Michele Greco era il capo della cupola ma in realtà asservito ai corleonesi
Michele Greco
Era soprannominato Il papa per la sua abilità a mediare tra le varie famiglie mafiose.
Nato e cresciuto a Croceverde-Giardina (nel 1924), una frazione rurale della città di Palermo, figlio di Giuseppe Greco, detto Piddu ‘u tenente, e Caterina Ferrara, Michele Greco fu il terzo di cinque figli: Francesco, nato il 18 gennaio 1921 e di professione medico chirurgo; Giuseppe, nato il 27 agosto 1922 e ucciso a Ciaculli il 1º ottobre 1939; Salvatore, detto il senatore, nato il 7 luglio 1927, possidente, sposato con la figlia di Antonino Cottone, capo della cosca di Villabate; infine Rosa, nata il 15 novembre 1930. La famiglia di Piddu ‘u tenente di Croceverde-Giardina fu protagonista di una faida con la famiglia Greco di Ciaculli il cui capofamiglia si chiamava anch’egli Giuseppe. Michele Greco era inoltre un lontano cugino di Salvatore "Ciaschiteddu" Greco, che faceva parte della famiglia Greco di Ciaculli.
Guerra di mafia
Nonostante si definisse un uomo “tutto casa e chiesa”, Michele Greco assume una posizione determinante all’interno della seconda guerra di mafia. Nei primi tempi, intorno al 1974 circa, Michele Greco era conosciuto come un signorotto di campagna che amava circondarsi di conti, marchesi, prefetti e presidenti di corti d’appello. Nel 1975 divenne capo mandamento delle famiglie di Ciaculli e Croceverde-Giardini.
Nel 1977 Greco si associò a Totò Riina e Bernardo Provenzano, di cui appoggiò la decisione di uccidere il tenente colonnello Giuseppe Russo; infatti Michele Greco fornì il suo uomo di fiducia Giuseppe Greco detto "Scarpuzzedda" per fare parte del commando di killer che compirono l'uccisione del colonnello Russo a Ficuzza.
Nel periodo della primavera-estate 1977 le riunioni di mafia si tenevano sempre presso la Favarella, una tenuta che si estendeva dalla chiesetta diroccata di Maredolce fino agli ultimi giardini di Ciaculli. Essa circondava la tenuta di Michele Greco. In quel periodo tutti i discorsi riguardavano i Corleonesi; nessuno sapeva che il padrone di casa Michele Greco, si era segretamente accordato proprio con i Corleonesi. Il 10 aprile 1978, Riina durante una riunione della Commissione chiese ed ottenne l’espulsione di Badalamenti per l’omicidio di Francesco Madonia, capo della cosca di Vallelunga Pratameno che era legato a lui. Michele Greco prese il suo posto e iniziò a fare da intermediario fra lo schieramento di Riina e quello di Stefano Bontate.
Questa guerra iniziò in sordina nel 1978-1980; nella Commissione vennero inseriti Giovanni Scaduto e Giuseppe Greco “Scarpuzzedda”, che sostituiva Michele Greco nella "Commissione" come capomandamento di Ciaculli. Questo provvedimento relegò Michele Greco in una posizione marginale a causa della sua scarsa personalità e della sua sottomissione al dominio dei Corleonesi. Il 30 maggio 1978 venne assassinato a Palermo dai soldati di Riina Giuseppe di Cristina, capo della famiglia di Riesi. Ciò venne visto da Inzerillo come un’offesa nei suoi riguardi in quanto il delitto avvenne nel suo territorio. Successivamente, a giustificare il fatto, venne fatta girare la voce che di Cristina stava collaborando con i carabinieri. Il 9 settembre venne ucciso a Catania Pippo Calderone.
Nel 1981 Stefano Bontate decise di eliminare Salvatore Riina e a quel proposito, il “papa” della mafia disse una cosa molto significativa: “Stefano si è messo dalla parte del torto”, in quanto chi uccideva un membro di Cosa Nostra senza il permesso della Commissione aveva come pena prevista la morte. Riina riuscì ad anticipare le sue mosse grazie a Greco che gli rivelò il complotto di Bontate e il 23 aprile 1981, nel giorno del suo quarantacinquesimo compleanno, Bontate venne ucciso da Giuseppe Greco e Giuseppe Lucchese, uomini di Michele Greco "prestati" a Riina. L’11 maggio cadde anche Salvatore Inzerillo, tradito da uno dei suo fedelissimi. Nonostante viaggiasse in una macchina blindata, venne sorpreso sotto l’abitazione di un’amante.
