tassan Din e ciò in coerenza con il giudizio che nel luglio 1980 Adalberto Minucci, incaricato del settore stampa del PCI, dava sulla situazione: »Il gruppo Rizzoli rappresenta ancora una editoria relativamente aperta al pluralismo e la mia personale convinzione è che questa sia la ragione perché si stia facendo il possibile per liquidarlo o minarne definitivamente l'autonomia .
I progetti di vendita con patrocini e veti ed i rozzi tentativi di Calvi di spartizione del »Corriere fra i partiti non arrivano a termine perché interviene la morte di Calvi e la conseguente bancarotta dell'Ambrosiano. Anche dietro le lotte che segnano il passaggio dal vecchio al nuovo Ambrosiano si intravede il problema del controllo della Rizzoli, per il quale basta richiamare solo alcuni episodi. Il socialista Nerio Nesi della Banca Nazionale del Lavoro insorge contro il democristiano Piero Schlesinger della Banca Popolare di Milano perché propone un comitato di garanti non equilibrato, leggi non lottizzato adeguatamente dal punto di vista del PSI; a sua volta il sostegno portato dal PCI alle posizioni di Tassan Din, fino a quando la decenza lo ha consentito, segna l'attestarsi dei comunisti su una linea di difesa ad oltranza di un equilibrio facente perno sul direttore Alberto Cavallari (che sostituisce Di Bella nel giugno 1981), sostenuto in un primo tempo dal garante senatore Giuseppe Branca della Sinistra indipendente e sulla forza contrattuale degli organismi sindacali dei giornalisti e dei tipografi.

DOCUMENTI


domenica 8 dicembre 2013

SCANDALO ENI PETRONIM


ENI - PETROMIN, ORTOLANI ACCUSA IL MANAGER PSI
Il finanziere Umberto Ortolani, interrogato ieri dalla seconda Corte d' assise di Roma nell' ambito del processo contro la loggia massonica P2, ha spiegato come avvenne il suo ingresso nella massoneria e i suoi rapporti con Licio Gelli. "Contattai il venerabile nel ' 73", ha raccontato, "avevo bisogno di qualcuno che mi aiutasse a frenare i virulenti attacchi di Mino Pecorelli su Op contro di me. Alcune persone mi indicarono Gelli come l' uomo che mi poteva aiutare". Erano gli anni 70 e su Op infatti, secondo quanto ha detto in aula l' ex banchiere, erano comparsi alcuni articoli in cui si diceva che se l' Argentina voleva salvarsi doveva liberarsi di alcuni uomini, in particolare dello stesso Ortolani. Il quale, ha spiegato ieri, aveva molti interessi in quel paese e tra questi la proprietà di un importante istituto di credito, il ' Banco Continental' . Gelli, secondo quanto è stato detto in aula, prese in considerazione la richiesta d' aiuto di Ortolani ma per agire chiese una controparte: l' avvocato doveva iscriversi a quella che lui definì un' associazione culturale. Ortolani ha detto d' aver aderito alla proposta pur non ignorando che di massoneria si trattava. Nonostante ciò gli attacchi di Pecorelli, anche se meno virulenti, continuarono. Nel corso dell' udienza, sollecitato dal presidente della Corte d' assise, Sorichilli, l' ex banchiere ha raccontato di come una quota della Rizzoli e quindi del Corriere della sera diventò di proprietà dello Ior, la banca vaticana, attraverso l' interessamento di Calvi, sollecitato a sua volta dallo stesso Ortolani. "Andrea Rizzoli venne da me e mi disse - ha dichiarato l' imputato - che stava per scadere il termine entro il quale doveva pagare una forte somma di denaro alla famiglia Agnelli. Una considerevole somma di denaro Ma non aveva i fondi per farlo; perciò io mi impegnai, contattando Calvi, a recuperare i 23 miliardi necessari". Fu in questo modo che una quota del Corriere passò di mano. Da quel momento il quotidiano, secondo quanto ha raccontato Ortolani, cominciò a pubblicare articoli "influenzati da Gelli". Uno di questi riguardava un pesante attacco contro la Fiat e la stessa famiglia Agnelli. Un secondo articolo, firmato da Maurizio Costanzo, raccontava di un "burattinaio" che capiva meglio degli altri quello che stava accadendo in Italia. La persona in questione, di cui Costanzo faceva nome e cognome - ha affermato sempre Ortolani - era proprio Licio Gelli. "Costanzo - ha spiegato l' imputato - agiva così perchè voleva ingraziarsi Gelli in quanto aveva bisogno di soldi per aprire il suo giornale, L' Occhio, che effettivamente fu aperto in seguito, e costò alla Rizzoli molto denaro". Il finanziere è poi passato a parlare a lungo dell' onorevole Rino Formica. "Formica", ha raccontato Ortolani, "chiese a Ruggero Firrao (arrestato in Svizzera e proprio oggi sottoposto a interrogatorio per rogatoria da parte dei magistrati che si occupano delle tangenti sulla Sace) di introdurlo presso di me. Io lo invitai a colazione a casa mia e lui mi chiese 500 milioni per finanziare la sua campagna elettorale. In seguito mi tempestò di richieste e io rifiutai di rivederlo". A conclusione dell' udienza il presidente della Corte ha sollecitato Ortolani a parlare della ' Sophilau' , la società di Panama che fece da mediatrice tra Eni e Petromin (l' ente per il petrolio dell' Arabia Saudita) per la fornitura all' Italia di 91.250.000 barili di greggio. La ' Sophilau' si rivelò in seguito essere una società fantasma che smistava il denaro pagato per la mediazione su conti bancari in Svizzera intestati a sconosciuti. Ieri Ortolani ha ammesso per la prima volta il fatto che ad acquistare la società "era stato un finanziere con il doppio cognome legato al Psi". Interpellato, l' avvocato di Ortolani, Luciano Revel, ha confermato che il suo assistito si riferiva a Mach di Palmstein. Una richiesta a Palazzo Chigi Proprio sulla documentazione consegnata ai magistrati dall' ex presidente della Repubblica Francesco Cossiga in relazione all' affare Petromin la corte ha emesso un' ordinanza con la quale si chiede al presidente del Consiglio se conferma il segreto di Stato sugli omissis che vi sono contenuti. Stamani riprenderà l' interrogatorio del finanziere proprio sull' argomento ' Sophilau' . In serata sono giunte le precisazioni e le smentite delle persone citate nel corso dell' udienza dall' ex finanziere. Maurizio Costanzo ha affermato che "nel 1980 il giornale L' Occhio era uscito da un anno e io non me ne ocupavo più". Non solo. "L' intervista pubblicata dal Corriere, ha aggiunto il presentatore televisivo, era palesemente a Licio Gelli e lui si definiva, in una risposta, ' burattinaio' ". Replica anche dell' onorevole Rino Formica, citato anche egli a proposito di un finanziamento di 500 milioni. "Si tratta di una storia vecchia e già chiusa. Ortolani fece affermazioni di questo genere nel 1980 con una lettera sul Corriere della sera in cui sostenne di avere avuto da me richieste di finanziamento per il Psi e che, sempre su mia richiesta, il Psi non voleva essere lasciato fuori dall' affare Eni-Petromin". "Per queste affermazioni - ha ricordato Formica - Ortolani fu condannato nel 1982 dal Tribunale di Roma a quattro mesi di reclusione per diffamazione aggravata a mezzo stampa nei miei confronti. Prima di arrivare al processo d' appello, Ortolani ritrattò tutto".

