domenica 31 marzo 2013

MOVIMENTO INDIPENDENTISTA SICILIANO (MIS)






Il Movimento Indipendentista Siciliano (MIS)

è stato un movimento politico indipendentista, attivo in Sicilia tra il 1943 e il 1951, che auspicava la realizzazione di uno Stato Siciliano separato dall'Italia. Fu denominato anche separatismo.
Genco Russo
Il movimento nacque nel settembre del 1942, come Comitato per l'Indipendenza della Sicilia, prendendo spunto dai Vespri Siciliani. Il primo Presidente fu Andrea Finocchiaro Aprile e nel movimento confluirono esponenti politici eterogenei, fra cui il socialista rivoluzionario Antonio Canepa, poi comandante dell'Esercito Volontario per l'Indipendenza della Sicilia, e Giovanni Guarino Amella, che poi si defilerà preferendo una soluzione autonomista; altri leader separatisti furono soprattutto i grandi proprietari terrieri: il barone Lucio Tasca Bordonaro poi nominato sindaco di Palermo nel 1943 dagli Alleati, Stefano La Motta barone di Monserrato, i monarchici Guglielmo Paternò Castello duca di Carcaci e il principe Giovanni Alliata, il barone Nino Cammarata, gli avvocati Attilio Castrogiovanni, Antonio Di Matteo e Sirio Rossi, Concetto Gallo, Rosario Cacopardo ed Antonino Varvaro.
Il movimento si mise in evidenza all'indomani dell'armistizio di Cassibile, quando nel caos della guerra lo stato italiano aveva di fatto abbandonato la Sicilia e l'esercito alleato non aveva completato l'occupazione militare.
Calogero Vizzini
Finocchiaro Aprile ad ottobre chiese l'abdicazione di Vittorio Emanuele III ed il 9 dicembre accolse le adesioni di una decina di deputati siciliani. Nella primavera del 1944, per imprimere maggior vigore alla lotta il CIS verrà sciolto per dar luogo al Movimento per l'Indipendenza della Sicilia (MIS). In questo clima di importanti aspettative vi erano inoltre notevoli pressioni esercitate dai servizi segreti sia americani che inglesi per cercare di attirare ciascuno nella rispettiva sfera d'influenza l'isola indipendente. Infatti, l'amministrazione degli Alleati vietò ogni attività politica, tollerando però l'esistenza del MIS.
In questo periodo numerosi mafiosi, fra cui Calogero Vizzini, Giuseppe Genco Russo, Michele Navarra e Francesco Paolo Bontate, confluirono nel MIS come esponenti agrari e da questa posizione ottennero numerosi incarichi pubblici e vantaggi; Calogero Vizzini partecipò pure al progetto dell'Esercito Volontario per l'Indipendenza della Sicilia, il braccio armato del MIS, però l'adesione che era stata determinata per fini diversi da quelli politici e per questo fu breve e Vizzini
Michele Navarra
insieme agli altri esponenti (avversati dai dirigenti del MIS Attilio Castrogiovanni e Antonino Varvaro) a partire dal 1946 lasceranno il MIS per garantire il loro appoggio ai rinascenti partiti italiani, in primis la Democrazia Cristiana.
Nell'autunno del 1944, durante il primo congresso che si celebrò a Taormina, venne presa la decisione di passare alla lotta armata, anche in risposta alle continue ed arbitrarie violenze (si veda ad esempio la strage di via Maqueda che si consumò a Palermo proprio durante il primo congresso indipendentista) che venivano perpetrate dalle forze dell'ordine italiane ai danni di sedi ed esponenti del MIS. Sotto la spinta dell'ala oltranzista, il MIS tentò l'insurrezione separatista con la formazione dell'Esercito Volontario per l'Indipendenza della Sicilia (EVIS), la cui attività di guerriglia e resistenza fu talmente veemente che per contrastarla il governo fu costretto ad inviare in Sicilia l'Esercito Italiano. Il 17 giugno 1945 in uno scontro a fuoco con i Carabinieri cadeva il comandante dell'EVIS Antonio Canepa insieme a Carmelo Rosano e Giuseppe Lo Giudice. Il suo posto fu preso da Concetto Gallo, che portò quell'anno a un'alleanza militare con il banditismo e la banda di Salvatore Giuliano. Giuliano fu nominato colonnello dell'EVIS e compì diversi attacchi alle stazioni dei Carabinieri di Bellolampo, Pioppo, e Montelepre, che furono occupate.
Dal febbraio del 1944 la Sicilia fu retta da un Alto Commissario. Dopo il lavoro di un'apposita Consulta entro la quale operarono tra gli altri Giovanni Guarino Amella e Giuseppe Alessi, il 15 maggio 1946 il re Umberto II promulgò un decreto legislativo che riconosceva alla Sicilia uno Statuto Speciale di Autonomia. Lo Statuto verrà poi convertito in legge costituzionale il 26 febbraio 1948 dal parlamento della Repubblica Italiana. Alle elezioni per l'Assemblea Costituente del 2 giugno 1946, il MIS ebbe il battesimo elettorale e ottenne lo 0,7% dei voti (8,7% in Sicilia) e 4 seggi. Vennero eletti Andrea Finocchiaro Aprile (34.068 voti), Antonino Varvaro (18.520), Concetto Gallo (14.749) e Attilio Castrogiovanni (10.514).
Durante il III Congresso del movimento tenutosi nel febbraio del 1947 a Taormina (ME), venne espulso Antonino Varvaro, ex segretario del movimento e capo della corrente di sinistra, dalla quale si dissociò però il Partito Comunista Siciliano del futuro segretario del MIS Francesco Mazza, su decisione della maggioranza. I motivi non vennero mai chiariti: secondo alcuni per la spinta dei latifondisti che premevano per una svolta più autoritaria a destra, secondo altri a causare l'espulsione furono le pressioni politiche esercitate su Varvaro e sua moglie dal Partito Comunista Italiano, avendo questi assunto una posizione progressivamente provocatoria e di contestazione nei confronti della leadership di Finocchiaro Aprile. In sostituzione di Antonino Varvaro venne eletto segretario Attilio Castrogiovanni. Successivamente Varvaro insieme ad Anselmo Crisafulli ed altri dissidenti fondarono il Movimento per l'Indipendenza della Sicilia Democratico-Repubblicano (MISDR). Il movimento di Varvaro, che non ebbe nessun eletto all'ARS, si sciolse dopo poco tempo.




Il MIS partecipò alle prime elezioni regionali siciliane del 20 aprile 1947, dove rimase fermo ai risultati del 1946, con 171.470 voti (8,8%) e nove deputati: Andrea Finocchiaro Aprile, Gioacchino Germanà, Concetto Gallo, Attilio Castrogiovanni, Giuseppe Caltabiano, Rosario Cacopardo, Gaetano Drago, Francesco Paolo Lo Presti e Pietro Landolina. Nelle elezioni politiche del 1948 il MIS con in testa Finocchiaro Aprile si candidò nella lista Unione Movimenti Federalisti, ma ottenne solo 52 mila voti con il 2,1 in Sicilia e lo 0,20 % in Italia, e nessun seggio.
Tuttavia il movimento scomparve dalla scena politica dopo le elezioni regionali del 1951, dove il MIS non ottenne nessun seggio, raggiungendo il 3,91%. Alla sconfitta elettorale seguirono le dimissioni dalla presidenza di Finocchiaro Aprile e di altri esponenti.
Ritenendo che non sia mai intervenuto uno scioglimento formale, il 22 aprile 2004 si è costituito il Movimento per l'Indipendenza della Sicilia, che si richiama direttamente all'esperienza del MIS degli anni quaranta. L'11 maggio 2009, nel corso di una conferenza stampa, i vertici del Movimento hanno conferito la tessera di membro onorario al presidente della regione Sicilia Raffaele Lombardo con la seguente motivazione: « Per essersi posto al servizio della "causa autonomista" e per aver contribuito a risvegliare l'identità e l'orgoglio del Popolo Siciliano », paventando l'ipotesi di un'alleanza con il Movimento per le Autonomie, di cui è leader lo stesso Lombardo.






