giovedì 30 gennaio 2014

Fuori onda di Martelli su Moro e Stato -mafia

 Claudio Martelli fupri onda striscia la notizia


Fuori onda del Tgcom24 in cui l'ex ministro della Giustizia Claudio Martelli e il giornalista Sandro Provvisionato esprimono dei dubbi sull'operato del pm di Palermo impegnato nell'inchiesta sulla presunta trattativa Stato-mafia.

Martelli: Ho la sensazione che il pm navighi nel caos e dunque non escludo che anche lui si inventi delle cose balorde.
Provvisionato: Da quello che conosco io lui non è una cima.
Martelli: No, proprio no, già non era una cima l'altro che se n'è andato.

Sempre nello stesso fuori onda Martelli parla di una vicenda che riguarda Francesco Cossiga all'epoca del sequestro Moro. Dice Martelli: «Lui non ha mai spiegato perché fa l'unità di crisi al ministero della marina e ci mette dentro Gelli. E pensa che qualche mese prima aveva invitato a cena me e Formica (n.d.r. Rino) e, scherzando ma non troppo, aveva detto: "dovremmo farla noi la P3".

lunedì 27 gennaio 2014

VITO CIANCIMINO "Don Vito"


don  vito

Vito Alfio Ciancimino nacque a Corleone il 2 aprile 1924 figlio di un barbiere, si diplomò geometra nel 1943. Nel 1950 si trasferì a Palermo per frequentare la facoltà di ingegneria ma non conseguì mai la laurea. Per un breve periodo soggiornò a Roma, dove lavorò presso la segreteria del deputato Bernardo Mattarella (allora sottosegretario al Ministero dei Trasporti). A Palermo divenne socio di un'impresa edile ed ottenne un appalto per il "trasporto di vagoni ferroviari a domicilio attraverso carrelli" grazie alla raccomandazione del deputato Mattarella. Nel 1953 Ciancimino venne eletto nel comitato provinciale della Democrazia Cristiana e l'anno successivo divenne commissario comunale. Nel 1956 Ciancimino venne eletto consigliere comunale a Palermo e divenne un sostenitore di Giovanni Gioia, aderendo alla corrente politica di Amintore Fanfani. Per queste ragioni divenne assessore dell'Azienda municipalizzata e nel luglio 1959 divenne assessore ai lavori pubblici nella giunta del sindaco Salvo Lima. Durante il periodo in cui Ciancimino fu assessore, delle 4.000 licenze edilizie rilasciate, 1600 figurarono intestate a tre prestanome, che non avevano nulla a che fare con l'edilizia; l'assessorato di Ciancimino apportò numerose modifiche al piano regolatore di Palermo che permisero alla ditta di Nicolò Di Trapani (pregiudicato per associazione a delinquere) di vendere aree edificabili ad imprese edili mentre il costruttore Girolamo Moncada (legato al boss mafioso Michele Cavataio) ottenne in soli otto giorni licenze edilizie per numerosi edifici. In questi anni Ciancimino entrò in rapporti con tre società edilizie e finanziarie: la SIR, la SICILCASA SpA e la ISEP, di cui faceva parte la moglie di Ciancimino, Epifania Silvia Scardino, insieme ai mafiosi Antonino Sorci (capo della cosca di Villagrazia) e Angelo Di Carlo (cugino del boss Michele Navarra e socio di Luciano Leggio).
Nel 1963 Ciancimino venne denunciato dall'avvocato Lorenzo Pecoraro, amministratore di un'impresa edile a cui fu negata una licenza edilizia mentre alla società "SICILCASA SpA" era stato concesso il permesso di costruire in un terreno contiguo malgrado il progetto violasse in più punti le clausole del piano regolatore; fu fatto sapere a Pecoraro che poteva avere la licenza soltanto se versava una tangente nelle casse della "SICILCASA SpA", di cui Ciancimino era socio occulto e da cui acquistò anche due appartamenti. Qualche tempo dopo l'avvocato Pecoraro ritirò tutte le accuse e dichiarò che Ciancimino era sempre stato un uomo «esemplare per correttezza ed onestà». Ma nonostante ciò, nel giugno 1965 il caso Pecoraro fu riaperto e Ciancimino finì sotto processo, venendo però assolto nel 1966.
Nel 1964 Ciancimino concluse il mandato di assessore ai lavori pubblici e rimase consigliere comunale. Nel 1966 fu nominato capogruppo della Democrazia cristiana nel consiglio comunale di Palermo e tenne questo incarico fino al 1970, venendo anche nominato responsabile degli enti locali della sezione provinciale della Democrazia Cristiana nel 1969.
Nell'ottobre 1970 Ciancimino fu eletto sindaco di Palermo ma nel dicembre successivo fu costretto a dimettersi a causa delle proteste dell’opposizione e delle inchieste della Commissione Parlamentare Antimafia che lo riguardavano; tuttavia Ciancimino rimase in carica fino all'aprile 1971, quando venne eletto il nuovo sindaco Giacomo Marchello. Infatti nel 1976 la relazione di minoranza della Commissione Parlamentare Antimafia, redatta anche dai deputati Pio La Torre e Cesare Terranova, ed altri atti prodotti dalla stessa Commissione accusarono duramente Ciancimino ed altri uomini politici di avere rapporti con la mafia.
Nel 1976 Ciancimino abbandonò la corrente fanfaniana e formò un gruppo autonomo all'interno del consiglio comunale, avvicinandosi a Salvo Lima, che rappresentava la corrente andreottiana: Ciancimino, accompagnato dai deputati Salvo Lima, Mario D'Acquisto e Giovanni Matta, incontrò il senatore Giulio Andreotti a Palazzo Chigi, dove venne stipulato il patto di collaborazione con la corrente, che sfociò nell'appoggio dato dai delegati vicini a Ciancimino alla corrente andreottiana in occasione dei congressi nazionali della Democrazia Cristiana svoltisi nel 1980 e nel 1983.