Strane storie e mezze verità sulla maxitangente Eni-Petromin
intervista a Donato Speroni di Roberto Paglialonga11 Ottobre 2009
Siamo in una fase di bagarre energetica. Lo Stato vive una forte destabilizzazione istituzionale. I potentati economici si azzuffano e speculano, gli scandali politici sono all’ordine del giorno. Sembra oggi, ma è il 1979. L’Eni firma un megacontratto petrolifero con i sauditi e subito scoppia l’affaire Eni-Petromin. Per assicurarsi il greggio a prezzi vantaggiosi, infatti, è previsto che dagli uffici di San Donato Milanese sborsino una tangente di oltre 100 miliardi di lire, più o meno 400 milioni di euro attuali. Quattro volte la “madre di tutte le tangenti”, quella per la Enimont. Donato Speroni, giornalista di lungo corso, già al Corriere della Sera e vicedirettore de Il Mondo, direttore poi di Capitale Sud, era al tempo direttore centrale dell’azienda del “cane a sei zampe”, e quella vicenda la visse sulla propria pelle. Ha messo insieme i pezzi del puzzle e ne è nato “L’intrigo saudita. La strana storia della maxitangente Eni-Petromin”, uscito pochi giorni fa per Cooper. 
Speroni, si è messo nel filone degli instant book sul malcostume della politica italiana che furoreggiano ultimamente?
«Beh, instant non direi. Ci ho lavorato quindici mesi e sono trent’anni che penso a questo libro, come si può leggere nell’introduzione, liberamente scaricabile dal sito www.intrigosaudita.it . Gli instant book sono leggerini, questo ha la bellezza di 454 pagine...
Io racconto che lo scandalo Eni-Petromin fu innanzitutto un “errore mediatico”. Non un errore giudiziario, perché non ci fu mai alcun processo; ci fu invece un grave errore di valutazione di alcuni giornali che si fecero manipolare da chi era interessato a far scoppiare lo scandalo. Certo fu un episodio di malcostume».
Per l’affare Eni-Petromin però lei parla di “scandalo non scandalo”. Perché rivangare una vicenda di trent’anni fa allora?
«Per due ragioni. Una oggettiva, di giustizia: la memoria collettiva ricorda la vicenda Eni-Petromin come una storia di finanziamenti ai partiti gestita dalla P2 per comprare alcune testate importanti dell’editoria italiana. Io dimostro che non è così, alla luce di testimonianze importanti, che i giudici valutarono decidendo di non dar corso ad alcuna incriminazione, ma che furono sostanzialmente ignorate dai giornalisti perché arrivarono cinque anni dopo, quando quella storia non interessava più a nessuno. La seconda è personale. Trent’anni fa ero uno dei direttori centrali dell’Eni, responsabile dei rapporti con il governo, la politica, i media. Ho vissuto in diretta la decadenza dell’Eni innescata da questa storia, finché non ho deciso di ritornare al giornalismo come vicedirettore al mio giornale, Il Mondo. Su questa vicenda avevo maturato opinioni, ma non certezze. Ho aspettato di avere il tempo per ricostruirla con calma. Insomma, questo per me era un impegno professionale che ho tenuto in serbo per trent’anni». 
Cerchiamo di capire allora. Cosa successe quando Giorgio Mazzanti arrivò alla presidenza dell’Eni?
«L’arrivo di Mazzanti alla presidenza dell’Eni, nel febbraio 1979, coincise con quello di Khomeini in Iran, cioè con la seconda crisi petrolifera. Mazzanti, collaboratore del premio Nobel Giulio Natta, era un tecnico di valore. E lo è ancora, visto che è ancora consulente internazionale a 81 anni. Però ingenuamente non aveva valutato il peso dei condizionamenti partitici sulle partecipazioni statali. Fece delle promesse ai politici, poi cercò di sfuggire alla stretta dei partiti con una strategia “alla Enrico Mattei”, cercando grandi contratti internazionali sul mercato del petrolio. Ma i tempi erano cambiati e gliela fecero pagare». 
Lei scrive che in parte si è trattato di una storia dei segreti di Pulcinella. In dettaglio, per esempio: se la tangente per il contratto con la Petromin venne effettivamente pagata, e tutto fu dichiarato e trasparente, perché tanto clamore?
«L’Italia era in un regime di controlli valutari. La tangente pagata dall’Agip (per conto dell’Eni) alla società panamense Sophilau fu ufficialmente autorizzata dal ministero del Commercio estero. Era una delle 30mila tangenti che all’epoca gli italiani pagavano ogni anno per fare affari all’estero. Però doveva rimanere segreta. Nel momento in cui qualcuno fece circolare il contratto, i politici di tutti i partiti si insospettirono e ciascuno pensò che i soldi andassero ai suoi avversari, visto che lui non vedeva il becco di un quattrino. Anche perché, diciamolo, l’Eni all’epoca finanziava abbondantemente i partiti attraverso le finanziarie estere, come emerse successivamente. Insomma, nessuno voleva credere che ci fosse una tangente “pulita”, che andava davvero ai sauditi. E questa è l’anomalia di questa storia rispetto ai tanti scandali italiani».
E ancora: visto che le “mediazioni” con gli arabi per assicurarsi contratti vantaggiosi erano la prassi, perché da Riad negarono sempre l’esistenza della tangente e il suo pagamento?
«Perché per gli arabi la mediazione era ufficialmente illegale. Le leggi saudite infatti non consentivano intermediazioni su contratti petroliferi. Anche se, come spiegò l’ambasciatore italiano a Riad, Alberto Solera, in realtà erano la prassi anche nel mondo dell’oro nero. Ma anche Solera questa spiegazione potè darla alla Commissione Inquirente del Parlamento soltanto anni dopo, quando era stato trasferito a Berlino... E non dimentichiamo che su tutta questa storia, per proteggere i rapporti con l’Arabia Saudita, in Italia grava ancora il segreto di stato. Trent’anni dopo!». 
Che cosa non sappiamo ancora di quanto accadde con i sauditi?
