venerdì 28 giugno 2013

GHEDDAFI




Muʿammar Abū Minyar ʿAbd al-Salām al-Qadhdhāfī (Sirte, 7 giugno 1942 – Sirte, 20 ottobre 2011) per  quarantadue anni è stato la massima autorità del proprio paese, fino alla sua deposizione da parte del Consiglio nazionale di transizione (CNT) durante la Guerra civile libica del 2011, senza ricoprire stabilmente alcuna carica ufficiale ma fregiandosi soltanto del titolo onorifico di Guida e Comandante della Rivoluzione della Grande Jamāhīriyya Araba Libica Popolare. 
Nel 1969 il ventisettenne Gheddafi incontra nello stesso anno del colpo di Stato libico il cinquantunenne Raʾīs egiziano Gamal Abd al-Nasser, suo modello ideologico, cui rimarrà sempre devoto.



Insoddisfatto del governo guidato dal re Idris I, giudicato da Gheddafi e da altri ufficiali troppo servile nei confronti di Stati Uniti e Francia, il 26 agosto del 1969 si pone alla guida del colpo di Stato organizzato contro il sovrano, che porta, il 1º settembre dello stesso anno, alla proclamazione della Repubblica guidata da un Consiglio del Comando della Rivoluzione composto da 12 militari di tendenze panarabe filo-nasseriane. Gheddafi, che nel frattempo si è autopromosso al grado di colonnello e si è messo a capo di tale Consiglio, instaura in Libia un regime che si trasforma in una vera e propria dittatura.
Una volta al potere, Gheddafi fa approvare dal Consiglio una nuova costituzione e abolisce le elezioni e tutti i partiti politici. La Libia non si può infatti considerare una democrazia, non essendovi concesse molte libertà politiche (tra cui, per esempio, il multipartitismo). La politica della prima parte del governo Gheddafi viene definita dai suoi sostenitori una "terza via" rispetto al comunismo e al capitalismo, nella quale cerca di coniugare i principi del panarabismo con quelli della socialdemocrazia. Gheddafi decide di esporre le proprie visioni politiche e filosofiche nel suo Libro verde (esplicito ammiccamento al Libretto rosso di Mao Tse-tung), che pubblica nel 1976.
In nome del Nazionalismo arabo, decide di nazionalizzare la maggior parte delle proprietà petrolifere straniere, di chiudere le basi militari statunitensi e britanniche, in special modo la base "Wheelus", ridenominata "ʿOqba bin Nāfiʿ" (dal nome del primo conquistatore arabo-musulmano delle regioni nordafricane) e di espropriare tutti i beni delle comunità italiana ed ebraica, espellendole dal paese.
Infatti, proprio fra le primissime iniziative del regime di Gheddafi, c'è l'adozione di misure sempre più restrittive nei confronti della popolazione italiana che era rimasta a vivere in quella che era stata la ex-colonia, limitazioni che culminano con il decreto di confisca del 21 luglio 1970 emanato per "restituire al popolo libico le ricchezze dei suoi figli e dei suoi avi usurpate dagli oppressori". Gli italiani vengono pertanto privati di ogni loro bene, compresi i contributi assistenziali versati all'INPS e da questo trasferiti, in base ad un accordo, all'istituto libico corrispondente, e sono sottoposti a progressive restrizioni che culminano con la costrizione a lasciare il Paese entro il 15 ottobre del 1970. Dal 1970, ogni 7 ottobre in Libia si celebra il “Giorno della vendetta”, in ricordo del sequestro di tutti i beni e dell'espulsione di 20.000 italiani.