vito e massimo ciancimino

In questi anni Cosa Nostra compì alcuni "omicidi politici" ed avvertimenti per proteggere gli interessi di Ciancimino: il 9 marzo 1979 fu ucciso Michele Reina, segretario provinciale della Democrazia Cristiana che era entrato in contrasto con costruttori legati a Ciancimino; il 6 gennaio 1980 venne eliminato Piersanti Mattarella, presidente della Regione che contrastava Ciancimino per un suo rientro nel partito con incarichi direttivi; il 30 aprile 1982 venne trucidato Pio La Torre, segretario regionale del PCI che aveva più volte indicato pubblicamente Ciancimino come personaggio legato a Cosa Nostra; nel dicembre 1980 una carica di esplosivo distrusse una parte della villa del sindaco Nello Martellucci, che si era mostrato poco disponibile con Ciancimino nel concedergli un appalto per il risanamento dei quartieri vecchi di Palermo.
In occasione del congresso regionale di Agrigento della Democrazia Cristiana nel 1983, il segretario nazionale Ciriaco De Mita espresse chiaramente la necessità di allontanare Ciancimino dal partito e per questo non gli venne rinnovata la tessera.



Le inchieste penali
Nel 1984 il collaboratore di giustizia Tommaso Buscetta dichiarò al giudice Giovanni Falcone che «Ciancimino è nelle mani dei Corleonesi» e per questo venne arrestato per associazione mafiosa nello stesso anno.
Nel 1992 venne condannato definitivamente in Cassazione a 8 anni di reclusione per associazione mafiosa e corruzione. Fu condannato inoltre a 3 anni e due mesi di carcere (pena condonata) per peculato, interesse in atti d' ufficio, falsità in bilancio, frode e truffa pluriaggravata nel processo per i grandi appalti di Palermo e a 3 anni e 8 mesi per aver pilotato due appalti comunali quando non aveva più cariche pubbliche. Pochi giorni prima che morisse, il comune di Palermo gli presentò un'ingente richiesta di risarcimento, pari a 150 milioni di euro, per danni arrecati all'amministrazione comunale: ne furono recuperati solo sette.
I magistrati che indagarono su di lui lo definirono «la più esplicita infiltrazione della mafia nell'amministrazione pubblica». Nel 1993 il collaboratore di giustizia Pino Marchese dichiarò addirittura che Ciancimino era regolarmente affiliato nella Famiglia di Corleone. Un altro collaboratore di giustizia, Gioacchino Pennino (ex consigliere comunale e mafioso), dichiarò che nel 1981 voleva abbandonare il gruppo di Ciancimino nel consiglio comunale ma venne convocato dal boss Bernardo Provenzano, il quale gli intimò minacciosamente «di restare al suo posto».
Secondo quanto ricostruito dal giornalista Gianluigi Nuzzi, nel 2009, che si è avvalso dell'archivio di monsignor Renato Dardozzi dall'Istituto per le Opere di Religione sarebbero stati manovrati dei soldi diretti a Ciancimino per conto della mafia. A tal proposito il figlio di Vito Ciancimino, Massimo, affermò:
« Le transazioni a favore di mio padre passavano tutte tramite i conti e le cassette dello IOR »
I conti correnti e le due cassette di sicurezza, allo IOR erano coperti da immunità diplomatica e in caso di perquisizione impossibile esercitare una rogatoria con lo Stato del Vaticano. I conti furono gestiti in un primo momento dal conte Romolo Vaselli, un imprenditore che negli anni 1970 controllava la raccolta dell'immondizia di Palermo. In un momento successivo, furono gestiti da prestanome, prelati compiacenti, nobili e cavalieri del Santo Sepolcro. I conti correnti servivano per pagare le famose «messe a posto» per la gestione degli appalti per la manutenzione delle strade e delle fogne di Palermo affidata al conte Arturo Cassina, cavaliere del Santo Sepolcro. La gestione della manutenzione delle strade e delle fogne di Palermo erano gonfiate per circa l'80 per cento del loro reale valore di mercato. Questo surplus era destinato sia alla corrente andreottiana, che in Sicilia faceva capo a Ciancimino stesso, sia un 20 per cento, alle tangenti dovute a Bernardo Provenzano e Totò Riina.
I capitali venivano trasferiti a Ginevra attraverso il deputato Giovanni Matta e Roberto Parisi, al quale faceva riferimento la manutenzione dell'illuminazione di tutta la città. Ciancimino finanziava anche molti prelati, a iniziare dal cardinale Arcivescovo di Palermo Ernesto Ruffini, con soldi elargiti sotto forma di donazioni.
Attraverso questo sistema di compensazioni sulle cassette venivano gestite anche i soldi delle tessere del partito. In queste cassette passò anche una parte della famosa tangente Enimont: Vito Ciancimino incassò dal deputato Salvo Lima o dal tesoriere, come distribuzione di fondi ai partiti, circa 200 milioni delle vecchie lire.

Dopo la condanna
Negli ultimi anni della sua vita, cercò di accreditare un suo ruolo di esperto di "cose di Cosa Nostra": tale ruolo produsse il sospetto che potesse essere "utilizzato" dalle cosche per avvalorare versioni di comodo. Così la Commissione antimafia, che rifiutò di riceverlo in audizione nell'autunno del 1992 malgrado lui si fosse di fatto "proposto" con l'intervista a Giampaolo Pansa a L'espresso in cui cercava di allontanare i sospetti della stagione stragista dalla mafia.

vito ciancimino in tribunale

Nel 1992, nel periodo tra le stragi di Capaci e via d'Amelio, Ciancimino venne contattato dall'allora colonnello Mario Mori e dal capitano Giuseppe De Donno del ROS, il quale dichiarò negli anni successivi: «Decidemmo di contattare in qualche modo la mafia attraverso Vito Ciancimino per fermare le stragi del 1992-93». Il boss Salvatore Riina scrisse allora il suo "papello", in cui venivano elencate le richieste di Cosa Nostra per far cessare la strategia degli attentati in cambio di benefici di legge, nuove norme sul pentitismo e la revisione del Maxiprocesso, e lo fece arrivare a Mori e De Donno tramite Ciancimino. Tuttavia nel dicembre 1992 Ciancimino venne nuovamente arrestato.
Vito Ciancimino morì a Roma il 19 novembre 2002.