«Sappiamo che furono loro a gestire la tangente, che la divisero in sei conti svizzeri nessuno dei quali destinato a italiani. Non sappiamo con certezza, ma possiamo supporre, che una parte importante della tangente non andasse a finanziare donne e champagne dei principi in Costa Azzurra, ma fosse destinata ai palestinesi dell’Olp». 
Il terrorismo palestinese…
«La mia ipotesi, che ho scritto prima di intervistare Cossiga ma che il presidente del Consiglio dell’epoca sostanzialmente conferma trent’anni dopo, è che quei soldi servissero almeno in parte a finanziare l’Olp con la connivenza dei servizi segreti italiani, che in quel momento storico, attraverso il colonnello Stefano Giovannone a Beirut, cercavano di rompere la saldatura tra terrorismo palestinese e Brigate rosse». 
Molti però sostengono ancora che quei soldi fossero funzionali a ungere i meccanismi di partiti politici, consorterie, clan.
«In questa storia partiti, consorterie e clan ci sono tutti. Ed è un periodo di grande corruzione, lo stesso periodo dello scandalo del Banco Ambrosiano, della P2, di una involuzione durata quasi 15 anni che finì con il suicidio di Raul Gardini e Gabriele Cagliari, i protagonisti dello scandalo Enimont. C’è da stupirsi che l’Eni abbia potuto risollevarsi e cambiar pelle. Però lo ripeto: ci sono testimonianze che in questo caso i soldi non sono ritornati in Italia, mentre non c’è alcuna prova del contrario».  
In effetti nel suo libro compaiono praticamente tutti i protagonisti della Prima Repubblica: Craxi, Andreotti, Cossiga, Signorile…
«Andreotti da presidente del Consiglio avallò il contratto, poi passò la mano al primo governo Cossiga, che inizialmente difese l’operato dell’Eni, poi cedette alle pressioni dei socialisti sacrificando Mazzanti, inviso ai craxiani perché considerato vicino a Signorile della sinistra socialista. Craxi fu il mattatore che costrinse Mazzanti alle dimissioni. Quando Mazzanti protestò con lui anni dopo, dicendo “mi avete costretto a dimettermi per i vostri giochi politici, ma io sono un tecnico”, Craxi gli rispose gelidamente: “Lei sbaglia, la presidenza dell’Eni è un incarico politico”».
Quando e perché entra in gioco la loggia P2?
«Licio Gelli cercò di sfruttare la situazione per acquisire maggiore potere e riuscì ad irretire lo stesso Mazzanti, quando questi stava per essere fatto fuori dalla presidenza dell’Eni. Ma posso testimoniare (e nel libro racconto come mai) che Mazzanti non conosceva Gelli e non aveva rapporti con la P2 al momento della stipula del contratto. Io sono convinto che in questo caso il burattinaio dello scandalo stava all’estero: qualcuno che mescolò informazioni vere e false e riuscì a muovere a suo piacimento partiti, giornali e anche mestatori di professione come il capo della P2». 
C’era qualcuno interessato a mettere fuori gioco l’Eni quindi?
«A vari livelli. Oltre al Mossad, il servizio segreto israeliano, per ragioni politiche, non gradivano il ruolo dell’Eni in Arabia saudita né i francesi né gli americani che a Riad per ragioni diverse avevano una posizione privilegiata. In Italia invece giocarono contro Mazzanti sia la diffidenza dei democristiani liberisti dell’Arel guidati da Umberto Agnelli e Beniamino Andreatta che non gradivano un rafforzamento di una impresa di Stato, sia le manovre socialiste che sfruttarono alcuni errori formali nella gestione del contratto per cercare di imporre un loro candidato alla guida dell’Eni: un tentativo che continuò ancora per anni, portando alle dimissioni altri tre presidenti dell’Eni che non si piegavano alla loro volontà». 
Insomma, sapremo mai la verità o anche questa storia è destinata a entrare nel lungo elenco dei misteri italiani?
«Una verità mi sembra appurata: Mazzanti era innocente, la tangente non è stata architettata per finanziare i partiti italiani. Più difficile capire chi ha voluto far saltare questo contratto. Forse un giorno, quando si apriranno gli archivi di qualche servizio segreto estero... Ma in Italia, ripeto, la vicenda è ancora coperta dal segreto di Stato».
Da giornalista si trovò dall’altra parte della barricata. Come visse quei momenti?
«Ho cercato di raccontarlo nel libro, mettendo in ogni capitolo, alla fine della ricostruzione che ho voluto fare in modo oggettivo, un paragrafo di testimonianza personale. Probabilmente ero la persona sbagliata, a quel posto, perché proprio il fatto di essere stato giornalista, capo della redazione romana di un settimanale indipendente e aggressivo come Il Mondo di Paolo Panerai, faceva sì che i politici mi guardassero con sospetto. Direi che il sentimento prevalente fu di rabbia e frustrazione, per veder distruggere un grande disegno di rilancio dell’Eni sui mercati internazionali. La stessa rabbia che Giorgio Mazzanti, nell’intervista che gli ho fatto qualche mese fa, confessa di provare ancora adesso...» 
Speroni, allarghiamo lo sguardo. Strategie di disinformazione, pubbliche calunnie, manovre politiche, indagini senza indizi e accuse senza prove… Ha descritto scenari agghiaccianti. E’ cambiato qualcosa da allora?
«Il clima politico e i rapporti tra politica e informazione mi sembrano ancora peggiori di quelli di trent’anni fa. Forse una cosa è cambiata in positivo. I partiti non pretendono più di comandare a bacchetta le imprese nelle quali lo Stato ha una partecipazione. L’Eni ha una sua autonomia e un suo prestigio internazionale. Ma attenti a non tornare indietro!» 
Un’inchiesta in grande stile, “L’intrigo saudita”, costruita in oltre trent’anni di carriera da quel famigerato 1979. Si legge come un thriller di Ian Fleming. Ma è solo la storia d’Italia, almeno in parte.