Il 30 novembre 1982, in piena seconda guerra di mafia, Michele Greco invitò i suoi associati Rosario Riccobono, Salvatore Scaglione, Giuseppe Lauricella, il figlio Salvatore, Francesco Cosenza, Carlo Savoca, Vincenzo Cannella, Francesco Gambino e Salvatore Micalizzi alla tenuta della Favarella per un ricevimento, facendogli credere di essere loro amico. Erano presenti anche Totò Riina e Bernardo Brusca, i quali dopo il pranzo attirarono gli altri invitati in una trappola con l'aiuto di Michele Greco e li strangolarono o li uccisero a colpi di pistola con l'aiuto di Giuseppe Greco “Scarpuzzedda”, Giovanni Brusca e Baldassare Di Maggio, buttando poi i cadaveri in recipienti pieni di acido: il massacro alla Favarella venne attuato perché Riina non poteva tenere sotto controllo Riccobono e gli altri, ed aveva bisogno di toglierli di mezzo per ricompensare altri suoi alleati palermitani, soprattutto Giuseppe Giacomo Gambino, con la spartizione del territorio già appartenuto a Riccobono e agli altri boss uccisi alla Favarella.
In seguito al massacro delle Famiglie durante la seconda guerra di mafia, John Gambino, importante esponente della Famiglia Gambino di Brooklyn, giunse a Palermo per salvare i superstiti dalla Famiglia Inzerillo dalla vendetta dei Corleonesi. Anche in quest’occasione Michele Greco ebbe una grande importanza in quanto riuscì a mediare tra Riina e Gambino. L’incontro si risolse con una frase simbolica da parte di quest’ultimo: “adesso comanda Corleone” e si accordò con Riina affinché gli Inzerillo avessero avuta salva la vita a condizione di non tornare più in Sicilia.
Michele Greco +161
Il nome di Michele Greco fu associato a Cosa Nostra per la prima volta dal rapporto del vice capo della mobile Ninni Cassarà chiamato “Michele Greco +161”, stilato nel luglio del 1982. Questo rapporto si basava sulle confidenze dell'informatore Salvatore Contorno e divenne parte integrante del primo maxiprocesso. In seguito alle dichiarazioni di Tommaso Buscetta, il 29 settembre 1984 avvenne il grande blitz di San Michele che portò 475 mandati di cattura, fra cui quelli per l’ex sindaco di Palermo, Vito Ciancimino e quelli per i potenti esattori Nino e Ignazio Salvo.
Arresto
Michele Greco venne arrestato il 26 febbraio 1986 durante una vasta operazione dei carabinieri finalizzata alla ricerca dei latitanti. Venne trovato in un casolare sperduto nelle campagne di Caccamo, a una cinquantina di chilometri da Palermo, dove si nascondeva sotto il nome di Giuseppe di Fresco nato il 22 gennaio 1926 a Palermo. Dopo aver rintracciato la moglie del Di Fresco, ormai vedova da alcuni anni, venne svelata la vera identità di Greco, latitante da 4 anni.
L’arresto del “papa” venne camuffato sotto “la grande operazione” per poter coprire la fonte che aveva permesso alle forze dell’ordine di entrare nel covo del latitante. Michele Greco fu infatti tradito da un giovane, Benedetto Galati, che oltre a curare il suo fondo, aveva vissuto con tutta la sua famiglia nella tenuta di Favarella. Tutto ciò si scoprì solo alcuni mesi dopo, quando Benedetto Galati venne assassinato a colpi di lupara. Il Galati avvisò inizialmente le forze dell'ordine con una lettera anonima con scritto “Se volete Michele Greco, seguite attentamente le mie istruzioni”. Successivamente avvenne un incontro tra il giovane e un ufficiale del carabinieri a Monreale, durante il quale Galati confessò. “Michele Greco si nasconde in una casa in campagna nelle campagne di Caccamo, alle spalle della diga sul fiume San Leonardo, andateci e lo troverete”.
L’operazione, che vide l’impiego di un centinaio di agenti, scattò all’alba. Dopo alcuni minuti che era stato fermato, Michele Greco confessò: “Bravi, siete stati bravi, io sono Michele Greco..”
Maxiprocesso
L’11 giugno 1986 Michele Greco si presentò in aula in vestito blu, camicia bianca e rolex d’oro al polso destro e disse: “Io sono stato rovinato dalle lettere anonime. Mi ha rovinato l’omonimia con i Greco di Ciaculli, mentre io appartengo ai Greco di Croceverde-Giardini. La violenza non fa parte della mia dignità.”. Continuò dicendo: “È una vita ordinaria la mia, sia da scapolo che da sposato. Mi hanno descritto come un Nerone, come un Tiberio, solo perché il mio nome fa cartello, costruendo un mare, una montagna di calunnie attorno al mio nome”.
Ammise di conoscere Stefano Bontate, in quanto quest’ultimo si recava spesso a caccia nella sua tenuta. Riguardo alle dichiarazioni dei pentiti: “Le accuse contro di me sono una valanga di fango. I pentiti usati dalla giustizia sono solo dei criminali falliti che per farla franca non esitano a dire falsità e calunnie. Non dico che i magistrati non li debbano prendere in considerazione perché fanno il loro lavoro nel modo migliore, ma se alle dichiarazioni dei pentiti non seguono fatti o prove, allora devono subire lo stesso trattamento delle lettere anonime”.