vito e massimo ciancimino uscita dal carcere


Presunti rapporti con Silvio Berlusconi
Il 12 novembre 2010 sua moglie Epifania Silvia Scardino rivela al pm di Palermo Antonio Ingroia che suo marito si sarebbe incontrato tre volte a Milano con Silvio Berlusconi tra il 1972 e il 1975. I due avrebbero parlato dello svolgimento del progetto di realizzazione di Milano 2.

vito e massimo ciancimino

Il direttore generale della Banca Popolare di Palermo Giovanni Scilabra, ormai in pensione, ha raccontato ai pm di Palermo di aver avuto un incontro nel 1986 con Ciancimino e Marcello Dell'Utri per un prestito di 20 miliardi da destinare alla Fininvest (di proprietà di Berlusconi). Inoltre i pm stanno facendo degli accertamenti che servirebbero a riscontrare le rivelazioni di Massimo Ciancimino e la documentazione da lui consegnata ai magistrati circa presunti investimenti del padre nel complesso edilizio Milano 2, realizzato da Silvio Berlusconi. Ciancimino avrebbe riferito al figlio Massimo che nella realizzazione di Milano 2 sarebbero stati investiti soldi anche dagli imprenditori mafiosi Salvatore Buscemi e Francesco Bonura. A fare da tramite tra Berlusconi, i costruttori palermitani e l'ex sindaco potrebbe essere stato Marcello Dell'Utri, poi senatore del Pdl, indagato nel 1994, per concorso esterno in associazione mafiosa.



massimo ciancimino



DOCUMENTI


mercoledì 22 gennaio 2014

ENRICO MATTEI


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« Se in questo paese sappiamo fare le automobili, dobbiamo saper fare anche la benzina »
(Enrico Mattei a Vittorio Valletta)



Enrico Mattei nacque ad Acqualagna, piccolo paese della provincia di Pesaro-Urbino, il 29 aprile 1906 in una famiglia modestavisto che nell'età giovanile non sembrava ottenere risultati positivi, né dimostrare costanza negli studi, fu avviato all'attività lavorativa dal padre, che lo fece assumere quale apprendista in una fabbrica di letti metallici in provincia di Macerata, dove la famiglia si era trasferita nel 1919; qui avvenne il suo primo contatto con i prodotti chimici, in particolare vernici e solventi. Nel 2007 è stata ritrovata la tessera di adesione al partito fascista (1922). In merito alla supposta sua condivisione del fascismo, Indro Montanelli (che ne fu critico severo) affermò che «l'ambizione di questo self-made man lo portava senza scampo a compromissioni con il regime al potere». Iniziò a soli vent'anni la carriera dirigenziale in una piccola azienda in cui era entrato quale operaio, si trasferì successivamente a Milano dove inizialmente svolse l'attività di agente di commercio, sempre nel settore chimico e delle vernici (lavorando come venditore alla Max Meyer). A trent'anni, avviò una propria attività nel settore chimico, con la quale riscosse un certo successo sino a divenire fornitore delle Forze Armate. Nel 1936 sposò la ballerina austriaca Margherita Paulas. 

Mattei partigiano
Durante la seconda guerra mondiale partecipò alla Resistenza come partigiano, tra i cosiddetti "bianchi" (area politica cattolica), dimostrandosi subito un valido condottiero e un buon diplomatico; a latere resta il giudizio di Luigi Longo, del quale divenne amico personale: «Sa utilizzare benissimo le sue relazioni con industriali e preti», essendo l'uomo di riferimento della Democrazia Cristiana nel CLN; in tale attività consolidò le sue amicizie con altri partigiani che rimasero per lui persone di riferimento nell'ambito della politica; in seguito, proprio fra i suoi compagni di Resistenza avrebbe cercato, da presidente dell'Eni, gli uomini fidati cui affidare la sua sicurezza personale.Andati vani alcuni tentativi di approccio, alla fine del 1942, con le organizzazioni clandestine antifasciste (per le quali la passata simpatia per il fascismo costituiva un'ovvia ragione di diffidenza), entrò nella Resistenza nel 1943 con una lettera di presentazione di Boldrini che lo fece ricevere a Roma da Giuseppe Spataro, che stava provando a riorganizzare il Partito Popolare dopo la stesura del cosiddetto «Codice di Camaldoli». Spataro lo accreditò presso i popolari milanesi e dopo l'armistizio di Cassibile (reso pubblico l'8 settembre 1943), Mattei cominciò a operare nelle Marche per il CLN. Alla formazione conferì inizialmente un apporto di natura logistica e organizzativa, procurando armi, vettovaglie e viveri, medicine, e altri generi utili; riuscì inoltre a intessere una rete informativa, nella quale coinvolse anche diversi parroci, grazie alla quale si procacciava informazioni "fresche" sugli spostamenti del nemico. Non appena la sua attività cominciò a destare attenzione, assunse il nome di battaglia di "Marconi" e quando le SS cominciarono a interessarsi più da vicino alla sua persona, perquisendogli la casa di Matelica, Mattei tornò a Milano dove - dopo un periodo di quiete - si mise a capo di una formazione operante nell'Oltrepò Pavese.Arruolò un numero rilevante di volontari (più di quarantamila al 25 aprile del 1945) e condusse diverse azioni militari, di tanto in tanto rientrando a Milano, dove Boldrini nel frattempo era preso dalla costruzione della nascente Democrazia Cristiana insieme a Giuseppe Dossetti, Amintore Fanfani, Ezio Vanoni, Augusto De Gasperi (fratello di Alcide), Orio Giacchi, Enrico Falck (della omonima famiglia di industriali) e altri futuri esponenti della DC.Nel 1944 Mattei fu chiamato a rappresentare le formazioni partigiane cattoliche nella Segreteria per l'Altitalia della nascente DC di De Gasperi e Gronchi; raccontò Giacchi che Mattei gli si sarebbe presentato autocandidandosi o forse imponendosi come candidato («Sono italiano, ma anche cattolico, vorrei menar le mani in uno schieramento cattolico»). Divenne così un dirigente del partito.Nel frattempo ottenne il diploma di ragioneria e si iscrisse insieme al fratello a Scienze politiche all'Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano. Poco dopo divenne, su investitura di Giacchi, il rappresentante della DC presso il ramo militare del CLNAI. Divenne anche il capo militare delle bande partigiane cattoliche e come tale si fece mediatore, ponendo in contatto le formazioni partigiane anche non cattoliche e il clero. Con Falck si diede alla raccolta di fondi e i due ebbero un discreto successo nell'attività, tanto che Mattei fu incaricato anche di amministrarli e Longo lo definì «il tesoriere del Corpo volontari della libertà, onesto, scrupoloso, imparziale». Fu poi vice capo di Stato maggiore addetto all'intendenza.Il 26 ottobre del 1944 fu arrestato nella sede milanese della costituenda DC, insieme ad altri esponenti politici, dalla polizia politica della Repubblica Sociale Italiana. Recluso in un carcere di Como, ne evase il 3 dicembre con la complicità di una guardia.Il suo ruolo al vertice delle organizzazioni partigiane crebbe ancora e Mattei si trovò in pratica a divenire l'interlocutore di Ferruccio Parri e di Luigi Longo, il quale svelò che era stato fra coloro che avevano chiesto che Mussolini e altri eventuali arrestati fossero «passati per le armi sul posto della cattura» anziché consegnati agli Alleati.Alla liberazione, Mattei fu uno dei sei esponenti del CLN alla testa della manifestazione di Milano.