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martedì 3 dicembre 2013

ALBERT BERGAMELLI




Albert Bergamelli

nato in Francia (Vitry-sur-Seine, 6 settembre 1939) ma italiano di origine, sin dagli anni della sua adolescenza, Bergamelli frequenta la malavita delle bische clandestine marsigliesi occupandosi di piccole rapine e furti di vario genere nel Sud della Francia.
Il suo primo arresto, per furto, lo subisce all'età di diciassette anni e sconta, così, un anno di reclusione nel carcere minorile di Salum. Nel 1963, in occasione del secondo suo arresto, avvenuto questa volta a Lione, rinchiuso nel carcere di Melun, invece di aspettare la scadenza naturale della pena decide di evadere e di passare la sua latitanza nel Nord Italia.

Albert Bergamelli da giovane

La Banda del Mec

Bergamelli riappare alla cronaca il 15 aprile del 1964, protagonista di una rapina nella centralissima via Montenapoleone di Milano dove, assieme ad altri sei malavitosi tutti francesi, fa irruzione in una gioielleria rubando denaro e preziosi per un bottino di duecento milioni di lire. Solo otto giorni dopo il fatto, però, Bergamelli e i suoi complici (passati alla storia come i sette uomini d'oro) vennero tutti arrestati e, nel 1966, processati e condannati a scontare pene comprese fra i tre e i nove anni di reclusione.
Bergamelli finisce nel carcere di Alessandria dove, tramite corrispondenza, fa la conoscenza di una ragazza campana, Felicia Cuozzo, che diventerà poi sua moglie e resterà a lui legata fino alla fine dei suoi giorni. Nel 1967 lascia il carcere per finire di scontare la pena in soggiorno obbligato in un paesino del modenese, dal quale però si sottrae molto presto per tornare in Francia e mettere su una banda di rapinatori attraverso cui il suo nome salirà al primo posto della lista dei ricercati d’Europa, facendosi conoscere per una serie di colpi alle banche con il suo gruppo ribattezzato La banda del Mec.
Note le sue simpatie verso il nazismo, Bergamelli apparteneva alla razza dei malavitosi “comuni” che spesso si associavano con quelli di matrice politica al fine di perseguire finalità comuni di autofinanziamento. Secondo alcune ricostruzioni, addirittura, le sue molteplici e rocambolesche evasioni, ad esempio, non sarebbero attribuibili ad una sua particolare abilità o fortuna ma, al contrario, ad aiuti esterni.
Il magistrato romano Vittorio Occorsio, titolare dell’inchiesta sull’Anonima Sequestri che si concluse poi con lo smantellamento della Banda dei Marsigliesi, individuò ad esempio un collegamento criminale fra la massoneria deviata, il neofascismo romano, i servizi segreti e la banda di Bergamelli.

Il Clan dei marsigliesi

Nel 1973 si trasferisce a Roma dove inizia a prendere contatti con i più noti criminali della città come l'altro marsigliese, già accusato di omicidio, Jacques Berenguer e il bresciano Maffeo "Lino" Bellicini, appena evaso da un carcere portoghese. Arruolando alcuni tra gli elementi più spregiudicati della malavita locale come Mario Castellano, Paolo Provenzano, Laudavino De Sanctis (detto Lallo lo zoppo) e il futuro boss della Magliana Danilo Abbruciati, i tre misero in piedi una batteria altamente efficiente, conosciuta come la banda delle tre B o, più tardi, come il Clan dei marsigliesi.
Specializzati inizialmente in rapine a mano armata e nel traffico di stupefacenti, attraverso una serie di sequestri di persona, il gruppo diventerà un'autentica industria del crimine, il primo capace di esercitare un certo controllo sul territorio, facendo fare un notevole salto di qualità alla piccola delinquenza di borgata romana.
Criminali esperti dai metodi spicci e senza pietà, il 22 febbraio del 1975, la banda si rese responsabile di un crimine che scosse l'opinione pubblica quando, durante una rapina all'interno dell’ufficio postale di Piazza dei Caprettari a Roma, venne ucciso l'agente Giuseppe Marchisella e, due giorni dopo, la fidanzata del poliziotto si uccise gettandosi nel vuoto. Quello che avrebbe dovuto essere un colpo miliardario si risolse invece con un magro bottino di sole 400 mila lire e due morti ammazzati.
Ma è con i sequestri di persona che la banda fece il suo definitivo salto di qualità. Solo fra il 1975 e il 1976 ne portarono a termine ben cinque, primo della serie quello dell'imprenditore Amedeo Maria Ortolani, sequestrato il 10 giugno del 1975, il suo rilascio avvenne dopo 11 giorni di prigionia e a seguito di un riscatto di 800 milioni di lire pagato dal padre Umberto Ortolani.
Bergamelli venne arrestato il 29 marzo del 1976 in un residence sulla via Aurelia a Roma, grazie ad un'indagine del giudice Vittorio Occorsio (che poi nel luglio dello stesso anno verrà ucciso da un commando di Ordine Nuovo). Venne rintracciato seguendo i movimenti di una donna, Maria Rossi, che proprio per la sua banda curava la logistica dei rifugi.
Due giorni dopo venne catturato anche il suo avvocato, Gian Antonio Minghelli membro della loggia massonica P2, arrestato per riciclaggio di denaro proveniente dal sequestro del gioielliere Gianni Bulgari durante un'indagine dello stesso Occorsio.
Tradotto nel carcere di Marino del Tronto in provincia di Ascoli Piceno, il 21 agosto del 1982 Bergamelli venne ucciso in modo cruento da Paolo Dongo, un detenuto comune appartenente alla cosiddetta Banda dei Genovesi e poi politicizzatosi in carcere e divenuto seguace della frazione brigatista capeggiata da Giovanni Senzani.