Politica estera
Gheedafi e Fidel Castro
In politica estera, il regime libico diventa finanziatore dell'OLP di Yasser Arafat nella sua lotta contro Israele, inoltre, si fa spesso propugnatore di un'unione politica tra i tanti Stati islamici dell'Africa, caldeggiando in particolare, nei primi anni settanta, un'unione politica con la Tunisia; la risposta interlocutoria (ma sostanzialmente negativa) dell'allora presidente tunisino Bourguiba fa però tramontare questa ipotesi. Sempre nel medesimo periodo, e per molti anni successivi, Gheddafi è uno dei pochissimi leader internazionali che continuano a sostenere i dittatori Idi Amin Dada e Bokassa (quest'ultimo però soltanto nel periodo in cui si dichiarò musulmano), mentre non verrà mai dimostrato un suo coinvolgimento nella misteriosa scomparsa in Libia, nel 1978, dell'Imam sciita Musa al-Sadr (di cui non apprezza i tentativi di pacificazione del Libano) e neppure il suo fattivo sostegno al combattente palestinese Abu Nidal e alla sua organizzazione para-militare, organizzatori, tra l'altro, della Strage di Fiumicino nel 1985. In quest'ultimo caso la Libia smentisce ogni suo coinvolgimento ma non manca di rendere ufficialmente onore ai terroristi attori di tale attentato.
Nel 1977, grazie ai maggiori introiti derivanti dal petrolio, il regime decide di effettuare alcune opere a favore della propria nazione, come la costruzione di strade, ospedali, acquedotti ed industrie. Proprio sull'onda della popolarità di tale politica, nel 1979, Gheddafi rinuncia a ogni carica ufficiale, pur rimanendo l'unico vero leader del paese, serbandosi solo l'appellativo onorifico di "Guida della Rivoluzione".
Negli anni ottanta avviene un'ulteriore radicalizzazione nelle scelte di politica internazionale. La sua ideologia anti-israeliana e anti-americana lo porta a sostenere gruppi terroristi, quali ad esempio l'IRA irlandese e il Settembre Nero palestinese. Viene anche accusato dall'Intelligence statunitense di essere l'organizzatore degli attentati in Sicilia, Scozia e Francia, anche se per questi atti si è sempre proclamato estraneo. Si rende, altresì, sicuramente responsabile del lancio di due missili SS-1 Scud contro il territorio italiano di Lampedusa, come rappresaglia per il bombardamento della Libia da parte degli Stati Uniti nell'operazione El Dorado Canyon. I missili fortunatamente non provocano danni, cadendo in acqua a 2 km dalle coste siciliane.
Il suo regime, pertanto, diviene il nemico numero uno degli Stati Uniti d'America ed è progressivamente emarginato dalla NATO. Questa tensione prelude, il 15 aprile 1986, al blitz militare sulla Libia per volere del presidente statunitense Ronald Reagan: un massiccio bombardamento ferisce mortalmente la figlia adottiva di Gheddafi, ma lascia indenne il colonnello, che poi si scoprirà essere stato preventivamente avvertito delle intenzioni statunitensi da Bettino Craxi, allora Presidente del Consiglio italiano. Quando Gheddafi scopre che l'Inghilterra ha fornito le basi agli aerei americani per il blitz, decide di aumentare gli aiuti all'IRA.


Lockerbee
Il 21 dicembre del 1988 esplode un aereo passeggeri sopra la cittadina scozzese di Lockerbie, dove periscono tutte le 259 persone a bordo oltre a 11 cittadini di Lockerbie. Prima dell'11 settembre 2001, questo è l'attacco terroristico più grave mai avvenuto. L'ONU attribuisce alla Libia la responsabilità dell'attentato aereo, chiedendo al governo di Tripoli l'arresto di due suoi cittadini accusati di esservi direttamente coinvolti. Al netto e insindacabile rifiuto di Gheddafi, le Nazioni Unite approvano la Risoluzione 748, che sancisce un pesante embargo economico contro la Libia, la cui economia si trova già in fase calante. Solo nel 1999, con la decisione da parte libica di cambiare atteggiamento nei confronti della comunità internazionale, Tripoli accetta di consegnare i sospettati di Lockerbie: Abdelbaset ali Mohamed al-Megrahi viene condannato all'ergastolo nel gennaio 2001 da una corte scozzese, mentre al-Amin Khalifa Fhimah viene assolto. Nel febbraio 2011, intervistato dal quotidiano svedese Expressen, l'ex ministro della giustizia Mustafa Abd al-Jalil ha ammesso le responsabilità dirette del colonnello Gheddafi nell'ordinare l'attentato del 1988 al Volo Pan Am 103.