MICHELE SINDONA


michele sindona Franklin bank


Roberto Calvi? «L’ho praticamente creato io. Ad un certo punto si è trovato solo, solo come ero io».




Primi anni

Michele Sindona nasce nel 1920 a Patti in provincia di Messina, figlio di un piccolo impresario di pompe funebri. Sindona studia dai gesuiti. Laureato in giurisprudenza a Messina nel 1942, lavora per un paio di anni come avvocato.

Soprannominato agli inizi della sua folgorante carriera come "l'avvocaticchio di Patti", viene raccomandato agli alleati sbarcati in Sicilia alla fine della seconda guerra mondiale dal boss Lucky Luciano. Immediatamente comincia a darsi da fare e intrattiene rapporti con l'AMGOT, il governo militare alleato. Compra grano dal capomafia Baldassarre Tinebra, nominato sindaco di Regalbuto dagli americani e socio di Calogero Vizzini, per rivenderlo al governo militare alleato facendosi pagare in armi che rivendeva poi all' EVIS comandato da Salvatore Giuliano. Anche John Mc. Caffery è in rapporti di amicizia e affari con Sindona in quel periodo.


Attività finanziaria 

Al termine della guerra si trasferisce a Milano nel 1946 apparentemente con i proventi del losco traffico in Sicilia e nient'altro, ma dopo 10 anni amministra un patrimonio di 300 miliardi.
La ragione del suo successo è da ricercare nel viaggio che nel 1952 Sindona compì negli USA, dove consolidò le sue conoscenze all'interno di Cosa Nostra, con i servizi segreti statunitensi e con gli ambienti finanziari. Al ritorno da questo viaggio cominciò ad operare come incaricato d'affari di società americane. è in questa veste che entra in rapporti con Franco Marinotti, padrone della SNIA Viscosa della quale Sindona vende i brevetti per la fabbricazione di fibre in USA. Marinotti, coincidenza, ha collaborato durante l'ultimo periodo della guerra con John Mc Caffery.
Attraverso Marinotti Sindona entra in rapporti con Ernesto Moizzi che possiede una piccola banca con cui opera in Borsa per conto della SNIA Viscosa: la Banca Privata Finanziaria. Moizzi possiede anche le fonderie Vanzetti, una specie di azienda rottame di cui non sa come liberarsi. Sindona trova un compratore pronto a pagare senza battere ciglio il triplo del valore dell'azienda, si chiama Dan Porco, boss mafioso e rappresentante della Crucible Steel of America che fa parte del gruppo Colt Industries, la grande multinazionale produttrice di armi.
Dopo la vendita delle Acciaierie Vanzetti, Sindona si guadagna presso Moizzi la totale fiducia e ne diviene socio.
Sindona continua a tessere i suoi rapporti con Cosa Nostra statunitense e quando Joe Adonis viene a Milano, nel Febbraio 1956, per coordinare l'insieme delle attività mafiose in tutta l'Europa centro-occidentale, soprattutto il traffico di stupefacenti in Germania ed Olanda conosce Sindona. Joe Adonis per giustificare la sua prolungata presenza in Italia, si presentava come incaricato da società USA di investire nel campo dei supermercati e degli impianti alberghieri, frequenta quindi assiduamente Sindona che gli fa da consulente fiscale. Successivamente Adonis incaricò Sindona di svolgere alcune missioni di fiducia negli Stati Uniti. Il 12 Ottobre 1957, grazie a simili entrature, partecipa al summit a Palermo di Cosa Nostra statunitense e della mafia siciliana, dove viene deciso di intraprendere il traffico di stupefacenti e dove viene decisa la condanna a morte di Albert Anastasia.
Nel 1959, quindi, Sindona torna in USA su incarico di Adonis e prende contatti con la famiglia di Vito Genovese, al quale l'"avvocaticchio" sistema la situazione contabile e fiscale delle società "legali" di "don Vitone".
Michele Sindona entra quindi nella P2 di Licio Gelli dove conosce John Mc Cone, direttore repubblicano della CIA, fervente cattolico e in stretti rapporti con alti prelati. Negli anni '60, Sindona importa a Piazza Affari gli strumenti di Wall Street: offerte pubbliche di acquisto (OPA), conglomerate, private equity. Nel 1962 grazie alle nuove conoscenze viene incaricato dal Vaticano di "...curare gli affari della Chiesa, negli Stati Uniti..." e lo IOR entra con una partecipazione del 24,5% nella Banca Privata Finanziaria, di cui nel frattempo Sindona è riuscito ad assumere il pieno controllo con capitali di dubbia provenienza. Gli altri soci di minoranza sono la Continental Illinois Bank di cui è presidente David Kennedy, nona per attività di bilancio negli USA ed una delle più utilizzate dalla CIA per le sue operazioni, e la Hambròs Bank (Gran Bretagna). David Kebnnedy è amico e concittadino di Paul Marcinkus, presidente dello IOR e di Dan Porco, e così il cerchio si chiude. Kennedy è socio di Sindona anche nella Fasco A.G., la società del Liechtenstein da cui Sindona manovra in tutto il mondo.
La Hambròs Bank di Londra è invece presieduta da Jocelyn Hambro un collaboratore durante la seconda guerra mondiale di John Mc Caffery.
Hambro era entrato in rapporti durante la sua attività nell'IS inglese con l'industriale fascista Marinotti e con Edgardo Sogno, con cui continuò a mantenere rapporti di solida amicizia. Questo la genesi dell'"Impero Sindona", per le vicende che seguirono fino ad arrivare alla morte di Sindona per avvelenamento rimandiamo alla cronologia.
Nel 1967 l'Interpol statunitense segnalò Sindona come implicato nel riciclaggio di denaro sporco proveniente dal traffico di stupefacenti, per via dei suoi legami con personaggi degli ambienti di Cosa Nostra.
Sindona entra inoltre tra le conoscenze del cardinale Giovanni Battista Montini, arcivescovo di Milano e futuro papa Paolo VI. 
Nel 1971 le sue fortune iniziano a rovesciarsi, a seguito del fallimento dell'OPA sulla finanziaria Bastogi, cui si era opposto Enrico Cuccia, fondatore di Mediobanca.
Nel 1972 entrò in possesso del pacchetto di controllo della Franklin National Bank di Long Island, nell'elenco delle prime venti banche statunitensi. Possedeva inoltre partecipazioni in altre aziende, tra cui una banca di investimento in Italia in diretta concorrenza con Mediobanca. Le sue banche si associarono ad altri istituti di credito, come la Finabank di Ginevra e la Continental Illinois di Chicago.
Nel 1973 Sindona  viene incaricato dalla Cia di organizzare un’operazione finanziaria internazionale contro la lira, per rafforzare il clima di insicurezza in Italia e preparare sbocchi politici autoritari. “La speculazione contro la lira e altre valute da parte delle banche di Sindona, orchestrata dal braccio destro del finanziere, Carlo Bordoni, effettivamente ci fu. E si tradusse per le banche controllate da Sindona in una perdita di 800 milioni di dollari, che non risulta sia stata rimborsata dalla cia” (Il Mondo, 3 aprile 1981).
Sindona venne salutato come "salvatore della lira" da Giulio Andreotti, e nominato "uomo dell'anno" 1974 dall'ambasciatore americano in Italia, John Volpe. Ma nell'aprile dello stesso anno, un crollo del mercato azionario condusse al "crack Sindona". I profitti della Franklin Bank crollarono del 98% rispetto all'anno prima e Sindona accusò un calo di 40 milioni di dollari, iniziando a perdere la maggior parte delle banche acquisite nei 17 anni precedenti. L'8 ottobre 1974, la banca di Sindona fu dichiarata insolvente per frode e cattiva gestione, incluse perdite da speculazione sulle valute correnti e cattive politiche di prestito.