Albert Bergamelli ucciso


Bergamelli e la P2

Quando lo arrestano nel marzo 1976 dichiara: »Qualcuno mi ha tradito ma si ricordi che sono protetto da una "grande famiglia" . Fino ad allora era noto come feroce rapinatore e capo, insieme a Berenguer e Bellicini, di una banda di sequestratori.
E dopo il suo arresto che il pubblico ministero Vittorio Occorsio comincia a trovare riscontri a un'ipotesi di connessioni fra la »banda dei marsigliesi , il terrorismo nero e la loggia P2 (la »grande famiglia ). Dopo alcuni anni, Bergamelli, detenuto nel carcere di Ascoli Piceno, stabilisce ottimi rapporti con Cutolo.
Bergamelli viene ucciso in carcere nel settembre 1982, a poco più di un anno di distanza dal caso Cirillo e sei mesi dopo il delitto Semerari. L'assassino di Bergamelli si chiama Paolo Dongo, un detenuto »comune politicizzatosi in carcere e divenuto seguace della frazione brigatista capeggiata da Giovanni Senzani.



mercoledì 13 novembre 2013

EUGENIO CEFIS



Eugenio Cefis 


(Cividale del Friuli, 21 luglio 1921 – Lugano, 28 maggio 2004) 
All'età di quindici anni si iscrisse all'Accademia Militare di Modena, durante la Resistenza fu vice comandante della Divisione Valtoce con il soprannome «Alberto». Fu tra i fondatori della Repubblica dell'Ossola.
Mattei di fronte alla sede dell' ENI
In quegli anni conobbe Enrico Mattei, che aveva  la guerra ha avuto l'incarico di chiudere l'Agip, lo chiama a lavorare con se. L'Agip, come si sa, non viene chiusa e da essa nasce l'Eni, con Mattei presidente.
Nel 1962 Mattei muore in un misterioso incidente aereo, gli succede alla presidenza dell'Eni Marcello Boldrini
Nel 1963 venne insignito dell'onorificenza di Cavaliere di Gran Croce, massimo riconoscimento della Repubblica Italiana.
Nel 1967 Cefis diventa presidente dell'Eni.
Da quella posizione ha l'intuizione che dominerà poi il resto della sua vita, e che sarà all'origine sia della sua fortuna e della sua successiva sfortuna. Intravede che sta per arrivare l'ora della chimica.
Cefis trovò il modo di aiutare Cuccia, iniziando segretamente a comprare azioni della Montedison con i soldi dell'Eni e i dovuti appoggi politici a Roma. Cominciò così la sua scalata al gigante chimico, che si concluse nel 1971, quando Cefis abbandonò l'ENI e divenne presidente della stessa Montedison. Questa mossa sollevò molte polemiche: egli infatti aveva utilizzato il denaro dell'ENI (cioè denaro pubblico) per diventare presidente di una società privata.
Cefis progettò di fare della chimica un settore competitivo a livello internazionale sulla base di due considerazioni: a) le enormi potenzialità legate alla petrolchimica; b) la precisa convinzione dell'esistenza in Italia dello spazio per un solo grande operatore. Ma si rese ben presto conto che il governo, tramite le Partecipazioni statali, voleva entrare anche nella chimica e non gli avrebbe lasciato le mani libere.
Ma in Italia c'è già un protagonista forte nella chimica: si tratta della Montedison. E, intorno, ci sono altri: Rovelli con la Sir, Ursini con la Liquigas, ecc.. Cefis fa i suoi conti e decide che il modo più semplice e più veloce di diventare a sua volta un protagonista nella chimica è quello di scalare la Montedison. La faccenda è complicata perché la Montedison è privata e l'Eni è pubblica.
Ma Cefis non è uomo da fermarsi di fronte a questioni del genere. Insieme a Cuccia, allora padrone indiscusso di Mediobanca e gran protettore della Montedison, organizza la scalata alla Montedison, alla fine degli anni Sessanta. La faccenda solleva uno scandalo enorme, tanto per la sostanza quanto per i metodi usati. Ma Cefis la spunta, almeno in parte.
Già allora, infatti, sta al centro di quella che poi verrà chiamata la razza padrona. Un mix, cioè, di affari e di politica. Una sorta di rete in cui ci sono i politici che proteggono Cefis e che da lui sono protetti (e aiutati, con la forza del potere economico). Cefis, mentre punta alla chimica, non trascura di controllare e di condizionare l'informazione, come mantiene buoni rapporti con i servizi segreti. Nasce in quel periodo uno degli episodi più clamorosi (e pesanti) di inquinamento della politica e della vita pubblica in Italia.
Dopo la sua scalata alla Montedison infuria la lunghissima stagione delle guerre chimiche: tutti sono convinti che lì ci siano i soldi del futuro (e il potere) e tutti vogliono una fetta della chimica.
Di fatto, Cefis dalla poltrona di presidente dell'Eni non riesce a governare la Montedison. Oltre a tutti i problemi economici e politici c'è di mezzo anche un mostruoso conflitto di interessi. Il gotha dell'industria privata (Agnelli e Pirelli) protesta per l'assalto alla Montedison, roccaforte dell'industria privata. Alla fine si arriva a un compromesso per cui si stabilisce che la Montedison (metà pubblica e metà privata) sarà la linea di confine: da quel momento in avanti, dicono i privati, non saranno più tollerate invasioni di campo.
Ma le cose, tenute insieme da un po' di diplomazia e anche da maniere brusche, non funzionano. Nel 1973 Cefis getta la maschera e fa il suo passo più ardito: lascia l'Eni e passa alla testa della Montedison. Ovviamente, appena sbarcato nella nuova carica comincia a contestare la presenza dell'Eni, di cui non tollera più la presenza, nonostante lui stesso abbia fatto, con la scalata, dell'Eni il maggior azionista della Montedison.
A molti, allora, il passo di Cefis apparve inspiegabile. Invece era il trionfo della filosofia della razza padrona. Cefis lasciava l'Eni, che bene o male era sempre un ente pubblico (soggetto a controlli pubblici, ai ministeri e al parlamento), e si trasferiva in Montedison, società di diritto privato, con il progetto di diventare l'esclusivo padrone della chimica italiana, senza più padroni. Insomma, arrivato in alto grazie alla politica, alla fine volle sganciarsi dalla politica per diventare semmai padrone della politica.
Piano ambizioso e forse anche un po' cervellotico, ma tipico di Cefis e del suo entourage. A quei tempi erano tutti convinti che la chimica si sarebbe trasformata in una miniera d'oro zecchino. Ma non fu mai così. La Montedison, nonostante tagli e ritagli, aiuti e mille sostegni, non è mai riuscita a produrre soldi. Anzi, ne ha sempre persi in abbondanza. La fine di Cefis, e con lui della razza padrona, su istantanea, forse dieci secondi in tutto.
Cefis, si racconta, nel 1977 va da Cuccia in Mediobanca per sottoporre al suo protettore una questione non nuova: la società ha bisogno di soldi, bisogna fare un altro aumento di capitale. Cuccia, che fino a allora aveva aiutato generosamente la Montedison (da lui stesso inventata peraltro a metà degli anni Sessanta), ha intanto maturato la convinzione che la partita è persa e che lo stesso Cefis è un perdente. E quindi gli risponde semplicemente con un monosillabo: "No".
Cefis, ex ufficiale dell'Accademia di Modena, non è uno che si fa dire due volte le cose. Capisce che la partita è chiusa, la grande avventura è arrivata alla sua ultima pagina. Si dimette dalla Montedison, si ritira a Lugano, e per la finanza italiana è come se fosse morto allora. Nessuno sentirà mai più parlare di lui.
Dopo aver respinto una scalata alla Montedison condotta dalla "sua" ENI e da Nino Rovelli, appoggiati da Giulio Andreotti, decise che era il momento di attuare quella strategia che egli rivelerà alcuni anni più tardi in una delle sue rare interviste: "Non si può fare industria senza l'aiuto della politica e un giornale può servire da moneta di scambio".