L' ENI
Tre giorni dopo la liberazione, il 28 aprile 1945, fu nominato da Cesare Merzagora commissario liquidatore dell'Agip, ente statale per la produzione (estrazione), lavorazione e distribuzione dei petroli. L'incarico avrebbe dovuto limitarsi alla liquidazione e alla chiusura dell'azienda pubblica, ma appena si fu insediato, ebbe modo di valutare le potenzialità di sviluppo dell'ente, convincendosi che avrebbe potuto essere una risorsa di grande utilità per il Paese. Mattei si insediò il 12 maggio 1945, la sua nomina fu poi ratificata il 16 giugno da Charles Poletti, capo dell'amministrazione militare alleata. Il fratello Umberto veniva intanto nominato presidente del Comitato Oli e Grassi, mentre il fidato Vincenzo Cazzaniga, un dirigente della Standard NJ conosciuto, come Eugenio Cefis e Alberto Marcora, durante la clandestinità partigiana, divenne presidente del Comitato Oli Minerali Carburanti e Succedanei. Invece di seguire le istruzioni del Governo, riorganizzò l'azienda fondando nel 1953 l' ENI, di cui l' Agip divenne la struttura portante. Mattei diede un nuovo impulso alle perforazioni petrolifere nella Pianura Padana, avviò la costruzione di una rete di gasdotti per lo sfruttamento del metano, e aprì all'energia nucleare. Sotto la sua presidenza l' ENI negoziò rilevanti concessioni petrolifere in Medio Oriente e un importante accordo commerciale con l'Unione Sovietica (grazie all'intermediazione di Luigi Longo, suo amico durante la guerra partigiana e più tardi segretario del Partito Comunista Italiano); iniziative che contribuirono a rompere l'oligopolio delle 'Sette sorelle', che allora dominavano l'industria petrolifera mondiale. Mattei introdusse inoltre il principio per il quale i Paesi proprietari delle riserve dovevano ricevere il 75% dei profitti derivanti dallo sfruttamento dei giacimenti. Pur non essendo attivamente impegnato in politica, era vicino alla sinistra democristiana e fu parlamentare dal 1948 al 1953. Per la sua attività Mattei nel 1961 fu insignito della laurea in ingegneria ad honorem dalla Facoltà di Ingegneria (ora Politecnico) dell'Università degli Studi di Bari. Fu insignito anche di altre lauree honoris causa, della croce di cavaliere del lavoro e della Bronze Star Medal dell'Esercito statunitense (5 maggio 1945), nonché della Cittadinanza onoraria del comune di Cortemaggiore e post mortem, l'11 aprile 2013 la Cittadinanza onoraria del comune di Ferrandina (MT), dove nel 1958 l'Agip Mineraria fece alcuni studi e trovò il metano nella Valle del Basento.


enrico mattei sorridente

Morì nel 1962, in un misterioso incidente aereo le cui cause rimasero oscure per moltissimi anni. In seguito a nuove evidenze, nel 2005 fu stabilita la natura dolosa dell'incidente; vennero infatti ritrovati segni di esposizione a esplosione su parti del relitto, sull'anello e sull'orologio di Mattei.

