Il 10 settembre 1963 i Carabinieri di Corleone denunciarono Provenzano per l'omicidio del mafioso Francesco Paolo Streva (ex sodale di Michele Navarra) ma anche per associazione per delinquere e porto abusivo di armi: Provenzano si rese allora irreperibile, dando inizio alla sua lunga latitanza. Nel 1969 Provenzano venne assolto in contumacia per insufficienza di prove nel processo svoltosi a Bari per gli omicidi avvenuti a Corleone a partire dal 1958.
Secondo le dichiarazioni del collaboratore di giustizia Antonino Calderone, Provenzano partecipò alla cosiddetta «strage di viale Lazio» (10 dicembre 1969), che doveva punire il boss Michele Cavataio: durante il conflitto a fuoco, Provenzano rimase ferito alla mano ma riuscì lo stesso a sparare con la sua Beretta MAB 38; Cavataio rimase a terra ferito e Provenzano lo stordì con il calcio della Beretta, finendolo a colpi di pistola. Sempre secondo Calderone, Provenzano «era soprannominato "u' viddanu" e anche "u' tratturi". È stato soprannominato "u' tratturi" da mio fratello con riferimento alle sue capacità omicide e con particolare riferimento alla strage di viale Lazio, nel senso che egli tratturava tutto e da dove passava lui "non cresceva più l'erba"».
Secondo i collaboratori di giustizia Tommaso Buscetta e Totuccio Contorno, nel 1974 Riina e Provenzano divennero i reggenti della Famiglia di Corleone dopo l'arresto di Liggio, ricevendo anche l'incarico di reggere il relativo "mandamento".
Nel marzo 1978 Giuseppe Di Cristina, capo della Famiglia di Riesi, si mise in contatto con i Carabinieri e dichiarò che «Riina Salvatore e Provenzano Bernardo, soprannominati per la loro ferocia "le belve", sono gli elementi più pericolosi di cui dispone Luciano Leggio. Essi, responsabili ciascuno di non meno di quaranta omicidi, sono stati gli assassini del vice pretore onorario di Prizzi» ed erano anche responsabili «su commissione dello stesso Leggio, dell'assassinio del tenente colonnello Giuseppe Russo»; in particolare, Di Cristina dichiarò che Provenzano «era stato notato in Bagheria a bordo di un'autovettura Mercedes color bianco chiaro alla cui guida si trovava il figlio minore di Brusca Bernardo da San Giuseppe Jato».
Ai vertici di Cosa Nostra
Secondo le indagini dell'epoca dei Carabinieri di Partinico, Provenzano trascorreva la sua latitanza prevalentemente nella zona di Bagheria ed effettuava ingenti investimenti in società immobiliari attraverso prestanome per riciclare il denaro sporco; sempre secondo le indagini, le società immobiliari restarono in intensi rapporti economici con la ICRE, una fabbrica di metalli di proprietà di Leonardo Greco (indicato dal collaboratore di giustizia Totuccio Contorno come il capo della Famiglia di Bagheria)
Vito Ciancimino |
Nel 1993, dopo l'arresto di Riina, Provenzano fu il paciere tra la fazione favorevole alla continuazione degli attentati dinamitardi contro lo Stato (Leoluca Bagarella, Giovanni Brusca, i fratelli Filippo e Giuseppe Graviano) e l'altra contraria (Michelangelo La Barbera, Raffaele Ganci, Salvatore Cancemi, Matteo Motisi, Benedetto Spera, Antonino Giuffrè, Pietro Aglieri): secondo il collaboratore di giustizia Vincenzo Sinacori, Provenzano riuscì a porre la condizione che gli attentati avvenissero fuori dalla Sicilia, in "continente", mentre l'altro collaboratore Salvatore Cancemi dichiarò che, durante un incontro, lo stesso Provenzano gli disse che "tutto andava avanti" riguardo alla realizzazione degli attentati dinamitardi a Roma, Firenze e Milano, che provocarono numerose vittime e danni al patrimonio artistico italiano.
Dopo gli arresti di Leoluca Bagarella, Giovanni Brusca e Vito Vitale, Provenzano avviò la cosiddetta "strategia della sommersione" perché mirava a rendere Cosa Nostra invisibile dopo gli attentati del 1992-93, limitando al massimo gli omicidi e le azioni eclatanti per non destare troppo l'attenzione delle autorità al fine di tornare a sviluppare gli affari leciti e illeciti: tale strategia venne decisa nel corso di alcuni incontri a cui parteciparono lo stesso Provenzano insieme con i boss Benedetto Spera, Nino Giuffrè, Tommaso Cannella e il geometra Pino Lipari, il quale non era ritualmente “punciutu” ma poteva partecipare agli incontri perché era il prestanome più fidato di Provenzano.