Strage di Ustica
Venerdì 27 giugno 1980 un aereo di linea Douglas DC-9, codice I-TIGI, appartenente alla compagnia aerea italiana Itavia, in volo da Bologna a Palermo si squarciò all'improvviso e scomparve in mare nei pressi dell'isola di Ustica. Persero la vita 81 persone e non ci furono superstiti. Inizialmente le cause maggiormente accreditate furono il "cedimento strutturale" e la "bomba". A distanza di molti anni in cui si sono susseguiti innumerevoli depistaggi, falsi indizi e morti sospette, sembrerebbe invece affermarsi la tesi più plausibile ma altrettanto scomoda, quella cioè dell'abbattimento. Un missile aria/aria sarebbe stato lanciato da un velivolo militare francese all'indirizzo di un caccia libico MiG-23 che, in sorvolo non autorizzato nei cieli italiani, avrebbe tentato di nascondersi nella traccia radar del DC-9. Il missile però anziché colpire il MiG, avrebbe raggiunto ed abbattuto l'aereo passeggeri italiano. Un secondo missile avrebbe invece centrato l'aereo libico che si sarebbe poi schiantato in Calabria, più precisamente nel territorio del comune di Castelsilano (KR), con il conseguente decesso del pilota. All'origine dell'intervento francese vi sarebbe stata la convinzione da parte dei servizi di intelligence transalpini che sul velivolo libico si trovasse il colonnello Gheddafi, personaggio particolarmente inviso alla Francia che perciò avrebbe tentato con questa operazione militare di realizzarne l'eliminazione fisica.
Ad avvalorare questa versione dei fatti vi è una dichiarazione pubblicata nel febbraio 2007 da Francesco Cossiga, presidente del Consiglio all'epoca della strage: ad abbattere il DC-9 sarebbe stato un missile «a risonanza e non a impatto», lanciato da un velivolo dell'Aéronavale decollato dalla portaerei Clemenceau. Sempre secondo quanto dichiarato da Cossiga, furono i servizi segreti italiani ad informare lui e l'allora ministro dell'Interno Giuliano Amato dell'accaduto. Infine aggiunse: «i francesi sapevano che sarebbe passato l'aereo di Gheddafi, che si salvò perché il Sismi lo informò quando lui era appena decollato e decise di tornare indietro».


Dal 1990 al 2010 
A partire dai primi anni novanta, Gheddafi decide un ulteriore cambiamento del ruolo del suo regime all'interno dello scacchiere internazionale; condanna l'invasione dell'Iraq ai danni del Kuwait nel 1990 e successivamente sostiene le trattative di pace tra Etiopia ed Eritrea. Quando anche Nelson Mandela fa appello alla "Comunità Internazionale", a fronte della disponibilità libica di lasciar sottoporre a giudizio gli imputati libici della strage di Lockerbie e al conseguente pagamento dei danni provocati alle vittime, l'ONU decide di ritirare l'embargo alla Libia (primavera del 1999).
Nei primi anni duemila, proprio questi ultimi sviluppi della politica libica, portano Gheddafi ad un riavvicinamento agli USA e alle democrazie europee, con un conseguente allontanamento dall'integralismo islamico. Grazie a questi passi il presidente statunitense George W. Bush decide di togliere la Libia dalla lista degli Stati Canaglia (di cui fanno parte Iran, Siria e Corea del Nord) portando al ristabilimento di pieni rapporti diplomatici tra Libia e Stati Uniti.
Nel 2004, il Mossad, la CIA e il Sismi individuano una nave che trasporta la prova che il regime libico sia in possesso di un arsenale di armi di distruzione di massa. Invece di rendere pubblica la scoperta e sollevare uno scandalo, Stati Uniti e Italia pongono a Gheddafi un ultimatum che viene accettato.
Gli anni 2000 vedono Gheddafi protagonista del riavvicinamento tra Italia e Libia, sancito da diverse visite ufficiali del capo libico in Italia e della controparte italiana in Libia