aereo in caduta mattei

Le sette sorelle al tempo di Mattei:
  1. Standard Oil of New Jersey, successivamente trasformatasi in Esso (poi Exxon negli USA) e in seguito fusa con la Mobil per diventare ExxonMobil; Stati Uniti
  2. Royal Dutch Shell, Anglo-Olandese; Regno Unito Paesi Bassi
  3. Anglo-Persian Oil Company, successivamente trasformatasi in British Petroleum (BP); Regno Unito
  4. Standard Oil of New York, successivamente trasformatasi in Mobil e in seguito fusa con la Exxon per diventare ExxonMobil; Stati Uniti
  5. Texaco, successivamente fusa con la Chevron per diventare ChevronTexaco; Stati Uniti
  6. Standard Oil of California (Socal), successivamente trasformatasi in Chevron, ora ChevronTexaco; Stati Uniti
  7. Gulf Oil, in buona parte confluita nella Chevron. Stati UnitiImage result for matteiBUSCETTA: COSA NOSTRA UCCISE ENRICO MATTEI
Nella prima Commissione provinciale di Cosa Nostra a Palermo non si parlava né di delitti "eccellenti" né di appalti né di politica, fatta eccezione per quando ci si trovava a ridosso delle elezioni. A dire il vero, in quegli anni un delitto eccellente, anzi eccellentissimo, Cosa Nostra, lo eseguì. Mi riferisco alla scomparsa di Enrico Mattei, il presidente dell' Eni, avvenuta nel famoso incidente aereo dell' ottobre 1962. Mi rendo conto che sto rivelando un segreto e sono consapevole delle conseguenze che ne deriveranno. Ma devo mantenere fede all' impegno che ho preso dopo la strage di Capaci. Ho intenzione di raccontare tutto quello che ho omesso di riferire nel corso delle deposizioni davanti a Giovanni Falcone, tra cui ciò che so a proposito del caso Mattei e del caso De Mauro. Fu Cosa Nostra siciliana, in una seduta della sua prima Commissione, a decretare la morte di Enrico Mattei. Ciò mi consta personalmente in quanto avevo molti amici che sedevano nella Commissione e che mi riferivano il contenuto delle discussioni. Il piano per eliminare Mattei mi fu illustrato da Salvatore Greco ' Cicchiteddu' e da Salvatore La Barbera, che faceva parte della Commissione ed era il capo del mio mandamento. Mattei fu ucciso su richiesta di Cosa Nostra americana perché con la sua politica aveva danneggiato importanti interessi americani in Medio Oriente. A muovere le fila erano molto probabilmente le compagnie petrolifere, ma ciò non risultò a noialtri direttamente, in quanto arrivò Angelo Bruno, della famiglia di Filadelfia, e ci chiese questo favore a nome della Commissione degli Stati Uniti. ' Niente armi nè azioni spettacolari' La questione venne trattata in Commissione e non ci furono opposizioni di rilievo. Non emersero posizioni di "neutralità" rispetto a una richiesta così impegnativa. Tutti volevamo contribuire a rinsaldare i legami con gli americani. Le uniche discussioni riguardarono le modalità dell' attentato e gli uomini d' onore che si sarebbero assunti il compito di attuarlo. Si pensò di non usare armi da fuoco né di ricorrere ad azioni spettacolari che avrebbero potuto rivelare la matrice "mafiosa" del fatto. Se avessimo ucciso Mattei mentre si trovava al ristorante o durante una manifestazione pubblica, tutti avrebbero pensato alla mafia. Occorreva pertanto studiare un metodo per eliminarlo del tutto inusuale per noi e tale da fare in modo che l' episodio rimanesse avvolto nel mistero più fitto. Salvatore Greco ' Cicchiteddu' si assunse il compito di organizzare materialmente l' attentato. Egli, a sua volta, si consultò con Stefano Bontade. Ma per eseguire un progetto così impegnativo c' era bisogno di coinvolgere diversi personaggi di spicco. Allora ' Cicchiteddu' chiese la collaborazione di Antonio Minore, Bernardo Diana e Giuseppe Di Cristina, il quale, provenendo da Riesi, nei pressi di Catania, poteva fornire gli appoggi necessari. Ricordo che Stefano Bontade mi chiese di accompagnarlo un paio di volte a Catania. In quelle occasioni lo vidi contattare alcuni elementi locali di Cosa Nostra, tra cui Salvatore Ferrera, detto ' Cavaduzzo' .
Durante le nostre prime visite soggiornammo in albergo. Successivamente, come mi raccontò Bontade, questi fece altre visite in forma clandestina. Il contatto con Mattei fu stabilito da Graziano Verzotto, un uomo di potere che rappresentava l' Agip in Sicilia e militava nella Democrazia cristiana. Verzotto non era informato, ovviamente, del progetto di Cosa Nostra, ma era molto legato a Di Cristina. Che i due fossero strettamente collegati mi risulta direttamente perché verso il 1973-74 sono stato in carcere assieme a Di Cristina e lui mi parlò della sua amicizia con Verzotto. Anzi, Di Cristina mi confidò che nutriva qualche riserva su di lui, in quanto lo riteneva un personaggio ambiguo, amico sia di Cosa Nostra sia della polizia. Penso che fu proprio Verzotto, o lo stesso Di Cristina a presentare a Mattei un gruppo di giovanotti della mafia (quelli che ho nominato prima più Stefano Bontade) che lo portarono a caccia - sapevamo che Mattei aveva una passione per questo sport - nei dintorni di Catania il giorno prima della sua morte. Di Cristina procurò l' accesso a una riserva privata dove accompagnare Mattei. L' aereo di quest' ultimo fu manomesso durante questa battuta di caccia. Esisteva, ovviamente, una vigilanza che doveva essere elusa. Ma la vigilanza di quei tempi non era quella di oggi: consisteva in un paio di guardie che passeggiavano su e giù nei pressi dell' aereo. La battuta di caccia con i ' picciotti' La battuta di caccia aveva lo scopo di rassicurare Mattei a proposito delle intenzioni della mafia nei suoi confronti. E' uno degli espedienti classici di Cosa Nostra: quando si deve compiere un' esecuzione, la vittima deve essere avvicinata da un amico che dissipa i suoi sospetti, la tranquillizza, la rende più accessibile e ne facilita così l' eliminazione. Mattei sapeva benissimo con chi si incontrava e con chi andava a caccia. Era un uomo spregiudicato e audace, a cui piacevano le cose rischiose e fuori della norma. Si riuscì a illuderlo di godere della protezione della mafia e a non preoccuparsi, di conseguenza, di rafforzare la vigilanza intorno a sé e al suo aereo.