Cefis instaurò così un braccio di ferro con Gianni Agnelli, che non aveva nessun tipo di feeling con Fanfani ed era padrone de La Stampa di Torino, oltre ad essere nella proprietà del Corriere della Sera. Nel 1974 lo scontro ebbe come teatro la presidenza di Confindustria. L'Avvocato fece il nome del repubblicano Bruno Visentini, Cefis replicò con quello di Ernesto Cianci. Dopo un gioco di veti incrociati, alla fine si arrivò a un compromesso: Agnelli presidente e Cefis vicepresidente.
Secondo alcune voci della cultura italiana, Cefis avrebbe avuto tuttavia un ruolo oscuro nella morte di Enrico Mattei. Giorgio Steimetz (alias Corrado Ragozzino) lo descrisse come un nemico che tramava nell'ombra per ottenere la presidenza dell'ENI e neutralizzare la politica fortemente indipendente di Mattei: è la tesi espressa nel volume intitolato Questo è Cefis. L'altra faccia dell'onorato presidente, Agenzia Milano Informazioni, Milano 1972. Il libro di Steimetz fu subito ritirato dal mercato e da tutte le biblioteche italiane, sparendo completamente dalla circolazione. In questo senso, Cefis avrebbe agito come rappresentante di poteri che volevano ricondurre la politica energetica italiana in orbita atlantica, con un comportamento coerente con i dettami delle multinazionali angloamericane del petrolio.
L'intesa riguardò anche i giornali: Cefis ebbe via libera per Il Messaggero (il quotidiano più venduto di Roma), Agnelli ottenne che La Gazzetta del Popolo non desse più fastidio alla Stampa (infatti verrà chiusa nel giro di pochi anni) e in cambio acconsentì che la Rizzoli acquistasse il Corriere. A metà degli anni settanta il suo potere era enorme.
Nel 1977 Cefis lasciò improvvisamente la scena pubblica per ritirarsi a vita privata in Svizzera e gestire il suo patrimonio, stimato allora in cento miliardi di lire.
Nel ' 77 però Cefis lasciando Foro Buonaparte spiazzò tutti e lo stesso Cuccia, che ne rimase fortemente contrariato. «Mi ha lasciato solo come un birillo tra le bocce», disse e proseguì «caro dottor Cefis, pensavo che lei facesse il golpe e invece se ne è andato». Ma di che tipo di golpe parlasse il grande vecchio della finanza italiana non è affatto chiaro. Un golpe militare in senso stretto o più probabilmente un rovesciamento dei rapporti tra industria pubblica e privata, una sorta di commissariamento dell' establishment?