Guerra civile del 2011, la cattura e la morte
Nel 2011, il procuratore del Tribunale Penale Internazionale, Luis Moreno Ocampo, chiede alla corte penale l'incriminazione di Gheddafi per crimini contro l'umanità, insieme al figlio Sayf al-Islam Gheddafi e al capo dei servizi segreti libici Abd Allah al-Sanussi. La richiesta di incriminazione nasce dalle prove raccolte sui comportamenti messi in atto per la repressione della rivolta libica del 2011.
Il 20 ottobre 2011 risultando vana ogni ulteriore resistenza nella difesa della città di Sirte, nella quale si era asserragliato dopo la caduta di Tripoli, Muʿammar Gheddafi tenta di guadagnare il deserto per continuare la lotta, ma il convoglio in cui viaggia viene attaccato da parte di aerei militari francesi. Raggiunto da elementi del CNT, Gheddafi viene catturato vivo, ferito alle gambe, ma subito linciato. Gli ultimi momenti di vita del Raʾīs libico, che secondo il medico legale è stato ucciso da un colpo di pistola alla testa, vengono impressi in numerosi video dei presenti all'avvenimento. Successivamente il suo cadavere viene trasportato a Misurata, esposto al pubblico e, quindi, sepolto in una località segreta nel deserto libico. La sua eredità politica e la guida della Jamāhīriyya vengono raccolte dall'altro figlio Sayf al-Islām al-Qadhdhāfī, il quale, il 23 ottobre 2011, per mezzo della Tv siriana al-Rāʾī (L'opinione), ha dichiarato in un breve messaggio audio di voler vendicare la morte del padre e di continuare la resistenza contro il CNT, le forze della NATO e l'esercito francese sino alla fine: "Io vi dico, andate all'inferno, voi e la NATO dietro di voi. Questo è il nostro Paese, noi ci viviamo, ci moriamo e stiamo continuando a combattere". Il CNT ha poi deciso di aprire un'inchiesta sulla morte di Mu'ammar Gheddafi.


Morte sospetta
Circa un anno dopo la morte di Gheddafi delle dichiarazioni di Mahmoud Jibril hanno alimentato forti sospetti secondo i quali il vero esecutore del rais non sarebbero stato un ribelle del CNT ma un agente dei servizi segreti francesi infiltrato. L'uccisione di Gheddafi sarebbe nata per evitare la divulgazione delle notizie degli stretti rapporti che legavano l'ex leader libico a Nicolas Sarkozy, allora presidente della Francia, in particolar modo dei diversi milioni di dollari versati dal rais per le campagne elettorali. In base a delle rivelazioni di Rami El Obeidi, ex responsabile per i rapporti con le agenzie di informazioni straniere per conto del Consiglio nazionale di transizione, i servizi segreti francesi avrebbero individuato Gheddafi mediante il suo satellitare; in quel periodo il rais cercava di mettersi in contatto con alcuni suoi fedelissimi fuggiti in Siria.




Dopo la morte
Nel marzo 2012 la Guardia di Finanza ha sequestrato beni in Italia della famiglia Gheddafi per oltre un miliardo di euro. Tra questi l’1,256% di Unicredit (pari ad un valore di 611 milioni di euro), il 2% di Finmeccanica, l’1,5% della Juventus, lo 0,58% di Eni, pari a 410 milioni, lo 0,33% di alcune società del gruppo Fiat, come Fiat Spa e Fiat Industrial. Diversi anche i conti correnti posti sotto sequestro: il deposito più consistente, 650 000 euro in titoli, è quello presso la filiale di Roma della Ubae Bank, una joint venture italo-libica.
Oltre a ciò, in numerosi altri paesi sono stati sequestrati beni di vario tipo e conti bancari, per un totale di duecento miliardi di dollari. Ciò farebbe di Gheddafi l'ottava persona più ricca della storia.