Corruzione e bancarotta fraudolenta

Sindona passò dall'essere un mago della finanza internazionale a essere uno dei più grandi e potenti criminali. Attraverso una serie numerosissima di libretti al portatore trasferì 2 miliardi di lire sulle casse della Democrazia Cristiana, e parecchi milioni di lire transitarono attraverso la CIA, la Franklin Bank e il SID per finanziare, secondo la commissione d'inchiesta del Senato degli Stati Uniti, la campagna elettorale di 21 politici italiani.
Gelli - Calvi - Sindona - Marcinkus
Nel 1971 la Banca d'Italia per mano del Banco di Roma iniziò a investigare sulle attività di Sindona nel tentativo di non fare fallire gli Istituti di credito da questi gestiti (Banca Unione e Banca Privata Finanziaria). I motivi delle scelte dell'allora Governatore Carli erano chiaramente tese a non provocare il panico nei correntisti. Il Banco di Roma accordò un prestito a Sindona; il suo amministratore delegato Mario Barone fu cooptato come terzo amministratore degli istituti, riuniti nella Banca Privata Italiana, mentre il Direttore Centrale del Banco di Roma, Giovanbattista Fignon, ne divenne Vice Presidente e Amministratore Delegato. Fignon andò a Milano a rivestire la carica e capì immediatamente la gravità della situazione. Stese numerose relazioni, capì le operazioni gravose messe in piedi da Sindona e dai suoi collaboratori tanto che ne ordinò l'immediata sospensione.
Ciò che emerse dalle investigazioni indusse la Banca d'Italia, nel 1974, a ordinare un commissario liquidatore. Per il compito fu scelto Giorgio Ambrosoli, che assunse la direzione della banca e si trovò ad esaminare tutta la trama delle articolatissime operazioni che il finanziere siciliano aveva intessuto, cominciando dalla società "Fasco", l'interfaccia fra le attività palesi e quelle occulte del gruppo. Nel corso dell'analisi svolta dall'avvocato emersero le gravi irregolarità di cui la banca si era macchiata e le numerose falsità nelle scritturazioni contabili.
Contemporaneamente a questa opera di controllo, Ambrosoli cominciò ad essere oggetto di pressioni e di tentativi di corruzione. Queste miravano sostanzialmente a ottenere l'approvazione di documenti comprovanti la buona fede di Sindona. Se si fosse ottenuto ciò lo Stato Italiano, per mezzo della Banca d'Italia, avrebbe dovuto sanare gli ingenti scoperti dell'istituto di credito. Sindona, inoltre, avrebbe evitato ogni coinvolgimento penale e civile. Malgrado ciò, Ambrosoli confermò la necessità di liquidare la banca e di riconoscere la responsabilità penale del banchiere.
Nel corso dell'indagine emerse, inoltre, la responsabilità di Sindona anche nei confronti della Franklin National Bank, le cui condizioni economiche erano ancora più precarie, e l'indagine vide dunque coinvolta anche l'FBI.





Mandante dell'omicidio Ambrosoli

Nel 1977 Sindona si incontrò spesso con il suo Gran Maestro Licio Gelli per elaborare piani di salvataggio della Banca Privata Italiana; Gelli stesso interessò l'onorevole Giulio Andreotti, il quale gli riferì che "la cosa andava positivamente" ed incaricò informalmente il senatore Gaetano Stammati (affiliato alla loggia P2) e l'onorevole Franco Evangelisti di studiare il progetto di salvataggio della Banca Privata Italiana, il
Giorgio Ambrosoli
quale venne però rifiutato da Mario Sarcinelli, vice direttore generale della Banca d'Italia. Inoltre Sindona chiese denaro al banchiere Roberto Calvi per rimette in piedi le sue banche ma, fallito questo tentativo, iniziò a ricattarlo attraverso le campagne di stampa del giornalista Luigi Cavallo che mettevano in luce le attività illegali del Banco Ambrosiano diretto da Calvi.
In questi anni Sindona incanalava nelle sue società finanziarie gli investimenti del mafioso americano John Gambino; attraverso Sindona e Gambino, i boss Stefano Bontate, Salvatore Inzerillo e Rosario Spatola investivano il loro denaro sporco in società finanziarie e immobiliari estere: tutte le transazioni finanziarie che riguardavano il riciclaggio avvenivano nella Finabank di Ginevra (in cui la Banca Privata Finanziaria aveva una partecipazione di controllo) e l’Amincor Bank di Zurigo, la quale ufficialmente non era riconducibile a Sindona.

Aricò arrestato
Nel 1979 Ambrosoli ricevette una serie di telefonate intimidatorie anonime nelle quali il suo interlocutore (indicato da Ambrosoli con il termine convenzionale di "picciotto" per via del suo accento siciliano); l'autore delle telefonate anonime era il massone Giacomo Vitale, cognato del boss mafioso Stefano Bontate. L'11 luglio 1979 Ambrosoli venne ucciso con quattro colpi di pistola dal malavitoso americano William Joseph Aricò, che aveva ricevuto l'incarico da Sindona stesso attraverso il suo complice Robert Venetucci (un trafficante di eroina legato a Cosa Nostra americana) mentre nei pedinamenti ad Ambrosoli per preparare l'omicidio, Aricò era stato accompagnato da Giacomo Vitale, l'autore delle telefonate anonime; il delitto venne eseguito per rimuovere un ostacolo, rappresentato da Ambrosoli, alla realizzazione dei progetti di salvataggio delle banche e per terrorizzare Enrico Cuccia, presidente di Mediobanca ed oppositore del piano di salvataggio.







Il finto sequestro 

sindona sequestro

John Gambino
Nell'agosto 1979, mentre era indagato dalle autorità statunitensi, Sindona scomparve improvvisamente da New York e, servendosi di un passaporto falso, raggiunse Vienna accompagnato da Anthony Caruso, un piccolo funzionario della Barclays Bank, e Joseph Macaluso, un costruttore italoamericano; Sindona, dopo una sosta ad Atene, arrivò a Brindisi e da lì in macchina arrivò a Caltanissetta, venendo raggiunto in momenti diversi da Giacomo Vitale e da altri massoni, tra cui il suo medico di fiducia Joseph Miceli Crimi (affiliato alla loggia P2), che lo accompagnarono nel resto del viaggio. Il 17 agosto arrivò a Palermo e successivamente incontrò John Gambino, giunto da New York per seguire personalmente la vicenda: Sindona venne ospitato nella villa di Rosario Spatola a Torretta. Lo scopo del viaggio di Sindona era quello di simulare un sequestro ad opera di un inesistente gruppo terroristico denominato “Comitato Proletario E
versivo per una Vita Migliore“ ma in realtà organizzato da John Gambino, Stefano Bontate e Salvatore Inzerillo e doveva servire a fare arrivare velati avvisi ricattatori per portare a buon fine il salvataggio delle sue banche e quindi del denaro investito da Gambino e dagli altri mafiosi.
Stefano Bontate
Durante questo periodo Sindona mandò Miceli Crimi almeno due volte ad Arezzo per convincere Licio Gelli a fare pressioni ai suoi precedenti alleati politici, tra cui l'onorevole Giulio Andreotti, ed in cambio gli offrì la cosiddetta "lista dei cinquecento", l'elenco di notabili che avevano esportato capitali illegalmente. Tuttavia però i tentativi di pressione fallirono. Seguirono alcuni tentativi di intimidazione nei confronti di Enrico Cuccia, di cui si occupò John Gambino: nell'ottobre 1979 Cuccia ricevette numerose telefonate minatorie e il suo portone venne incendiato da due molotov. Infine, come tentativo estremo, nella villa di Torretta Sindona si fece addirittura sparare ad una gamba da Miceli Crimi sotto anestesia, al fine di rendere più veritiero il
sequestro. Inoltre Sindona aveva proposto a Stefano Bontate un piano separatista della Sicilia e l'affiliazione di alcuni mafiosi siciliani in una loggia massonica coperta, anche se la proposta non venne accolta positivamente da tutti i mafiosi.
 Il 16 ottobre 1979, dopo il fallimento dei vari tentativi di ricatto, Sindona "ricomparve" in una cabina telefonica di Manhattan, in condizioni fisiche opportunamente da sequestrato, e si arrese alle autorità. Nel 1980, Sindona venne condannato negli Stati Uniti per 65 accuse, tra cui frode, spergiuro, false dichiarazioni bancarie ed appropriazione indebita di fondi bancari; la sua difesa era assicurata da uno dei principali avvocati americani, Ivan Fisher.
Mentre si trovava in carcere, nelle prigioni federali statunitensi, il governo italiano presentò agli U.S.A. domanda di estradizione perché Sindona potesse presenziare al processo per omicidio. Il 27 marzo 1984 Sindona venne condannato a 25 anni di prigione e il 18 marzo 1986 fu condannato all'ergastolo quale mandante dell'omicidio Ambrosoli.