Le indagini di P.P. Pasolini

Pier Paolo Pasolini si interessò al ruolo svolto da Cefis nella storia e nella politica italiana: ne fece uno dei due personaggi chiave, assieme a Mattei, di Petrolio, il romanzo-inchiesta (uscito postumo nel 1992) al quale stava lavorando poco prima della morte. Pasolini ipotizzò, basandosi su varie fonti, che Cefis alias Troya (l'alias romanzesco di Petrolio) avesse avuto un qualche ruolo nello stragismo italiano legato al petrolio e alle trame internazionali.
In quello stesso periodo, sul Corriere della Sera, Pasolini denunciò apertamente la logica perversa della democrazia mantenuta a suon di stragi, nel famosissimo articolo "Io so", poi confluito negli Scritti Corsari. Poco dopo fu assassinato, in circostanze misteriose, all'Idroscalo. Ora, proprio sulla "pista Mattei'', l'indagine di Palermo su De Mauro incrocia quella della Procura di Roma sull'uccisione di Pasolini, affidata al pm Francesco Minisci che, proprio nei giorni scorsi, avrebbe scoperto il Dna di un terzo uomo tra le baracche di Ostia, dove il poeta fu pestato a morte al termine di quella che fino a oggi è stata definita una "lite tra froci".
Secondo autori recenti e secondo alcune ipotesi giudiziarie suffragate da vari elementi, fu proprio per questa indagine che Pasolini fu ucciso: cfr. ad es. il volume di Gianni D'Elia, Il petrolio delle stragi, Effigie, Milano 2006.
La Procura di Palermo scava sulle ragioni della morte di Pier Paolo Pasolini e sulle ossessioni del poeta che aveva individuato nell'uccisione del presidente dell'Eni Enrico Mattei, l'origine delle stragi di Stato. E avvia l'indagine interrogando un testimone eccellente: il senatore Marcello Dell'Utri, condannato a 7 anni per mafia e testimone, per una decina di minuti, dell'esistenza del misterioso capitolo "Lampi su Eni", le pagine scomparse del romanzo Petrolio, nel quale Pasolini raccontò la natura criminogena del potere economico-finanziario in Italia.
"Non so chi fosse: quell'uomo mi ha avvicinato in mezzo a una gran folla e mi ha mostrato il dattiloscritto - ha detto Dell'Utri - ma io l'ho sottovalutato e non ho avuto nemmeno il tempo di leggerlo". Dell'Utri è stato sentito (dopo che in alcune interviste aveva sostenuto che "Lampi su Eni" poteva aprire scenari inquietanti sul caso Mattei) nell'ambito della nuova indagine che i pm di Palermo hanno aperto sull'uccisione di Mauro De Mauro, il giornalista de L'Ora scomparso nel 1970 con il metodo della "lupara bianca", dopo che il boss Totò Riina, unico imputato nel processo per quel delitto, è stato assolto nel giugno scorso.
E aveva rivelato ad alcuni amici e ai familiari di essere in possesso di uno scoop clamoroso su quella vicenda. Anche Pasolini, così come De Mauro, era convinto che Mattei fosse stato assassinato: lo avrebbe ricostruito proprio nel capitolo scomparso, "Lampi sull'Eni'', come risulta da un appunto successivo ritrovato dai critici che hanno messo insieme i vari segmenti di Petrolio, opera incompiuta e pubblicata solo nel 1992 da Einaudi.
Pasolini, sia pure utilizzando degli pseudonimi e dunque camuffando la denuncia dietro l'artifizio letterario, attribuì a Eugenio Cefis, in quel periodo presidente della Montedison (sospettato di essere il plenipotenziario degli interessi atlantici in Italia), la responsabilità della morte di Mattei e spiegò la fine del presidente Mattei come il prologo della "strategia della tensione", ovvero il ricorso alla strage per mantenere gli equilibri politici interni e internazionali.
Per quel massacro, avvenuto nella notte tra il 1 e il 2 novembre del 1975, è stato processato e condannato Pino Pelosi, ex ragazzo di borgata, all'epoca solo diciassettenne, quale unico responsabile del delitto. Ma i dubbi e gli interrogativi sulla presenza di altre persone e sulla natura "politica'' di quel delitto, non sono mai stati fugati.
Chi c'era, oltre a Pelosi e a Pasolini, quella sera, all'Idroscalo? Chi conserva, a più di 30 anni dal delitto, il capitolo "Lampi sull'Eni", e con quale scopo? Cosa aveva scoperto De Mauro della morte di Mattei? E cosa sa oggi Dell'Utri di quella denuncia in forma letteraria mai più ritrovata? Dalle novità emerse negli ultimi giorni dalle procure di Roma e di Palermo, ecco che elementi convergenti gettano un raggio di luce su due delitti mai risolti, iscrivendoli in un'unica trama sanguinosa e complessa, sullo sfondo di patti e ricatti che dalla Prima alla Seconda Repubblica attraversano la storia occulta del Paese.
L'uso illecito di apparati dello Stato a fini privati ed extraistituzionali raggiunge il massimo nel rapporto tra Cefis e i servizi segreti. Il presidente della Montedison assolda un vero e proprio servizio di informazioni con elementi appartenenti o appartenuti al SID, che preparano fascicoli e informative su uomini politici e imprenditori da utilizzare per manovre di ogni tipo. Il capo del SID del tempo, Miceli, era in ottimi rapporti con Cefis tanto da chiedergli, nel momento della sua incarcerazione, un contributo in denaro per alleviare le presunte cattive condizioni finanziarie. Ma l'asse principale con l'apparato del servizio segreto è stabilito con il generale Maletti, responsabile del servizio parallelo di intercettazioni e spionaggio realizzato per conto della Montedison con collegamenti anche con il comandante generale dei carabinieri, generale Enrico Mino.
Anche l'importanza del controllo della stampa al fine dell'esercizio del potere non sfugge a Cefis e al suo gruppo di »amici con in prima fila Gioacchino Albanese, Ugo Niutta e Umberto Ortolani.






Fondatore della loggia massonica P2?