«Berlusconi chiese la morte di Gheddafi»
Corriere.it
La denuncia del Fatto Quotidiano: la richiesta venne avanzata ai servizi segreti
Nella sua ultima conferenza stampa di fine anno da premier in carica, il 23 dicembre del 2010, Silvio Berlusconi non ebbe problemi a dichiararsi apertamente «amico» di Gheddafi, Mubarak e Ben Ali. Pochi mesi dopo sarebbero però esplose le diverse primavere arabe e l'Italia si sarebbe schierata al fianco della Nato nell'intervento militare in Libia. In quell'occasione, denuncia il Fatto Quotidiano nella sua prima pagina di oggi, il Cavaliere avrebbe avanzato ai servizi segreti italiani allora guidati da Gianni De Gennaro la richiesta di «far fuori» Gheddafi. Una rivelazione che il giornale di Padellaro e Travaglio attribuisce «una fonte diplomatica autorevole vicina agli ambienti della sicurezza». Ma che subito dagli ambienti del Pdl viene bollata come un'«infamia» non credibile. Gheddafi fu giustiziato sommariamente nell'ottobre 2011 dopo essere stato scovato nel nascondiglio nei pressi di Sirte dove si rifugiava. Non è la prima volta che si parla di un coinvolgimento dell'Occidente nella morte del Rais e in particolare era stata avanzata una pista francese secondo cui a sparare il colpo di grazia sarebbe stato proprio uno 007 di Parigi. Mai si era però parlato di un ruolo di Palazzo Chigi.
AMICIZIA IMBARAZZANTE - Ma perché Berlusconi avrebbe voluto la morte del suo «amico», di cui fu più volte ospite in Libia e che a sua volta ospitò in pompa magna a Roma concedendogli pure di insediare un vero e proprio accampamento con tenda berbera nel parco di Villa Pamphili? Secondo il quotidiano l'obiettivo del leader del pdl, in una fase in cui vacillava la sua autorevolezza sul piano internazionale, era sganciarsi in ogni modo netto dall'amicizia con il Colonnello. E il modo più drastico poteva essere appunto l'eliminazione del Rais. Per avvalorare la tesi vengono citate alcune inchieste giornalistiche - tra cui pezzi di Le Monde, del Giornale e del Corriere - che ipotizzavano un ruolo dell'intelligence dei Paesi della coalizione occidentale nella scelta di uccidere Gheddafi appena catturato, anziché consegnarlo alla giustizia internazionale e sottoporlo a processo. Si parla anche di un ruolo dell'allora presidente francese Nicolas Sarkozy, a sua volta definito come desideroso di recidere i legami con il leader libico.
LA SMENTITA DI BONAIUTI - «La pretesa ricostruzione del Fatto Quotidiano è totalmente falsa, incredibile, assurda, inaccettabile - tuona il portavoce di Berlusconi, Paolo Bonaiuti -. Ma come si può sostenere che il Presidente Berlusconi abbia soltanto pensato a un'infamia del genere?».


Documenti segreti libici svelano la tragedia di Ustica e come Gheddafi si salvò riparando a Malta
Noel Grima Al-Fatah69
Secondo i resoconti dei media italiani, i documenti riservati trovati negli archivi del servizio segreto libico, dopo la caduta di Tripoli, che sono ora nelle mani di Human Rights Watch, dimostrano ciò che ha provocato l’abbattimento del Dc-9 Itavia sul Mediterraneo, presso l’isola di Ustica, il 27 giugno 1980.  Ottantuno persone a bordo del volo, sulla rotta da Bologna a Palermo, sono morte.
Come si è a lungo sospettato, i documenti confermano che un missile aveva colpito l’aereo, dopo che era stato scambiato per un aereo che trasportava il leader libico Muammar Gheddafi.
Secondo i documenti, due jet francesi all’inizio attaccarono l’aereo, e poi s’impegnarono in un duello con un solitario caccia MiG, che portava le insegne della Jamahiriya, e che si pensava scortasse il colonnello Gheddafi, fino a quando non impattò nella regione montuosa della Sila, nel sud d’Italia. Il colonnello Gheddafi, informato in tempo dell’attacco, riparò a Malta, dove atterrò col suo Tupolev, secondo i documenti.
Sembrerebbe, dalle carte dei servizi segreti trovate, che Gheddafi sia stato informato dai servizi segreti italiani (SISMI), che stava per essere attaccato, e aveva cercato rifugio a Malta.
Le autorità italiane hanno isolato l’area in cui il MiG cadde, e un giornalista e un fotografo, che cercavano di scoprirne la vicenda, al momento, furono arrestati e trattenuti per ore dalla polizia, fino a che non svelarono ciò che avevano documentato. Più tardi, le autorità libiche affermarono che il pilota del MiG era in volo di addestramento, quando avrebbe perso la rotta. Il suo cadavere, che era già stato sepolto, fu riesumato; l’autopsia venne effettuata e il cadavere fu poi rimpatriato in Libia. Pochi giorni dopo, il 7 luglio 1980, una bomba distrusse gli uffici della Libyan Arab Airlines, a Freedom Square, a La Valletta, e ci fu anche un tentativo di incendio doloso dell’Istituto libico di Cultura, a Palace Square, in quel periodo.
Secondo un libro del giornalista e storico francese, Henri Weill, la bomba e l’incendio doloso furono opera dei servizi segreti francesi, lo SDECE, come anche un attacco a una nave libica, a Genova. Poi, meno di un mese dopo, il 2 agosto 1980, un’enorme bomba distrusse la maggior parte della stazione ferroviaria di Bologna, e 80 persone furono uccise. La responsabilità dell’attacco terroristico non è mai stata stabilita con certezza. Proprio questa settimana, un tribunale italiano ha ordinato al governo di pagare 100 milioni di euro di danni civili ai parenti delle 81 persone uccise nel disastro aereo del 1980, che tuttora rimane ancora uno dei misteri più duraturi dell’Italia, almeno fino a quando i documenti scoperti questa settimana, saranno studiati a fondo.
Il governo italiano ha dichiarato che avrebbe fatto ricorso contro la decisione del tribunale civile di Palermo, che ritiene i ministeri della difesa e dei trasporti responsabili di aver omesso di garantire la sicurezza del volo. Tra le altre teorie sulle cause dell’incidente, vi era quella di una bomba a bordo o che l’aereo fosse stato accidentalmente preso in mezzo a un duello aereo.
L’avvocato Daniele Osnato, che insieme a un manipolo di avvocati rappresentati i parenti delle 81 vittime, ha detto che la giustizia è stata finalmente fatta. Oltre a determinare che i ministeri competenti non erano riusciti a proteggere il volo, ha detto, il tribunale ha anche concluso che erano colpevoli di aver nascosto la verità e di aver distrutto le prove.
Un’altra teoria sul dogfight aereo, aveva avuto credito dal giudice Rosario Priore, il quale aveva inizialmente accusato dei generali di esserne i responsabili. Il giudice Priore aveva teorizzato che un missile, lanciato da un caccia statunitense o da un altro aereo della NARO, avesse accidentalmente colpito il jet di linea interna italiano, durante il tentativo di abbattere un aereo libico.
Funzionari francesi, statunitensi e della NATO, hanno a lungo negato qualsiasi attività militare nei cieli, quella notte.
Traduzione di Alessandro Lattanzio – SitoAurora