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Non conosco i dettagli dell' attentato e non credo che altri li conoscano, fatta eccezione ovviamente per gli esecutori. Non sono in grado di affermare se è stata usata una bomba o qualche altro sistema. Quel gruppo di giovanotti, una volta ricevuto l' incarico hanno agito in completa autonomia, secondo lo stile di Cosa Nostra, senza esser cioè tenuti a render conto ad alcuno dei mezzi impiegati per portare a termine il progetto. Ho rivelato uno dei segreti meglio conservati di Cosa Nostra: devo solo aggiungere che anche il rapimento di Mauro De Mauro, il giornalista dell' "Ora" di Palermo scomparso nel 1970, è stato effettuato da Cosa Nostra. De Mauro stava indagando sulla morte di Mattei e aveva ottime fonti all' interno di Cosa Nostra. Stefano Bontade venne a sapere che De Mauro stava avvicinandosi troppo alla verità - e di conseguenza al ruolo che egli stesso aveva giocato nell' attentato - e organizzò il "prelevamento" del giornalista in via delle Magnolie. De Mauro fu rapito per ordine di Stefano Bontade che incaricò dell' operazione il suo vice Girolamo Teresi. La scomparsa di De Mauro non suscitò alcun commento all' interno di Cosa Nostra. Era stato "spento" un nostro nemico e si dette per scontato che il triumvirato che reggeva allora l' associazione in luogo della Commissione provinciale, formato da Stefano Bontade, Gaetano Badalamenti e Luciano Liggio, avesse autorizzato l' azione.

Pasolini il libro:Petrolio e le accuse a Cefis





gian maria volonte


DOCUMENTI


GIOVANNI RIINA confermato l'ergastolo

giovanni riina conferma dell'ergastolo

Giovanni Riina figlio di Totò Riina (boss dei corleonesi) si vede confermare dalla Cassazione l'ergastolo per omicidi di stampo mafioso. Respinta la richiesta di avere "solo" 30 anni di reclusione.



RIINA INTERCETTATO IN CARCERE



 «L’ultimo se mi riesce sarà più grosso... Se mi ci metto con una bella compagnia di anatroccoli “pa...pa...pa... patampiti” così a chi peschiamo peschiamo.... Non devo avere pietà di questi, come loro non hanno pietà». 

Intercettato Salvatore Riina, boss corleonese al 41 bis, nel carcere milanese di Opera mentre nel cortile discute col detenuto pugliese Alberto Lorusso.
Il contenuto del discorso è un'insieme di minacce e commenti su diversi soggetti:
1) Nino Di Matteo (pm antimafia):
«fa uscire pazzo»
«Ti farei diventare il primo tonno, il tonno buono... Ancora ci insisti? Perché, me lo sono tolto il vizio? Inizierei domani mattina... Minchia ho una rabbia... Sono un uomo e so quello che devo fare, pure che ho cento anni». 
«Questo Di Matteo, questo disonorato, questo prende pure il presidente della Repubblica»
«Questo Di Matteo non lo possiamo dimenticare più...»
 «E allora organizziamola questa cosa! Facciamola grossa e non ne parliamo più... Perché questo Di Matteo non se ne va... gli hanno rinforzato la scorta, e allora se fosse possibile... ad ucciderlo... una esecuzione come eravamo a quel tempo a Palermo con i militari».
«Mi viene una rabbia a me... ma perché questa popolazione non vuole ammazzare a nessun magistrato?».




2) Falcone: «Era imprevedibile, disgraziato... (...) Perciò quando ci siamo messi appresso alla macchina che parte, ci siamo andati appresso... lo seguivamo... (...) Il suo cervello ci ha portato il nostro alla pari... Fu una mangiata di pasta... Poi dice: come avete fatto? Come facevate? Niente, semplice!... (...) È andato a vedere la mattanza dei tonni. E meschino, è morto per andare a vedere la mattanza». 

3) Borsellino: «Domenica deve andare da sua madre... ah, gli ho detto, allora preparati, aspettiamolo lì... Devono essere tutte le cose pronte... logicamente si sono fatti trovare pronti. Gli ho detto: se serve mettetegli qualche cento chili in più».

4) Berlusconi: «Noi su Berlusconi abbiamo un diritto - dice Riina - sapete quando? Quando siamo fuori lo ammazziamo... Non l’ammazziamo, però. Perché noi stessi non abbiamo il coraggio di prenderci il diritto... Io lo dico con la rabbia del cuore... Io faccio il malavitoso e basta».
"Berlusconi di fronte ad Andreotti non e' niente. E' come la formica nell'olio"
"Era a livello mondiale Andreotti, altro che. Con i presidenti di tutti i Paesi europei mondiali, era un personaggio Andreotti -prosegue Lorusso- Berlusconi e' un cerca mutande e basta, un imprenditore cerca mutande che si e' buttato in politica". 



5) Rocco Chinnici: «Se ne è salito sul tetto. Ma che volete, allora ancora ne volete? Io vorrei incominciare di nuovo».«quello scappava, volava subito in aria».

6) Messina Denaro: «A me dispiace dirlo, questo signor Messina che fa il latitante, che fa questi pali (...) Questo si sente di comandare, si sente di fare luce dovunque, per prendere soldi, ma non si interessa di... (...) E a noi ci tengono sempre in galera. Però quando siamo liberi li dobbiamo ammazzare... Io ho fatto il mio dovere, ma continuate, continuate. Qualcuno, non dico magari tutti, ma qualcuno, divertitevi...».«Una papera non sono capaci a pigliare, neanche una...». 

venerdì 17 gennaio 2014

BRUNO CONTRADA

bruno contrada


Bruno Contrada (Napoli, 2 settembre 1931).Entrato in Polizia nel 1958, frequentò a Roma il corso di istruzione presso l'Istituto superiore di polizia. Dopo alcuni ruoli nel Lazio, nel 1973 gli venne affidata la direzione della squadra mobile di Palermo.

Nel 1982 transitò nei ruoli del SISDE con l'incarico di coordinarne i centri della Sicilia e della Sardegna. Nel 1986 fu chiamato a Roma presso il Reparto Operativo della Direzione del SISDE.