La latitanza
Il 22 luglio 1993 Salvatore Cancemi, reggente del "mandamento" di Porta Nuova, si consegnò spontaneamente ai Carabinieri e decise di collaborare con la giustizia, dichiarando che la mattina successiva avrebbe dovuto incontrarsi con il latitante Pietro Aglieri (capo del "mandamento" di Santa Maria di Gesù), per poi raggiungere Provenzano in una località segreta, offrendosi di aiutarli a organizzare una trappola; l'informazione però venne considerata non veritiera dai Carabinieri, i quali erano convinti che Provenzano fosse morto poiché dopo un decennio la moglie e i figli erano tornati a vivere e a lavorare a Corleone, decidendo quindi di non sfruttare l'occasione.
Il 31 ottobre 1995 il boss Luigi Ilardo (reggente mafioso della provincia di Caltanissetta) divenne confidente del colonnello Michele Riccio del ROS e gli rivelò che avrebbe incontrato Provenzano in un casolare nei pressi di Mezzojuso; Riccio allertò il colonnello Mario Mori ma non gli furono forniti uomini e mezzi adeguati per intervenire, i quali non riuscirono a localizzare con esattezza il casolare indicato da Ilardo. Successivamente, il 10 maggio 1996 Ilardo venne ucciso poco dopo aver cominciato la sua collaborazione con la giustizia. Riccio accusò Mori e i suoi superiori di aver trattato la faccenda con superficialità, dando inizio a varie inchieste giudiziarie che ancora non hanno chiarito la vicenda.
Nel novembre 1998 gli agenti del ROS dei Carabinieri condussero l'indagine denominata "Grande Oriente", che era partita dalle confidenze rese da Ilardo e portò all'arresto di 47 persone, accusate di attività illecite e di aver favorito la latitanza di Provenzano; tra gli arrestati figurarono anche Simone Castello e l'imprenditore bagherese Vincenzo Giammanco, accusato di essere prestanome di Provenzano nella gestione dell'impresa edile "Italcostruzioni SpA".
Nel novembre 2003 venne arrestato l'imprenditore Michele Aiello, accusato di essere il prestanome di fiducia di Provenzano: infatti, secondo il collaboratore di giustizia Nino Giuffrè, Provenzano aveva investito denaro sporco nella clinica Villa Santa Teresa, centro oncologico all'avanguardia a Bagheria di proprietà di Aiello. Per queste ragioni, nel 2011 Aiello verrà condannato in via definitiva a quindici anni e mezzo di carcere per associazione di tipo mafioso, corruzione e accesso abusivo alla rete informatica della Procura.
Nel gennaio 2005 la DDA di Palermo coordinò l'indagine "Grande mandamento", condotta dagli agenti del Servizio Centrale Operativo e del ROS dei Carabinieri, che portò all'arresto di 46 persone nella provincia di Palermo, accusate di aver favorito la latitanza di Provenzano e di aver gestito il recapito dei pizzini destinati al latitante; l'indagine rivelò anche che nel 2003 alcuni mafiosi di Villabate avevano aiutato Provenzano a farsi ricoverare in una clinica di Marsiglia per un'operazione chirurgica alla prostata, fornendogli documenti falsi per il viaggio e il ricovero. Uno degli arrestati, Mario Cusimano (ex imprenditore di Villabate), cominciò a collaborare con la giustizia e rivelò agli inquirenti che la carta d'identità usata da Provenzano per andare a Marsiglia era stata timbrata da Francesco Campanella, ex presidente del consiglio comunale di Villabate: nel settembre 2005 anche Campanella cominciò a collaborare con la giustizia e confermò di essere stato lui a timbrare il documento.
L'arresto
Le indagini che portarono all'arresto di Provenzano si incentrarono sull'intercettazione dei famosi pizzini, i biglietti con cui comunicava con la compagna e i figli, il nipote Carmelo Gariffo e con il resto del clan.
Dopo l'intercettazione di questi pizzini e alcuni pacchi contenenti la spesa e la biancheria, movimentati da alcuni staffettisti di fiducia del boss, i poliziotti della Squadra mobile di Palermo e gli agenti della Sco riuscirono a identificare il luogo in cui si rifugiava Provenzano.