Estratto dell’intervista al magistrato Rosario Priore – che della strage di Ustica (27 giugno 1980, 81 morti) si è occupato in una lunga inchiesta – contenuta nel libro Intrigo internazionale, edito da Chiarelettere. 
di Giovanni Fasanella*, da Il Fatto Quotidiano del 26 giugno 2010
“C’era un groviglio di verità “indicibili” che nascevano dalla nostra politica mediterranea, in particolare verso la Libia, e dall’irritazione che quella politica provocava nei nostri alleati europei. Se quelle verità fossero venute pubblicamente a galla, non sarebbero rimaste prive di conseguenze”, così risponde Rosario Priore (il giudice che su Ustica ha emesso una sentenza-ordinanza nel 1999: DC-9 abbattuto da un missile) alla madre di tutte le domande: quale verità non si poteva far conoscere all’opinione pubblica.
Dunque ci fu un episodio di guerra aerea: l’obiettivo degli attaccanti non poteva che essere libico, e di un certo rilievo? Ovviamente sì. E quanto più alto fosse stato il rango dell’obiettivo, tanto più sarebbe stato di rilievo il successo dell’operazione. L’attacco militare nel cielo di Ustica era diretto contro un aereo che si sapeva sarebbe passato proprio di lì.

E perché lo si sapeva? 
Perché succedeva sistematicamente. E non doveva succedere. Perché il sistema Nadge, la rete radar che proteggeva i paesi europei dell’Alleanza atlantica, dalla Norvegia alla Turchia, nel tratto italiano aveva dei “buchi”. Cioè passaggi o aree non coperti dai radar del Nadge. E quei corridoi erano noti ai libici, che potevano utilizzarli per il passaggio dei loro aerei militari pur non potendolo fare, perché aerei miliari di un paese non Nato. Se fossero stati individuati, il sistema li avrebbe automaticamente definiti nemici da abbattere.

E come facevano, i libici, a conoscere quei “buchi”?
Nel linguaggio dei servizi, si direbbe che c’erano state delle “perdite”. Insomma, qualcuno, in Italia, si era “perso” quei varchi della difesa radar atlantica, i libici li avevano “trovati” ed erano venuti a conoscenza delle vie non protette di penetrazione in Europa. In quel periodo, tra l’altro, molti ex ufficiali dell’Aeronautica italiana erano andati in congedo e avevano messo a disposizione dei libici tutte le loro cognizioni tecniche e tutta la loro esperienza.