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Procedimenti giudiziari
Il 24 dicembre 1992 venne arrestato perché accusato di concorso esterno in associazione di tipo mafioso (estensione giurisprudenziale dell'art. 416 bis Codice penale) sulla base delle dichiarazioni di alcuni collaboratori di giustizia (tra i quali Gaspare Mutolo, Tommaso Buscetta, Giuseppe Marchese, Salvatore Cancemi) e rimase in regime di carcere preventivo fino al 31 luglio 1995.
Il primo processo a suo carico, iniziato il 12 aprile 1994, si concluse il 19 gennaio 1996, i giudici disposero dieci anni di reclusione e tre di libertà vigilata.
Il 4 maggio 2001 la Corte d'Appello di Palermo lo assolse perché il fatto non sussiste.
Il 12 dicembre 2002 la Corte di Cassazione annullò la sentenza di secondo grado, ordinando un nuovo processo davanti ad una diversa sezione della Corte d'Appello di Palermo.
Il 25 febbraio 2006 i giudici di secondo grado confermarono, dopo 31 ore di camera di consiglio, la sentenza di primo grado che condannava Bruno Contrada a 10 anni di carcere e al pagamento delle spese processuali.
Il 10 maggio 2007 la Corte di cassazione ha confermato la sentenza di condanna in appello. Contrada venne rinchiuso nel carcere di Santa Maria Capua Vetere, in provincia di Caserta.
Il 24 settembre 2011 la Corte d'appello di Caltanissetta ritiene che «non è manifestamente infondata» la richiesta di revisione del processo, ma l'8 novembre seguente la Corte dichiarò definitivamente inammissibile la richiesta di revisione del processo.

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Richiesta di grazia
A fine dicembre 2007 l'avvocato difensore di Contrada, Giuseppe Lipera, ha inviato al presidente della Repubblica Giorgio Napolitano una "accorata supplica" al fine di sollecitarlo a concedere la grazia in mancanza di un'esplicita richiesta da parte dell'interessato che, ritenendosi innocente, non intende inoltrarla.
In un messaggio, Contrada ha ribadito: «Non ho mai chiesto, né chiedo, né chiederò mai la grazia a quello Stato da cui mi sarei aspettato un grazie e non una grazia».
Contrari a ipotesi di grazia si sono dichiarati Rita Borsellino, l'Associazione dei familiari delle vittime di via dei Georgofili, la Fondazione Caponnetto e la Fondazione Scopelliti.


Differimento pena per motivi salute

Il guardasigilli Clemente Mastella, ha ricordato che «la decisione circa l'istanza di differimento della pena per ragioni di salute è di esclusiva competenza della magistratura di sorveglianza».
Il 28 dicembre 2007 il magistrato di sorveglianza dispone, in maniera del tutto inattesa, il ricovero di Contrada presso il reparto detenuti dell'Ospedale Cardarelli di Napoli, ma il giorno dopo questi chiede di tornare in carcere a causa delle condizioni del reparto giudicate «da incubo» dal suo avvocato.
Il 2 gennaio 2008 rientrando in carcere ha assegnato mandato al proprio legale di presentare istanza di revisione del processo che lo ha condannato in via definitiva a 10 anni di detenzione.
L'8 gennaio il Tribunale di Napoli ha respinto ogni istanza di differimento della pena insieme alla richiesta degli arresti domiciliari.
Il 10 gennaio 2008 il Presidente della Repubblica ha inviato una lettera al ministero della Giustizia per revocare l'avvio dell'iter, ponendo fine, di fatto, alla querelle giudiziari.
Il 16 aprile 2008 chiede che gli venga praticata l'eutanasia.
Il 24 luglio 2008 sono stati concessi a Contrada gli arresti domiciliari per motivi di salute; al provvedimento è seguita la scarcerazione. Il provvedimento di concessione dei domiciliari ha una durata di 6 mesi e prevede l'obbligo di domicilio, negando la possibilità di recarsi a Palermo in quanto i giudici confermano la pericolosità sociale di Bruno Contrada. A Salvatore Borsellino (fratello di Paolo) che dichiarò la sua disapprovazione per la sua scarcerazione, ha risposto con una querela.
Il 5 giugno 2012 la Corte di Cassazione dichiara inammissibile la richiesta di revisione del processo.
L'11 ottobre 2012 viene scarcerato e pochi giorni dopo pubblica per i tipi Marsilio la storia della sua vicenda nel volume La mia prigione


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lunedì 13 gennaio 2014

CARMINE GALANTE "Lilo"

carmine galante


Carmine Galante 
nasce nel 1910 a New York, nell'East Harlem, da una famiglia di siciliani provenienti da Castellammare del Golfo, dove il padre Vincenzo fu un pescatore. Fin da ragazzino mostra il suo carattere irascibile, tanto da venire inviato in riformatorio all'età di dieci anni. Si inserisce nel mondo della criminalità organizzata nell'era del proibizionismo, prima ancora di compiere vent'anni diventa già un associato alla mafia di New York. Nel 1930 mentre tenta di dirottare un camion viene sorpreso dall'ufficiale di polizia Meenahan, ne scaturisce una sparatoria in cui Galante ferisce sia il poliziotto sia una bambina di 6 anni, entrambi sopravviveranno ma Galante verrà condannato a 12 anni e 6 mesi di reclusione.