In base a un appunto del Sismi rintracciato dal pm Vincenzo Calia nella sua inchiesta sulla morte di Mattei, la Loggia P2 sarebbe stata fondata in realtà da Cefis, che l'avrebbe diretta sino a quando fu presidente della Montedison; poi sarebbe subentrato il duo Umberto Ortolani-Licio Gelli.
Massimo Teodori: "Molto si è scritto della P2 e di Gelli ma la verità sulla loggia e sul suo impossessamento del potere nell'Italia d'oggi è stata tenuta nascosta. Contrariamente a quanto afferma la relazione Anselmi votata a maggioranza a conclusione dell'attività della Commissione parlamentare d'inchiesta sulla P2, la Loggia non è stata un'organizzazione per delinquere esterna ai partiti ma interna alla classe dirigente. La posta in gioco per la P2 è stata il potere e il suo esercizio illegittimo e occulto con l'uso di ricatti, di rapine su larga scala, di attività eversive e di giganteschi imbrogli finanziari fino al ricorso alla eliminazione fisica."
Fenomeni simili a quello gelliano, ma non equivalenti, non sono però nuovi al »caso italiano . Basta ricordare quel che hanno rappresentato nel precedente ventennio Enrico Mattei e Michele Sindona, pur nella radicale diversità degli obiettivi perseguiti e degli strumenti adoperati. Anche Mattei, usando della posizione di capo dell'ENI, aveva costituito un suo sistema di potere che esercitava influenze e pressioni, stabiliva alleanze politiche, insomma svolgeva un ruolo di protagonista molto al di là della sfera naturale del grande imprenditore pubblico. Anche Sindona arrivò ad essere all'inizio degli anni '70 un grande protagonista, ma il suo regno era essenzialmente circoscritto alla dimensione finanziaria pur se attraverso di essa esercitò pressioni e stabilì stretti collegamenti con settori politici.
Tuttavia, il sistema di potere che prima della P2 è comparabile con il centro gelliano è quello organizzato e promosso da Eugenio Cefis, presidente dell'ENI nella seconda metà degli anni '60 e quindi alla testa della Montedison dal maggio 1971. A differenza di Gelli, Cefis usa la preminente posizione in campo economico e finanziario, delegatagli dai politici, per organizzare un centro di potere che si avvale in maniera sempre più aggressiva delle risorse del gruppo da lui gestito per annettere a sé uomini, gruppi e risorse nei diversi settori della vita nazionale.
Al culmine dell'espansione del suo potere, Cefis enuncia una sorta di proposta tecnocratico autoritaria, la cui ispirazione di fondo viene annunciata in un discorso non casualmente tenuto all'Accademia militare di Modena nel febbraio 1972.Il passaggio dal sistema Cefis al sistema Gelli non è tanto una questione di coincidenze di uomini, che pure si potrebbero indicare in abbondanza. Riguarda la funzione ormai permanente che le strutture volte all'organizzazione e gestione del potere esercitano nel sistema politico italiano. Entrambi i sistemi, quello cefisiano e quello gelliano, si possono insediare sopra e in vece del sistema politico grazie alla degenerazione istituzionale e democratica. Le lotte di potere nella DC disgregata avevano rappresentato il terreno propizio per Cefis. Dal canto suo Gelli, quando arriva al controllo dei servizi segreti, di buona parte della stampa e di un'importante porzione del sistema bancario e finanziario diviene allora arbitro influente anche nella politica e fra i politici.
Il sistema P2 si sviluppa nello stesso periodo in cui il sistema Cefis comincia a declinare come tale fino all'uscita di scena del suo organizzatore nel 1977. Sarebbe superficiale affermare che il nuovo sistema di potere prende piede perché il precedente tramonta oppure che la P2 eredita, in quanto tale, il sistema cefisiano. In un campo così complesso come quello dell'organizzazione del potere, nulla avviene automaticamente o per meccanica eredità. Certo è però che vi sono degli elementi di continuità tra il sistema cefisiano e quello gelliano e non pochi sono i punti di contatto fra le due fasi della vita politica italiana, nelle quali hanno avuto un peso rilevante dei raggruppamenti palesi occulti operanti nell'illegalità .
Emblematica è la vicenda Rizzoli »Corriere della Sera . E' Cefis che consente ai Rizzoli di comperare il quotidiano nel 1974 con la promessa di finanziamenti di molte decine di miliardi per il rilievo della quota e per la pubblicità. Ed è ancora Cefis che, non onorando nel 1976 gli impegni precedentemente assunti, costringe Rizzoli a ricorrere al credito di ambienti bancari piduisti. Anche per quel che riguarda i servizi segreti, le due vicende hanno singolari coincidenze e parallelismi. Cefis si serviva del SID di Maletti ed aveva stabilito una rete di rapporti e di alleanze che comprendeva il comandante generale dei carabinieri Mino e il capo della Guardia di Finanza Raffaele Giudice. Gli stessi personaggi si ritrovano insieme a Gelli che usa il SID prima, il SISMI e il SISDE di Santovito e Grassini poi, per commerciare in informazioni sugli affari nascosti del regime. Nell'orbita dell'uno e dell'altro si ritrovano personaggi militari e dei servizi segreti che pure all'interno dei loro apparati si combattevano aspramente.


Il 740 svizzero di Eugenio Cefis miliardo per miliardo

C’ eravamo dimenticati di lui. Del resto 16 anni di esilio hanno avuto il potere di far sparire dalle cronache il nome di Eugenio Cefis. Almeno fino a giovedi’ 22 aprile scorso, quando l’ ex presidente dell’ Eni e della Montedison e’ stato convocato a Palazzo di Giustizia a Milano. Ospite il magistrato Pierluigi Dell’ Osso che l’ ha interrogato per undici ore, ripercorrendo la storia dell’ ente petrolifero dal 1950 al 1971. Dobbiamo sincera gratitudine a quel giudice, ha commentato Alberto Statera sulla Stampa, perche’ l’ esilio di Cefis  l' esilio di Cefis "e' uno di quei misteri della nostra storia contemporanea che forse, rivisitati tre lustri dopo, possono finalmente trovare una loro autentica chiave di lettura". E cosi' tra i tanti punti interrogativi che il ritorno dell' uomo che ispiro' Razza padrona ha riproposto c' e' anche quello che ha appassionato due generazioni di cronisti finanziari: a quanto ammonta la sua ricchezza? Del resto allorche' decise di lasciare il Bel Paese si disse che Cefis avesse portato con se' un centinaio di miliardi, ma di piu' non si seppe. Stavolta pero' il cronista non si e' arreso ed e' riuscito a far luce almeno su una tessera di quel mistero. La "prova" e' riprodotta qui accanto ed e' la dichiarazione dei redditi 1992, presentata da Cefis congiuntamente alla moglie Marcella Righi nel Comune di residenza, Zurigo. Sia chiaro: tutti sanno che un uomo dell' abilita' finanziaria di Razza Padrona conosce a menadito l' abc dei paradisi fiscali, ma se e' vero che ogni lunga marcia comincia con un piccolo passo bisogna pure accettare che un' indagine possa cominciare con un certificato (ufficiale) dei redditi. Quanto hanno guadagnato i coniugi Cefis Righi nel ' 92? La rendita annuale, in tedesco reineinkommen, e' stata pari a 1.123.300 franchi svizzeri che tradotti in lirette fanno all' incirca 1,2 miliardi. Due terzi di questo reddito e' stato prodotto nel cantone di Zurigo (827 mila franchi) e un terzo nel resto della confederazione. Nel ' 91 le cose erano andate meno bene: la coppia Cefis Righi aveva incamerato solo 556 mila franchi svizzeri. Piu' interessante e' la consultazione della voce reinvermogen, che sta per patrimonio. L' ex presidente della Montedison denuncia (per il ' 92) 34,7 milioni di franchi, all' incirca 36 miliardi di lire. Fin qui la Svizzera. Ma un' altra consistente fetta di beni e' in Canada. Nel Paese dell' acero lavora il fratello Alberto che gestisce ingenti interessi immobiliari. Ingenti quanto? La risposta, quando si parla dei Cefis, e' sempre la stessa: nell' ordine delle centinaia di miliardi.