“Mi chiamano il “papa” ma io non posso paragonarmi a loro, neanche a quello attuale, anche se per la mia fede e la mia coscienza pulita posso essere uguale se non superiore a loro”. “Della mafia so quello che sanno tutti. La droga mi fa schifo solo parlarne. Tutto quello che posseggo è frutto del mio lavoro e dell’eredità dei miei genitori. Non ho mai abbandonato la casa dove mi trovavo nella latitanza e dove mi hanno trovato i carabinieri, ho lavorato in campagna, comprato e venduto bestiame”.
Fine del maxiprocesso
L’11 novembre 1987, nell'ultima udienza del primo maxiprocesso a Cosa Nostra, poco prima che la corte si ritirasse in camera di consiglio, Michele Greco chiese e ottenne la parola. “Io desidero fare un augurio. Vi auguro la pace signor Presidente, a tutti voi auguro la pace perché la pace è la tranquillità e la serenità dello spirito e della coscienza e per il compito che vi aspetta la serenità è la base fondamentale per giudicare. Non sono parole mie, sono parole di Nostro Signore che lo raccomandò a Mosè: quando devi giudicare, che ci sia la massima serenità, che è la base fondamentale. Vi auguro ancora, signor Presidente, che questa pace vi accompagni per il resto della vostra vita”.
Con queste parole espresse precedentemente, il “papa” della mafia chiuse il processo. Il 16 dicembre 1987, dopo 638 giorni di dibattito, 35 giorni di camera di consiglio, la Corte d’Assise di Palermo emise la sentenza: Michele Greco e altri diciotto capimafia vennero condannati all’ergastolo.
Scarcerazione
L’11 febbraio 1991 Michele Greco e altri trentanove boss vennero scarcerati per la scadenza dei termini di custodia cautelare (cavillo giuridico che venne adottato dalla prima corte di Cassazione presieduta da Corrado Carnevale). Fu una decisione che generò grande fragore all’interno dell’opinione pubblica. Michele Greco tornò così a Ciaculli e alle domande dei giornalisti rispose dicendo: “Cinque anni di carcere vissuti in assoluto isolamento mi hanno provato moltissimo e se mi chiedete anche solo le mie generalità non sarei in grado di rispondere”.
Quando gli venne chiesto di dare la sua opinione sul giudice Carnevale rispose: “Siamo in quaresima se mi parlate di Carnevale. In questi anni di galera ho trovato conforto solo nella Bibbia che è la base fondamentale: ci sono stati anche dei porci che hanno osato fare dell'ironia al riguardo, ma io me ne fotto”. Il 18 settembre 1991 fu arrestato nuovamente.
Detenzione
Michele Greco, detenuto all’Ucciardone sotto il regime del 41 bis, in seguito all'uccisione del giudice Paolo Borsellino, venne trasferito nel carcere di Pianosa insieme ad altri 55 componenti di Cosa Nostra. venne portato nel carcere di Cuneo dove rimase fino al 1998 quando, per gravi motivi di salute, venne trasferito definitivamente nel carcere di Rebibbia, a Roma.
Morte
Morì il 13 febbraio 2008 all’ospedale Pertini di Roma, nel quale si trovava da alcune settimane, stroncato da un tumore ai polmoni. Non gli furono concessi funerali solenni a causa di un divieto della Questura. Le esequie vennero celebrate nella chiesa del camposanto di Sant’Orsola e vi parteciparono esclusivamente la moglie, il figlio Giuseppe e pochi altri conoscenti e familiari.
Le condanne
Nel 1995, nel processo per l'omicidio del tenente colonello Giuseppe Russo, Michele Greco venne condannato all'ergastolo insieme a Bernardo Provenzano, Salvatore Riina e Leoluca Bagarella; lo stesso anno, nel processo per gli omicidi dei commissari Beppe Montana e Ninni Cassarà, venne pure condannato all'ergastolo insieme a Salvatore Riina, Bernardo Brusca, Francesco Madonia e Bernardo Provenzano, a cui seguì il processo per gli omicidi di Piersanti Mattarella, Pio La Torre e Michele Reina, nel quale gli viene inflitto un'ulteriore ergastolo insieme a Salvatore Riina, Bernardo Brusca, Bernardo Provenzano, Giuseppe Calò, Francesco Madonia e Nenè Geraci.
Nel 1997, nel processo per l'omicidio del giudice Cesare Terranova, Michele Greco ricevette un altro ergastolo insieme a Salvatore Riina, Bernardo Brusca, Giuseppe Calò, Nenè Geraci, Francesco Madonia e Bernardo Provenzano.
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