Carriera nella mafia
Uscito dal carcere nel 1939, negli anni quaranta commette alcuni omicidi su ordine di Vito Genovese Si sospetta che fu proprio Galante nel 1943 ad uccidere a New York Carlo Tresca, l'editore italiano anarchico esiliato da Benito Mussolini. Genovese, che durante la Seconda guerra mondiale si trovava in Italia, con l'eliminazione di Tresca, fermo oppositore del dittatore, voleva attirare i favori di Mussolini.
Grazie alle connessioni dei suoi parenti castellammaresi negli anni '40 viene reclutato dalla famiglia Bonanno, il cui boss era appunto Joe Bonanno, originario anch'egli di Castellamare del Golfo. "Lilo" diviene ben presto guardaspalle e uomo di fiducia del boss, la sua scalata all'interno della gerarchia della famiglia è impressionante, viene prima eletto capodecina, poi, intorno ai quarant'anni, diviene consigliere della famiglia, diventando di fatto il braccio destro di Joe Bonanno.
Galante diventa il principale emissario della mafia in Europa per il traffico di stupefacenti. Nell'agosto 1957 partecipa assieme a Bonanno ad un importante summit tra capi mafia siciliani e americani che si svolge al Grand Hotel delle Palme di Palermo. La questione da discutere in questo vertice è il traffico di eroina, da sempre un tabù nella tradizione della mafia. Sono stati sollevati molti dubbi sulla effettiva esistenza di questa riunione mafiosa, ciò che pare comunque certo è che Bonanno e Galante abbiano ricevuto nell'albergo boss di altissimo calibro tra i quali Lucky Luciano, Gaetano Badalamenti, Giuseppe Genco Russo, Angelo La Barbera e Tommaso Buscetta. L'FBI ritiene che questo meeting abbia sancito il primato della famiglia Bonanno nel traffico dell'eroina rispetto alle altre quattro famiglie di New York.


Incriminazioni e processi
Galante nel 1960 viene arrestato e incriminato dagli agenti dell'antinarcotici di Aslinger in quanto ritenuto a capo di una banda che importava grandi quantitativi di stupefacenti dal Canada. Il processo a suo carico fu interrotto però a causa di un incidente che colpì il capo dei giurati, che venne aggredito da ignoti, riportando la frattura della spina dorsale. Si ritiene che il mandante fosse proprio "Lilo", anche se non fu mai provato. Nel 1962 si svolse il secondo processo contro Galante, anche stavolta non mancarono intimidazioni in aula nei confronti delle giuria da parte dei coimputati di Galante, tredici soldati della famiglia Bonanno. Il giudice una mattina trovò il proprio cane decapitato, un chiaro avvertimento da parte della mafia, ma il processo si concluse comunque decretando la colpevolezza di Galante, accusato di narcotraffico.


Incarcerazione e psicologia
Gli psichiatri del carcere diagnosticarono a Carmine Galante una personalità psicopatica. Galante non tollerava di essere contraddetto, si considerava e si comportava da vero duro, tanto che Ralph Salerno, poliziotto veterano di New York, disse "Il modo di fissare di Galante era minaccioso a tal punto che la gente si faceva piccola sulla sedia".
In carcere "Lilo" aveva un discreto numero di uomini della famiglia Bonanno a lui fedeli, si sentiva protetto ed era temuto dagli altri detenuti. Un episodio avvenuto in galera può dare un'idea della personalità di Galante: durante l'ora in cui era concesso ai carcerati di usare il telefono, Galante salta l'intera fila e, davanti ad alcuni dei più pericolosi criminali di colore della prigione, strappa di mano il telefono al ragazzo afroamericano che stava chiamando in quel momento, insultandolo con epiteti razzisti. Nessuno osò rispondergli. Mentre si trovava in carcere Galante già progettava la sua scalata al potere, raccontando ai suoi uomini di come, non appena in libertà, avrebbe preso il controllo non solo della famiglia Bonanno, ma sarabbe anche diventato il "Capo di tutti i Capi" delle cinque famiglie di New York, facendosi beffe di Carlo Gambino, allora boss della famiglia Gambino, il più potente clan mafioso d'America.

carmine galante arrestato


Presa del potere
Galante uscì di prigione nel 1974 con la chiara intenzione di diventare il boss della famiglia Bonanno. Il capo allora era Philip Rastelli, che non aveva alcuna intenzione di farsi da parte, ma una condanna per estorsione lo fece finire in carcere, sgombrando così il campo per Galante. "Lilo" finse di essersi ripulito e aprì una lavanderia a Little Italy, ma in realtà prese il potere nella famiglia e cominciò a reclutare giovani mafiosi dalla Sicilia, da Castellammare del Golfo. Questi italiani, denominati "Zip", divennero i più stretti collaboratori di Galante e si occupavano della sua sicurezza, i due membri di spicco tra questi siciliani erano Cesare Bonventre e Baldo Amato. Galante si fidava ciecamente di loro, li riteneva non "americanizzati" e quindi più fedeli al codice d'onore della mafia siciliana. Intanto cominciò a monopolizzare il commercio dell'eroina dalla Sicilia agli USA, inimicandosi così le altre famiglie di New York, con cui non aveva intenzione di spartire i proventi del narcotraffico.



Morte

carmine galante uccisoLa Commissione di New York non tollerava il comportamento di "Lilo", e così quando Philip Rastelli, usurpato illegittimamente del potere, inviò dal carcere la proposta di eliminarlo, tutte le famiglie si trovarono d'accordo, anche lo stesso Joe Bonanno, ormai ritirato, approvò l'omicidio del suo ex consigliere.Il 12 luglio 1979 Galante si recò a pranzo nel ristorante italo-americano "Joe and Mary" di Brooklyn, sulla Knickerbocker Avenue, una trattoria tipica siciliana gestita da Giuseppe Turano, un cugino di "Lilo". Un patio privato era stato apparecchiato per Carmine Galante e Angelo Presinzano, un soldato della famiglia. Presinzano abbandonò presto il pasto, mentre fecero la loro comparsa al ristorante gli zip Cesare Bonventre e Baldo Amato, accompagnati da un fedelissimo soldato e socio di "Lilo", Leonardo Coppola. Dopo aver consumato un'insalata di pesce accompagnata da buon vino, Galante si accese il sigaro, in attesa del dolce. Fu in quel momento, alle 14.45, che entrarono nel locale tre uomini mascherati e armati, che si diressero verso il patio e, spalleggiati dagli stessi Cesare Bonventre e Baldo Amato, fecero fuoco contro Galante, Coppola e Turano, uccidendoli all'istante.

assassinio carmine galante




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