Sindona e Venetucci in carcere


Morte

Due giorni dopo la condanna all'ergastolo, fu avvelenato con un caffè al cianuro di potassio nel supercarcere di Voghera, il 20 marzo 1986: morì all'ospedale di Voghera dopo due giorni di coma profondo. Sindona era stato visitato in carcere da Carlo Rocchi che lo aveva rassicurato dell'aiuto degli americani per le sue vicende. La sua morte è stata archiviata come suicidio poiché il cianuro di potassio ha un odore particolarmente pregnante e quindi risulta difficile l'assunzione involontaria;
il comportamento e i movimenti di Sindona stesso lo confermavano, facendo pensare a un tentativo di auto-avvelenamento per essere estradato negli Stati Uniti, coi quali l'Italia aveva un accordo sulla custodia di Sindona legato alla sua sicurezza e incolumità. Quindi un tentativo di avvelenamento lo avrebbe riportato al
sicuro negli Stati Uniti. Sindona fece di tutto per ottenere l'estradizione negli Stati Uniti e l'avvelenamento, secondo l'ipotesi più accreditata, fu l'ennesimo tentativo. Quella mattina andò a zuccherare il caffè in bagno e come ricomparve davanti alle guardie carcerarie gridò: «Mi hanno avvelenato!». Resta comunque plausibile l'ipotesi che la persona fino a oggi ignota che gli fornì il veleno, lo manipolò in modo che lo portasse alla morte e non, come previsto, a un semplice malore, magari in accordo con chi lo avrebbe voluto togliere di mezzo.
Il giornalista e docente universitario Sergio Turone ipotizza che fu Andreotti a far pervenire la bustina di zucchero contenente il cianuro fatale a Sindona, facendo credere a quest'ultimo che il caffè avvelenato gli avrebbe causato solo un malore. Secondo Turone, il movente del presunto omicidio sarebbe stato il timore che Sindona rivelasse durante il processo d'appello segreti riguardanti i rapporti tra politici italiani, Cosa Nostra, e la P2: "fino alla sentenza del 18 marzo 1986 Sindona [aveva] sperato che il suo potente protettore [Andreotti] trovasse la via per salvarlo dall'ergastolo. Nel processo d'appello, non avendo più nulla da perdere, avrebbe detto cose che fin ora aveva taciuto". Va tuttavia sottolineato che tale ipotesi non è stata suffragata da alcuna prova concreta che implichi in alcun modo Andreotti nella morte di Sindona.
Ancora nel 2010, Giulio Andreotti riportava un giudizio positivo su Sindona: «Io cercavo di vedere con obiettività. Non sono mai stato sindoniano, non ho mai creduto che fosse il diavolo in persona. Il fatto che si occupasse sul piano internazionale dimostrava una competenza economico finanziaria che gli dava in mano una carta che altri non avevano. Se non c'erano motivi di ostilità, non si poteva che parlarne bene».

Paolo Panerai per Milano Finanza

Pochi mesi prima del crack, Sindona era stato carinamente intervistato da Enzo Biagi per la terza pagina del Corriere della Sera con dichiarazioni, non controbattute, secondo cui il suo impero era di una solidità granitica. Sapendo che sapevo, Biagi ha tentato successivamente più volte di ostacolare la mia carriera giornalistica.
Dopo Sindona, e dopo il libro 'Il Crack' che ho scritto con Maurizio De Luca, intervistai Bordoni, finito nel carcere modello di Caracas, dove era riparato, per aver frodato le autorità venezuelane per ottenerne la cittadinanza. Bordoni fece le rivelazioni fondamentali perché il procuratore John J. Kenney di Manhattan, con il giudice Thomas Griesa (che ora sta perseguendo il governo argentino per i tango bond non pagati), potesse incarcerare Sindona.
Bordoni rivelò per mio tramite che quanto Sindona aveva dichiarato alla Sec relativamente all'origine dei capitali per comprare la Franklin era falso: i soldi non erano suoi ma delle banche italiane che controllava e se ne era impossessato con prestiti fiduciari. Quella confessione è valsa a Bordoni eterna protezione di tre marshall e il cambiamento dei connotati nel programma dei collaboratori di giustizia.
Per questa mia attività giornalistica, ero in costante contatto con il giudice istruttore Ovilio Urbisci ed ero diventato buon amico del liquidatore Ambrosoli, nonché dei suoi collaboratori, con in primo piano il maresciallo della Guardia di finanza, Silvio Novembre.
gelli p2Il rapporto di fiducia con Ambrosoli era assoluto e del resto ci accumunavano anche le minacce da parte di Sindona tramite un suo familiare. Fu così, che proprio per parlare delle minacce comuni, che un giorno andai a trovare Ambrosoli negli uffici della banca in via Boito.
Come al solito, Ambrosoli era sorridente e con il volto sereno, nonostante lo stress del lavoro di 16 ore al giorno. «Ho qualcosa da mostrarti», mi disse Giorgio. «Visto che loro alzano il tiro, è giusto che la verità emerga». E mi mostrò la lista cosiddetta dei 500 perché conteneva i nomi e i conti cifrati di 500 italiani presso la banca svizzera di Sindona, la Finabank di Ginevra.
«Ma voglio che tu ti trascriva un solo nome: eccolo». Il martedì dopo, giorno di chiusura de Il Mondo, di cui ero diventato direttore, passai in tipografia una finta copertina a colori. All'ultimo minuto, prima che iniziasse la stampa, passai la foto del presidente della Repubblica, Giovanni Leone, con lo strillo «Lista dei 500 - C'è anche lui».
Angelo Rizzoli, presidente della casa editrice, era molto amico di Mauro Leone, il figlio del presidente, ma quando uscì il giornale e io gli portai la prima copia, con la lettera di dimissioni in tasca, da vero editore il nipote del fondatore non fece una piega. Era turbato, ma non mi disse una parola negativa.
La lista dei 500, che nessuno aveva voluto vedere (il vicepresidente del Banco di Roma, Ferdinando Ventriglia, era addirittura fuggito quando gliela volevano mostrare), dimostrava inequivocabilmente la profondità dei rapporti politici di Sindona, non solo negli Usa ma anche in Italia, e anche oltre al noto legame con Andreotti. Ma nessuno di questi rapporti era così stretto come quello con il pluripresidente del Consiglio.
L'encomio che Andreotti fece a Sindona, definendolo in una cena americana «salvatore della lira» (lira che lo stesso Sindona aveva attaccato attraverso Bordoni, il re dei cambisti, e i legami di quest'ultimo con la banca centrale ungherese), era niente. Andreotti fece di tutto per salvare Sindona anche dopo il crack, quando Ambrosoli ne metteva a nudo le malefatte.
L'operazione, che coinvolse Enrico Cuccia fino all'incontro americano fra questi e Sindona, passava attraverso Franco Evangelisti, che a sua volta operava attraverso l'avvocato Rodolfo Guzzi, l'unico che ha seguito Sindona sino alla fine.
Il salvataggio doveva essere fatto attraverso Mediobanca e le minacce pesanti a Cuccia avevano sortito i loro effetti, appunto sino a spingere il capo di Mediobanca a recarsi a New York per incontrare Sindona. In sostanza, doveva avvenire una sorta di concordato stragiudiziale per rimettere le banche in bonis. Un'operazione impossibile, alla quale Ambrosoli si oppose fin dal suo delinearsi. E fu proprio questo rifiuto che lo condannò.
Lei, Senatore Andreotti, conosce perfettamente quei fatti. Sa anche che Cuccia tacque alle autorità le palesi minacce di cui Sindona stesso gli aveva parlato contro l'avvocato Ambrosoli. Lei sa bene che il suo più diretto collaboratore, Evangelisti, esercitò ogni forma di potere per salvare Sindona. Ma né Lei, che pure conosceva benissimo il clima che si era creato, né Cuccia (che sorprendente combinazione!) faceste niente per salvare un Eroe, come Ambrosoli.