Quindi i libici utilizzavano sistematicamente quei corridoi. E a quale scopo? 
Sia a scopo civile sia a scopo militare , per arrivare fino al cuore dell’Europa. E succedeva perché i libici avevano un rapporto privilegiato con l’Italia. Sì, i loro aerei si recavano spesso in Jugoslavia per riparazioni, a Banja Luka. Oppure a Venezia, dove noi fornivamo all’Aviazione libica tutta l’assistenza di cui aveva bisogno. Pensi che in quello stesso mese di giugno 1980, poco prima dell’esplosione su Ustica, nelle officine di Venezia Tessera, accanto agli aerei ufficiali del presidente statunitense e di quello francese, lì per un summit internazionale, c’erano anche dei C-130 libici: aerei da trasporto che, in barba a ogni embargo, noi militarizzavamo trasformandoli in mezzi da trasporto per paracadutisti.

È comprensibile che aerei militari libici utilizzassero dei corridoi “discreti”. Ma quelli civili, perché?
Perché a bordo spesso c’erano personaggi di primo piano, a rischio o in missioni segrete. Arafat, per esempio, si diceva che viaggiasse spesso su aerei libici passando per i nostri corridoi. Insomma, si trattava di personaggi che avevano bisogno di viaggiare in sicurezza e ai quali noi in qualche modo garantivamo protezione.

Anche Gheddafi? 
Sì, anche Gheddafi. Secondo una fondata ipotesi, emersa già nel corso della nostra inchiesta e rafforzatasi in seguito, sembra che il bersaglio fosse proprio un aereo su cui viaggiava Gheddafi. Nei piani di volo conservati presso la nostra Aeronautica, quella sera era previsto un volo con vip a bordo da Tripoli a Varsavia.

L’aereo che viaggiava sotto la pancia del nostro DC-9 poteva essere quello di Gheddafi? 
Secondo ragionevoli ipotesi, potevano essere uno o più caccia militari libici che tornavano dalla Jugoslavia utilizzando un corridoio senza la copertura del Nadge. Secondo ipotesi più recenti, quei caccia dovevano prelevare il leader libico sul Tirreno e scortarlo in un viaggio nell’Europa dell’Est. Ma, avvertito da qualcuno dell’imminente pericolo, all’altezza di Malta l’aereo avrebbe improvvisamente cambiato rotta per tornare in Libia.

Dunque i caccia libici provenienti da nord volavano sotto la protezione del DC-9 per andare a prelevare Gheddafi che stava arrivando da sud? 
Questa è la situazione più probabile. Ed è del tutto evidente che chi avesse voluto attaccare Gheddafi avrebbe dovuto prima abbattere le sue scorte.

In definitiva i caccia libici vennero abbattuti, mentre Gheddafi si salvò perché avvertito del pericolo. Chi lo avvisò? Gli italiani? 
È del tutto verosimile, visti i rapporti privilegiati tra l’Italia e la Libia. Il capo dei servizi segreti libici era di casa a Roma e nel Sismi (il nostro servizio segreto militare dell’epoca). C’era una forte cordata filoaraba e una filolibica, omologhe a quelle che esistevano all’interno dei governi della Repubblica e, più in generale, nella classe politica italiana. Chi voleva uccidere Gheddafi? Di recente, a inchiesta giudiziaria ormai conclusa, dopo che le sentenze di assoluzione dei generali erano ormai divenute definitive, l’ex presidente della Repubblica Francesco Cossiga, che all’epoca era presidente del Consiglio, ha detto qualcosa in proposito. Riferendo informazioni provenienti dall’interno dei nostri servizi, ha parlato esplicitamente di una responsabilità francese. La ritiene un’ipotesi attendibile? Sì, la ritengo attendibile. Però procederei per gradi, seguendo l’evoluzione dell’inchiesta. In primo luogo perché, da un punto di vista tecnico, a quel tempo e nel Mediterraneo, solo due paesi erano in grado di compiere un’operazione militare di quel tipo: gli Stati Uniti e la Francia. Perché occorreva un sistema di guida dei caccia capace di indirizzarli verso l’obiettivo in qualsiasi condizione. Insomma un “guida caccia” estremamente sofisticato. E poi era necessario avere basi a terra o su portaerei a una giusta distanza dal punto d’attacco. La Francia aveva portaerei nel Tirreno e basi a terra in Corsica. Gli Stati Uniti avevano la Sesta flotta dotata di portaerei, oltre alle basi in territorio italiano. Entrambi i paesi, dunque, avevano anche propri sistemi radar.