Individuato il casolare, gli agenti monitorarono il luogo per dieci giorni attraverso microspie e intercettazioni ambientali, per avere la certezza che all'interno vi fosse proprio Provenzano.
L'11 aprile 2006 le forze dell'ordine decisero di eseguire il blitz e l'arresto, a cui Provenzano reagì senza opporre la minima resistenza, limitandosi a chiedere che gli venisse fornito l'occorrente per le iniezioni che doveva effettuare in seguito all'operazione alla prostata. Il boss confermò la propria identità complimentandosi e stringendo la mano agli uomini della scorta e venne scortato alla questura di Palermo.
Il questore di Palermo successivamente confermò che per giungere alla cattura le autorità non si avvalsero né di pentiti né di confidenti.
Il casolare (il proprietario del quale venne arrestato) in cui viveva il boss era arredato in maniera spartana, con il letto, un cucinino, il frigo e un bagno, oltre che una stufa per il freddo e la macchina da scrivere con cui compilava i pizzini.
Carcere e morte
Dopo il blitz viene portato alla questura di Palermo e poi al supercarcere di Terni, sottoposto al regime carcerario dell'art. 41-bis. Dopo un anno di carcere a Terni, viene trasferito al carcere di Novara a seguito di alcuni malumori degli agenti di Polizia Penitenziaria che si occupavano della sua detenzione.
Dal carcere di Novara, il boss ha più volte tentato di comunicare con l'esterno in codice. Il ministero della Giustizia ha deciso di aggravare il carcere duro per Provenzano, applicandogli il regime di 14-bis in aggiunta al 41 bis dell'ordinamento penitenziario, che prevede l'isolamento in una cella in cui sono vietate la televisione e la radio portati.
Il 19 marzo 2011 viene confermata la notizia di un cancro alla vescica. Lo stesso giorno viene annunciato il trasferimento dal carcere di Novara a quello di Parma dove il 9 maggio 2012 il boss tenta il suicidio infilando la testa in una busta di plastica con l'obiettivo di soffocarsi ma il tutto viene sventato da un agente di polizia penitenziaria.
Il 23 maggio 2013 la trasmissione televisiva Servizio pubblico manda in onda un video che ritrae Provenzano nel carcere di Parma durante un incontro con la moglie e il figlio datato 15 dicembre 2012; l'ex boss appare fisicamente irriconoscibile, affaticato e mentalmente confuso, tanto da non riuscire a prendere in mano la cornetta del citofono per parlare con il figlio. Durante il colloquio Provenzano non riesce neanche a spiegare con chiarezza al figlio l'origine di un'evidente ferita alla testa, prima dichiara di essere stato vittima di percosse, e successivamente di essere caduto accidentalmente. Il 26 luglio seguente la procura di Palermo dà l'ok per la revoca del 41-bis a Bernardo Provenzano. Il motivo è da imputare a condizioni mediche.
Il 9 aprile 2014 per l'aggravarsi delle sue condizioni viene ricoverato all'ospedale di San Paolo di Milano, proveniente dal centro clinico degli istituti penitenziari di Parma. Nell'estate 2015 la Cassazione lo rimanda comunque al 41 bis per tutelare al meglio la sua salute perché altrimenti in un altro reparto sarebbe a rischio sopravvivenza.
Sempre ricoverato all'ospedale San Paolo di Milano, muore il 13 luglio 2016 all'età di 83 anni. Il questore di Palermo ha disposto che vengano vietati i funerali. La decisione è stata presa per motivi di ordine pubblico.
Processo Trattativa Stato-Mafia
Il 24 luglio 2012 la Procura di Palermo, sotto Antonio Ingroia e in riferimento all'indagine sulla Trattativa Stato-Mafia, ha chiesto il rinvio a giudizio di Provenzano e altri 11 indagati accusati di concorso esterno in associazione di tipo mafioso e "violenza o minaccia a corpo politico dello Stato". Gli altri imputati sono i politici Calogero Mannino, Marcello Dell'Utri, gli ufficiali Antonio Subranni, Mario Mori e Giuseppe De Donno, i boss Giovanni Brusca, Salvatore Riina, Leoluca Bagarella e Antonino Cinà, il collaboratore di giustizia Massimo Ciancimino (anche "calunnia") e l'ex ministro Nicola Mancino ("falsa testimonianza").
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