                                                                                                                                                                 

Documenti

giovedì 28 marzo 2013

GIROLAMO LI CAUSI


GirolamoLiCausi


« Perché avete fatto uccidere Giuliano? Perché avete turato questa bocca? La risposta è unica: l'avete turata perché Giuliano avrebbe potuto ripetere le ragioni per le quali Scelba lo ha fatto uccidere. Ora aspettiamo che le raccontino gli uomini politici, e verrà il tempo che le racconteranno. »
(Girolamo Li Causi. Intervento alla Camera dei deputati nella seduta del 26 ottobre 1951)



Girolamo Li Causi 



(Termini Imerese, 1º gennaio 1896 – Palermo, 14 aprile 1977) è stato un politico italiano. È stato il primo segretario del PCI siciliano.
Già dirigente socialista, aderì al Partito Comunista d'Italia nel 1924. Nel 1926 fu per alcuni mesi direttore de L'Unità. Nel 1928 venne arrestato per la sua attività antifascista e condannato a 21 anni di carcere.
Liberato nell'estate del 1943, diventò partigiano ed entrò nel CLNAI. Venne quindi rimandato nella natia Sicilia per organizzare la presenza del Partito Comunista, di cui divenne il primo segretario regionale. Il forte impegno politico contro la mafia caratterizzò subito la sua azione e per questo 16 settembre 1944 fu vittima di un attentato da parte di un gruppo di mafiosi guidato da Calogero Vizzini. In tale occasione, in cui vennero ferite 14 persone, Li Causi venne attaccato durante un comizio in cui stava intervenendo insieme a Gino Cardamone e Michele Pantaleone a Villalba.



Incarichi istituzionali 

Nel 1946 venne eletto deputato nell'Assemblea Costituente. Fu eletto per la Prima volta in Parlamento nel 1948 e, attraverso varie legislature, ricoprì la carica di Deputato e quella di Senatore. Fu vicepresidente della prima Commissione parlamentare di inchiesta sul fenomeno mafioso.



Portella della Ginestra 

« Gli obiettivi immediati delle forze alleate in Sicilia furono dunque: a) mantenere l'ordine conservando nello stesso tempo buoni rapporti con la popolazione; b) ripristinare un tessuto sociale affidabile e conforme agli interessi anglo-americani, come si venivano delineando nel quadro strategico internazionale; c) stroncare le forze di sinistra prima di un loro troppo profondo radicamento sociale. »
(Nicola Tranfaglia in "Come nasce la Repubblica", pagine fra 91 e 98)
Li Causi fu probabilmente l’uomo politico più direttamente impegnato sulla strage di Portella della Ginestra: la denunciò all’opinione pubblica e ne seguì gli sviluppi, individuandone la principale causa nella vittoria, alle elezioni regionali, dell’alleanza elettorale di sinistra in un contesto di scontro tra il separatismo isolano e il movimento contadino che chiedeva l’applicazione della riforma agraria. Li Causi indirizzò inoltre durissime accuse anche alle forze di polizia, denunciando i loro legami con mafiosi e saparatisti, e al ministro Mario Scelba, più volte accusato di essere direttamente implicato nella vicenda.



Documenti 

Il 10 maggio 1950, durante la sua deposizione istruttoria, Girolamo Li Causi presentò alcuni significativi documenti. Venne esibita per prima una lettera mandata da Salvatore Giuliano all'Unità con richiesta di pubblicazione. Il timbro fa risalire la missiva al 2 ottobre 1948. Fra gli stralci di interesse investigativo si trova questo: "[...] oggi potrei mostrare una lettera che un amico intimo del signor Scelba, proprio alla vigilia delle elezioni, mi mandò e conteneva la promessa [...]".
Il secondo documento presentato, era una missiva autografa di Giuliano che rispondeva al comizio dello stesso Li Causi tenuto a Portella della Ginestra i 1º maggio 1949, quando venne scoperta la lapide dedicata alle vittime. In questo discorso che fece scalpore all'epoca, Li causi chiese direttamente a Giuliano di far i nomi dei mandanti della strage e nella lettera esibita Giuliano rispondeva: "I nomi possono farli coloro che tengono la faccia di bronzo, ma non un uomo [...]".
Li Causi esibì infine una terza lettera autografa di Giuliano, già pubblicata dall'Unità il 30 aprile 1950, in cui il malvivente minacciava senza mezzi termini Mario Scelba in riferimento al suo luogotenente Gaspare Pisciotta, in odore di tradimento.
« Il Giuliano allora si è avvicinato a me chiedendomi dove fosse mio fratello. Ho risposto che si trovava in paese con un foruncolo. Egli allora mi ha detto: 'E' venuta la nostra liberazione'. Io ho chiesto: -E qual è?- Ed egli di rimando mi disse: 'Bisogna fare un'azione contro i comunisti: bisogna andare a sparare contro di loro, il 1º maggio a Portella della Ginestra. Io ho risposto dicendo che era un'azione indegna, trattandosi di una festa popolare alla quale avrebbero preso parte donne e bambini ed aggiunsi: 'Non devi prendertela contro le donne ed i bambini, devi prendertela contro Li Causi e gli altri capoccia. »
(Dichiarazione di Gaspare Pisciotta, luogotenente di Salvatore Giuliano)
Tutte queste lettere, unitamente alla deposizione di Pisciotta in cui lo stesso sostiene la presenza di una corrispondenza tra Giuliano e il Ministro Mario Scelba (latore un deputato amico), non fornirono, secondo gli investigatori, riscontri oggettivi al proseguimento delle indagini in direzione di un intreccio destabilizzante fra Salvatore Giuliano e segmenti dell'ambiente politico.

DOCUMENTI

SALVATORE GIULIANO





Salvatore Giuliano con il futuro boss Vito Genovese

Salvatore Giuliano 

(Montelepre, 22 novembre 1922 – Castelvetrano, 5 luglio 1950) è stato un bandito e criminale italiano. Per alcuni mesi sfruttò la copertura dell' EVIS, un gruppo di separatisti attivo principalmente a partire dalla fine della seconda guerra mondiale per le sue azioni criminose.
Il padre, suo omonimo, costretto ad emigrare negli Stati Uniti, a più riprese riuscì a comprare diversi pezzi di terra nei dintorni del paese. Infine rimpatriò, proprio nell'anno di nascita d
i Salvatore, per occuparsi della loro coltivazione.
Il giovane Salvatore, finite le elementari, andò ad aiutare il padre. In verità avrebbe preferito il commercio, ma non si sottraeva al suo dovere anzi trovava il tempo per continuare gli studi. Spesso finito il lavoro, andava dal prete del paese o da un suo ex insegnante.




La latitanza 

Fu una figura molto controversa: di umili origini, la sua latitanza inizia nel 1943 quando, fermato ad un posto di blocco mentre trasporta due sacchi di frumento (80 kg) caricati su un cavallo, gli vengono sequestrati cavallo e frumento e, lasciato solo, tenta di allontanarsi, ma i militari gli sparano sei colpi di moschetto. Due proiettili lo colpiscono al fianco destro. Un militare gli si avvicina per dargli il colpo di grazia. Salvatore Giuliano reagisce uccidendo il giovane carabiniere con un colpo di pistola, e si dà alla macchia. Presto costituì una banda intorno alle montagne di Montelepre.






Colonnello dell'EVIS

Dalla fine del 1945 le sue imprese ebbero per qualche mese una natura politica di ispirazione separatistica, grazie ai contatti inizialmente con il Movimento Indipendentista Siciliano (MIS), entrando, nella sua organizzazione paramilitare l'E.V.I.S. (Esercito Volontario per la Indipendenza Siciliana) fondato da Antonio Canepa, del quale fu nominato "colonnello". Fu il successore di Canepa, Concetto Gallo, a portare nel dicembre del 1945 Giuliano nell'EVIS,. L'E.V.I.S. si sciolse nei primi mesi del'46. Molti membri delle forze dell'ordine caddero in agguati ad opera degli uomini di Giuliano, in imboscate e assalti alle caserme dei carabinieri di Bellolampo, Pioppo, Montelepre e Borgetto, alcune delle quali furono anche occupate. Fu costituito per contrastarlo l'Ispettorato generale di polizia in Sicilia, ma con scarso successo. Nel gennaio 1946 fu addirittura attaccata la sede della Radio di Palermo.
Il M.I.S. nel 1946 decise di entrare nella legalità e di partecipare alle elezioni per l'Assemblea Costituente. Il separatismo scemò con il riconoscimento dello Statuto speciale siciliano conferito da Re Umberto II alla Sicilia nel maggio 1946, 17 giorni prima del referendum che trasformerà l'Italia in Repubblica, e divenne parte integrante della Costituzione Italiana (legge costituzionale n° 2 del 26/02/1948). Con l'amnistia del 1946 per i reati politici, i separatisti lasciarono la banda e Giuliano continuò la lotta con coloro che avevano reati comuni. Le imprese di Giuliano, da allora, furono trasmesse all'opinione pubblica come veri e propri atti di criminalità comune, di "brigantaggio", compresi i sequestri.



La strage di Portella



Fu accusato della strage di Portella della Ginestra del 1º maggio 1947, presso Piana degli Albanesi (PA), dove duemila lavoratori, in prevalenza contadini, si erano riuniti per manifestare contro il latifondismo ed a favore dell'occupazione delle terre incolte, oltre che per festeggiare la vittoria del Blocco del Popolo nelle recenti elezioni per l'Assemblea Regionale Siciliana, svoltesi il 20 aprile di quell'anno e nelle quali il Blocco del Popolo, la coalizione PSI - PCI aveva conquistato 29 rappresentanti su 90 (con il 29% circa dei voti). L'eccidio causò 11 morti e 27 feriti.
Una seconda strage, quella di Bellolampo-Passo di Rigano ad opera di Giuliano avvenne il 19 agosto 1949 nella quale persero la vita sette carabinieri e 11 rimasero feriti, tra cui il colonnello Ugo Luca. Pochi giorni dopo fu decisa la costituzione del Comando forze repressione banditismo, con Luca al comando.


La morte


Operò ancora per diverso tempo in contesti sempre più ristretti, prima di essere ucciso, ufficialmente in uno scontro con i carabinieri del "Comando forze repressione banditismo" del colonnello Ugo Luca guidati dal capitano Perenze, nel cortile dell'avvocato De Maria in via Mannone a Castelvetrano (TP) il 5 luglio 1950, dove era andato, attratto dal suo luogotenente, il cugino Gaspare Pisciotta, che avrebbe dovuto farlo imbarcare su un sommergibile USA per farlo riparare negli Stati Uniti. Sulla sua morte subito apparvero diverse incongruenze della versione degli inquirenti.
Nel 1950 il giornalista de L'Europeo Tommaso Besozzi pubblica un'inchiesta sull'uccisione di Giuliano dal titolo Di sicuro c'è solo che è morte, nella quale smentisce la versione ufficiale del fatto e indica come assassino di Giuliano, Gaspare Pisciotta.
Gaspare Pisciotta sosteneva di aver raggiunto un accordo con il colonnello Ugo Luca, comandante delle forze antibanditismo in Sicilia, di collaborare e uccidere Giuliano, a condizione che non fosse condannato e che Luca fosse intervenuto in suo favore qualora fosse stato arrestato. Il colonnello Luca sarebbe stato autorizzato a accettare tale accordo dal Ministro dell'Interno Mario Scelba[senza fonte].

Al processo per il massacro di Portella della Ginestra, Pisciotta dichiaro': "Coloro che ci avevano fatto le promesse si chiamavano così: il deputato DC Bernardo Mattarella, il principe Alliata, l'onorevole monarchico Marchesano e anche il signor Scelba… Furono Marchesano, il principe Alliata, l'onorevole Mattarella a ordinare la strage di Portella della Ginestra... Prima del massacro incontrarono Giuliano... Ciò nonostante Mattarella, Alliata e Marchesano, in un processo sul loro supposto ruolo nell'evento, furono dichiarati innocenti dalla Corte di Appello di Palermo. Durante il processo Pisciotta non poté confermare le accuse presenti nella documentazione di Giuliano nella quale questi nominava il Governo Italiano, gli alti ufficiali dei Carabinieri e i mafiosi coinvolti nella sua banda. E ancora: “Servimmo con lealtà e disinteresse i separatisti, i monarchici, i democristiani e tutti gli appartenenti a tali partiti che sono a Roma con alte cariche, mentre noi siamo stati scaricati in carcere. Banditi, mafiosi e carabinieri eravamo la stessa cosa”.
Pisciotta fu poi avvelenato nel carcere dell'Ucciardone, con un caffè alla stricnina, prima di rendere la sua testimonianza sulla strage di Portella della Ginestra al procuratore Pietro Scaglione (che verrà assassinato dalla Mafia nel 1971).
Mario Scelba
« L'attestato di benemerenza rilasciato al separatista Gaspare Pisciotta a firma del ministro Mario Scelba
Il nominato Gaspare Pisciotta di Salvatore e di Lombardo Rosalia, nato a Montelepre il 5 marzo 1924, raffigurato nella fotografia in calce al presente, si sta attivamente adoperando - come da formale assicurazione fornitami nel mio ufficio in data 24 giugno c. dal colonnello Luca - per restituire alla zona di Montelepre e comuni vicini la tranquillità e la concordia, cooperando per il totale ripristino della legge. Assicuro e garantisco fin d'ora che la sua preziosa ed apprezzata opera sarà tenuta nella massima considerazione anche per l'avvenire e verrà da me segnalata alla competente Autorità Giudiziaria perché - anche sulla base delle giustificazioni e dei chiarimenti che egli fornirà - voglia riesaminare quanto gli è stato addebitato, vagliando attentamente e minuziosamente tutte le circostanze dei vari episodi, al fine che nulla sia trascurato per porre in chiara luce ogni elemento a lui favorevole. Il Col. Luca, unico mio fiduciario, raccoglierà intanto ogni dato utile al riesame della sua posizione, tenendomi informato dei risultati conseguiti.
Il Ministro Mario Scelba. »
Lo studioso Giuseppe Casarrubea ha chiesto alla Procura di Palermo di riaprire la bara tumulata nella cappella della famiglia Giuliano a Montelepre per accertarne l'identità; la riesumazione è avvenuta il 28 ottobre 2010 ma l'esame del DNA e gli accertamenti medico-legali hanno confermato che i resti sepolti nella tomba della famiglia Giuliano appartengono realmente al bandito e quindi l'inchiesta è stata archiviata.



Portella della Ginestra una tesi recente

Una recente tesi più grave attribuisce, invece, la strage ad una coincidenza di interessi tra i post-fascisti, che durante la guerra avevano combattuto nella Xª Flottiglia MAS di Junio Valerio Borghese, i servizi segreti USA (preoccupati dell'avanzata social-comunista in Italia), ed i latifondisti siciliani.
« I rapporti desecretati dell' OSS e del CIC (i servizi segreti statunitensi della Seconda guerra mondiale), che provano l'esistenza di un patto scellerato in Sicilia tra la cosiddetta “banda Giuliano” e elementi già nel fascismo di Salò (in primis, la Decima Mas di Junio Valerio Borghese e la rete eversiva del principe Pignatelli nel meridione) sono il risultato di una ricerca promossa e realizzata negli ultimi anni da Nicola Tranfaglia(Università di Torino), dal ricercatore indipendente Mario J. Cereghino e da chi scrive. »
(da Edscuola, Dossier a cura del prof. Giuseppe Casarrubea)







mercoledì 20 marzo 2013

ANTONIO LABRUNA



«Dagli anni ’60 agli anni ’80 non c’ è stato mistero italiano nel quale non sia comparso con qualche ruolo. (...) Una presenza costante ma sempre di seconda fila». [Rep. 28/1/2000]



Antonio Labruna

(Napoli, 16 aprile 1927 – Bracciano, 27 gennaio 2000) è stato un agente segreto italiano.

Entra giovanissimo nell'arma dei Carabinieri e poi nel Servizio Informazioni Difesa (SID), dove coordina il Nucleo Operativo Diretto (NOD), alle dirette dipendenze del capo del Reparto D Gianadelio Maletti. Compie molti viaggi in Spagna, Grecia, Israele e Europa dell'est. Si occupa di "disattivare" alcune fonti del SID, all'interno del mondo dell'eversione neofascista italiana.
Nel 1972 venuto a conoscenza di alcuni particolari dell'organizzazione del Golpe Borghese (del 1970), riesce a ricostruirne molti particolari: ma i suoi rapporti vengono manipolati e consegnati incompleti alla magistratura.
«A dispetto della sua aria anonima, da mezzemaniche più che da 007, era un vero agente speciale. Sapeva parlare quattro lingue, e aveva una capacità di infiltrazione che gli consentì di fare alcuni scoop spionistici di alto livello. Il più importante nel 1974 quando raccolse, in una serie di bobine registrate (una delle sue passioni) le prove che nel 1970 era stato tentato un vero e proprio golpe che prevedeva tra l’altro l’arresto dell’allora capo dello Stato, Giuseppe Saragat, con la collaborazione di Licio Gelli». [Rep. 28/1/2000]
Nel 1981 il suo nome apparve negli elenchi degli iscritti alla loggia massonica P2.


La strage di Piazza Fontana

E' implicato nelle vicende processuali legate all'inchiesta sulla strage di Piazza Fontana del dicembre 1969 perché accusato dell'organizzazione della fuga dei ricercati Guido Giannettini e Marco Pozzan, agenti del servizio. Per questa accusa è arrestato il 28 giugno 1976 insieme al generale Maletti, ex capo del reparto D; viene condannato in via definitiva nel gennaio 1987, insieme a Maletti, per aver favorito la fuga dei due ricercati.



DOCUMENTI

VINCENZO VINCIGUERRA



"Non si può fare la latitanza senza denaro. Non si può fare la latitanza senza appoggi. Potevo scegliere la strada che hanno seguito altri, di trovare altri appoggi, magari in Argentina presso i servizi segreti. Diventare cittadino argentino collaborando coi servizi segreti argentini. Potevo anche scegliere la strada della malavita. Però non sono portato né a fare il collaboratore dei servizi segreti, né a fare il delinquente. Quindi per ritrovare la mia libertà avevo soltanto una scelta. Che era quella di costituirmi. E questo ho fatto." 

Intervista a Vincenzo Vinciguerra, 8 luglio 2000, di Gigi Marcucci e Paola Minoliti


strage peteano vinciguerra

Vincenzo Vinciguerra


(Catania, 3 gennaio 1949) è un ex terrorista italiano.
È un ex membro dei movimenti neo-fascisti Avanguardia Nazionale e Ordine Nuovo. In carcere dal 1979, sta scontando l'ergastolo per l'uccisione di tre carabinieri nella strage di Peteano del 1972. Le indagini di questo caso, per il quale erano stati incriminati sei cittadini goriziani innocenti, sono giunte a conclusione in seguito alla sua assunzione di responsabilità, nel 1984

La bomba di Peteano

Il 31 maggio 1972, a Peteano (frazione di Sagrado, in provincia di Gorizia) una Fiat 500, abbandonata con due fori di proiettili, esplose provocando la morte dei carabinieri Donato Poveromo, di 33 anni, Franco Bongiovanni, di 23 anni, Antonio Ferraro, di 31 anni. Una telefonata anonima aveva avvisato i carabinieri dell'auto sospetta, lasciata in sosta in un luogo periferico e isolato. Nel tentativo di aprire il cofano, i carabinieri vennero investiti dall'esplosione e restarono uccisi.


Il tentato dirottamento di Ronchi dei Legionari 

vinciguerra vincenzo
Il 6 ottobre 1972 Ivano Boccaccio, appartenente al gruppo di Ordine nuovo di Udine tentò all'aeroporto di Ronchi dei Legionari il dirottamento di un Fokker 27 diretto a Bari, chiedendo un riscatto di duecento milioni di lire. Liberò i sette passeggeri in cambio di un rifornimento di carburante ma, rimasto solo in seguito alla fuga dall'aereo dell'equipaggio, fu ucciso nell'attacco condotto dalla polizia. Nel 1975 Vinciguerra e Carlo Cicuttini furono inquisiti e processati per il tentativo di dirottamento: vennero assolti in primo grado, ma condannati in appello nel 1976.

L'espatrio

In vista dell'arresto per l'episodio di Ronchi dei Legionari, nell'aprile del 1974 Vinciguerra espatriò nella Spagna franchista, dove erano operative le basi della rete anticomunista internazionale nota come Aginter Press, guidata da Yves Guerin Serac. In Spagna, Vinciguerra conobbe Stefano Delle Chiaie e, convintosi dell'esistenza di una collusione tra Ordine nuovo e gli apparati militari e di intelligence italiani, decise di concludere la sua militanza nell'organizzazione e di aderire ad Avanguardia Nazionale. Nel giugno del 1977 si spostò nel Cile di Pinochet; successivamente, nell'aprile del 1978, si trasferì in Argentina.

Il rientro e la costituzione

Nel febbraio del 1979 rientrò a Roma e pose fine anche alla militanza in Avanguardia nazionale. A settembre dello stesso anno, ritenendo che fossero venute meno le condizioni per continuare la lotta contro lo Stato nei metodi fino ad allora adottati, si costituì spontaneamente.

Il processo 

Nel 1984 decise di assumersi la responsabilità dell'attentato di Peteano, non perché pentito, ma perché determinato a rendere pubblici i rapporti tra l'estrema destra e gli apparati dello Stato, che si erano attivati per coprire la matrice fascista dell'attacco. Alla base della sua decisione, non c'era quindi un ravvedimento, ma una scelta politica e ideologica:
« L’imputato (...) non ha inteso rendere una confessione che sia riconoscimento di condotte illecite, ma ha inteso assumersi una responsabilità nel quadro di una ricostruzione storica di avvenimenti che lo vedono tuttora convinto del valore del suo disegno politico all’interno del quale trovano giustificazione i singoli episodi delittuosi contestatigli. La sua figura di soldato politico non è mai venuta meno e mantiene intatta la sua posizione offensiva nei confronti dello Stato democratico »
Autoaccusandosi, Vinciguerra incolpò quei settori dello Stato che lo avevano protetto depistando le indagini sull'attentato. La sua posizione non fu quella del pentito né del collaboratore di giustizia:
« Una posizione indubbiamente singolare quella di Vincenzo Vinciguerra che a un certo momento decide di rendere determinate dichiarazioni sul retroterra di certi fenomeni eversivi guidato dall’intento di chiarire le ragioni della loro determinazione e del loro sviluppo più che riferire sulla realizzazione storica di singoli accadimenti dal punto di vista giudiziario. Dirà anche di questi ultimi, e con concretezza di particolari, nei limiti in cui coinvolge se stesso in determinati attentati, compresa la strage di Peteano, e quelle persone "che in base alle mie conoscenze e ai miei giudizi sono stabilmente inserite in apparati dello Stato, e ripeto che non faccio nomi invece delle persone a me ideologicamente affini e che comunque hanno agito in buona fede" »
Durante il processo, lo scontro con il giudice Felice Casson fu durissimo. Quest'ultimo cercò di dimostrare che l'esplosivo C-4 (il più potente esplosivo disponibile al momento) usato nell'attentato del 1972 provenisse dal deposito di armi di Gladio, nascosto nel sottosuolo di un cimitero vicino a

Verona, la cui esistenza venne rivelata ai giudici Casson e Mastelloni da Giulio Andreotti, ex Presidente del Consiglio. Le indagini del giudice Casson rivelarono che Marco Morin, un esperto di esplosivi che lavorava per la polizia italiana e membro del gruppo di estrema destra Ordine Nuovo, aveva volutamente fornito una falsa perizia, dichiarando che gli esplosivi usati fossero identici a quelli solitamente usati dalle Brigate Rosse. Tuttavia, Casson dimostrava che l'esplosivo usato era nei fatti il C-4, in dotazione alle forze NATO. A ciò si aggiungeva il fatto che una pattuglia di Carabinieri aveva accidentalmente scoperto il 24 febbraio 1972 un deposito di armi ad Aurisina,vicino Trieste, contenente armi da fuoco, munizioni e del C-4 identico a quello usato a Peteano lo stesso anno. Prova dunque delle connessioni fra il deposito di Gladio e la strage.[senza fonte] Una versione dei fatti che trova d'accordo lo storico Daniele Ganser:
Il tentativo di Casson di collegare Vinciguerra a Gladio e l'attentato di Peteano al Nasco di Aursina fu tuttavia fallimentare, perché emerse con tutta evidenza che l'azione rappresentava un attacco, ideologicamente motivato, contro lo Stato. Lo stesso giudice Guido Salvini, titolare dell'inchiesta sulla strage di piazza Fontana, lo scrisse chiaramente nella sua sentenza-ordinanza:
« L'attendibilità di Vincenzo VINCIGUERRA risulta decisamente avvalorata dal venir meno, con le indagini di questi ultimi anni, dell'ipotesi prospettata dal G.i. di Venezia, dr. Casson, secondo cui l'attentato di Peteano sarebbe stato in qualche modo connesso, forse sotto il profilo dell'esplosivo utilizzato, al deposito NASCO di Aurisina dell'organizzazione GLADIO e lo stesso VINCIGUERRA, lungi dall'essere un nazional-rìvoluzionario puro e coerente, sarebbe stato legato a GLADIO o, come altri ordinovisti, a qualche altro apparato istituzionale e di conseguenza l'attentato da lui commesso non sarebbe stato un gesto di attacco diretto contro lo Stato, unico in tale settore e quasi parallelo alle azioni delle Brigate Rosse, ma parte, sin dall'origine, della strategia della tensione e delle sue oscure connivenze (cfr. ordinanza del G.l. di Venezia in data 24.2.1989 nel procedimento Peteano-ter, ff.9 e ss., vol.27, fasc.2).
Mai una ricostruzione così infondata, sfornita non solo di qualsiasi elemento di prova, ma anche di qualsiasi dato indiziario, è stata così cara al mondo dei massmedia, soprattutto all'inizio degli anni '90, all'emergere del "caso GLADIO", tanto da essere ancora oggi riportata meccanicamente ogniqualvolta, nell'ambito di commenti ricostruttivi, viene rievocato l'attentato di Peteano. »
Le affermazioni di Vinciguerra trovarono invece puntuale riscontro. Per i depistaggi miranti a nascondere la matrice fascista dell'attentato vennero condannati in primo grado un generale e due colonnelli dei carabinieri, un perito balistico e due ufficiali dei servizi segreti.

La condanna

Al termine del processo, Vinciguerra venne condannato all'ergastolo perché riconosciuto come il responsabile dell'attenato. Rinuciò al ricorso in appello, dimostrando che le sue deposizioni non erano motivate dal desiderio di ottenere vantaggi personali.

Testimonianze

Negli anni successivi alla condanna, Vinciguerra cominciò a rendere pubblici numerosi particolari di sua conoscenza relativi agli anni di piombo e alla strategia della tensione. Per le sue affermazioni rese di fronte ai giudici non ha mai chiesto sconti di pena, per sottolineare la differenza tra la sua scelta di "soldato politico", interessato unicamente a far emergere la verità storica, e l'attività dei pentiti e dei collaboratori di giustizia.

Sulla strage di Bologna del 1980

Nel 1984, a domanda dei giudici circa la strage alla stazione di Bologna, Vinciguerra disse:
« Con la strage di Peteano, e con tutte quelle che sono seguite, la conoscenza dei fatti potrebbe far risultare chiaro che esisteva una reale viva struttura, segreta, con le capacità di dare una direzione agli scandali... menzogne dentro gli stessi stati... esisteva in Italia una struttura parallela alle forze armate, composta da civili e militari, con una funzione anti-comunista che era organizzare una resistenza sul suolo italiano contro l'esercito russo... una organizzazione segreta, una sovra-organizzazione con un rete di comunicazioni, armi ed esplosivi, ed uomini addestrati all'utilizzo delle stesse... una sovra-organizzazione, la quale mancando una invasione militare sovietica, assunse il compito, per conto della NATO, di prevenire una deriva a sinistra della nazione. Questo hanno fatto, con l'assistenza di ufficiali dei servizi segreti e di forze politiche e militari. »

Sulla NATO

Vinciguerra inoltre dichiarò al Guardian:
« La linea terroristica veniva eseguita da infiltrati, da persone all'interno degli apparati di sicurezza dello Stato, o collegate agli apparati di stato attraverso rapporti o collaborazioni. Dico che ogni singolo scandalo a partire dal 1969 ben si adattava in una matrice organizzata... Avanguardia Nazionale, come Ordine Nuovo (il più importante gruppo estremistico di estrema destra attivo negli anni settanta), erano pronti ad essere mobilitati in una battaglia come parte di una strategia anticomunista originata non con organizzazioni deviate dalle istituzioni di potere, ma dall'interno dello stato stesso, e specificatamente dall'interno dell'ambito delle relazioni di stato con l'Alleanza Atlantica. »

Sull'assassinio del generale Cileno Carlos Prats nel 1974

Insieme con Stefano Delle Chiaie, Vinciguerra testimoniò a Roma nel dicembre 1995 davanti al giudice Servini de Cubría. Secondo la testimonianza, Enrique Arancibia Clavel (un ex agente della polizia segreta cilena, perseguito per crimini contro l'umanità nel 2004) e l'espatriato statunitense agente DINA Michael Townley erano direttamente coinvolti nell'assassinio del generale cileno Carlos Prats, accaduto a Buenos Aires il 30 settembre 1974.
Sempre secondo Vinciguerra, anche l'attentato di Piazza Fontana del 1969 era stato pianificato per spingere l'allora presidente del Consiglio Mariano Rumor a dichiarare lo stato di emergenza.

Ipotesi di assassinio di Mariano Rumor

In un'intervista, Vincenzo Vinciguerra ebbe a dichiarare che gli era stato chiesto di assassinare Mariano Rumor.




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