Quindi chi attaccò: Francia, Stati Uniti o entrambi? 
Tenderei a escludere responsabilità dell’Amministrazione americana dell’epoca. Primo, perché c’era Jimmy Carter, che manteneva rapporti con la Libia; addirittura la riforniva di armi. Secondo, perché gli americani ci aiutarono nell’inchiesta più degli italiani.


“Strage di Bologna opera di Gheddafi” parla “il faccendiere”
30 gennaio
«Che fine ha fatto?» mi chiedo guardando la foto su un catalogo che sto per buttare. Il suo nome era comparso sui giornali nel 1982 con la qualifica di “faccendiere”. Le ultime tracce le trovo su internet: uscito dal carcere di Livorno, sta scontando gli ultimi mesi di pena presso la Pubblica Assistenza di Lerici.
Milena Gabanelli da “La Repubblica”

Francesco Pazienza
Francesco Pazienza ha scontato 10 anni per depistaggio alle indagini sulla strage di Bologna, altri 3 per il crac Ambrosiano e associazione a delinquere. Amico di Noriega, frequentatore dei servizi segreti francesi, americani e sudamericani, nel 1980 è a capo del Super Sismi. Braccio destro di Licio Gelli, il suo ambiente è il sottobosco di confine fra l´alta finanza e l´alta criminalità, l´alta politica e il Vaticano. Protagonista delle vicende più tragiche della storia italiana degli anni ‘80, è depositario di informazioni mai rivelate, altre raccontate a modo suo. Laureato in medicina a Taranto, non ha mai indossato un camice. Negli anni ‘70 vive a Parigi e fa intermediazioni d´affari per il miliardario greco Ghertsos. Poi l´incontro con il capo del Sismi, Santovito. Grandi alberghi, yacht, belle donne, sigari rigorosamente cubani e tagliasigari d´oro. Un´altra epoca. Adesso ha 62 anni e fuma le Capri, mentre cammina da uomo libero sul lungomare di Lerici.
Cominciamo dall´inizio: come avviene l´incontro con Santovito? «Me lo presentò l´ingegner Berarducci, oggi segretario generale dell´Eurispes. Santovito era suo zio, e mi chiese di fare il suo consulente internazionale». E perché Santovito le dà questo incarico senza conoscerlo prima? «Sa, io parlavo diverse lingue e avevo un sacco di relazioni in giro per il mondo. Normalmente non avviene così, ma all´epoca era quasi tutto improntato all´improvvisazione».
E in cambio cosa riceveva? «Rimborso spese. Siccome non avevo bisogno di soldi, era quello che volevo: se volevo andare a New York in Concorde, andavo in Concorde. Mi sembrava tutto molto avventuroso».
Si dice che lei sia stato determinante nella sconfitta di Carter contro Reagan. «La storia comincia con Mike Ledeen a Washington, che mi aveva presentato Santovito; lui dirigeva il Washington Quarterly e faceva capo ad una lobby legata ai repubblicani (e alla Cia-ndr). Così gli dico: “Guarda che quando c´è stata la festa per l´anniversario della rivoluzione libica, il fratello di Carter ha fraternizzato con George Habbash”, che era il capo del Flp. E a quel punto disse: “Se tu mi dai le prove, noi possiamo fare l´ira di Dio”».
Gheddafi E le prove come se le era procurate? «Attraverso un giornalista siciliano, Giuseppe Settineri, che io mandai con un microfono addosso ad intervistare l´avvocato Papa, che faceva il lobbista e aveva partecipato alla festa di Gheddafi. Lui raccontò per filo e per segno tutto quello che era successo. Le foto dei festini me le avevano fornite Michele Papa e Federico Umberto D´Amato, la testa degli affari riservati del Viminale». Il Viminale ha dunque interferito nelle elezioni di un paese alleato? «Sissignore, però la débacle ci sarebbe stata ugualmente, ma non in misura così massiccia».
Lei, che non è un militare, diventa capo del Super Sismi. Cos´era? «Il Super Sismi ero io con un gruppo di persone che gestivo in prima persona».
A gennaio 1981 sul treno Taranto-Milano viene piazzata una valigia con esplosivo della stessa composizione di quello usato nella stazione di Bologna… Ci sono dei documenti intestati a un francese e un tedesco, indicati dai servizi come autori di stragi avvenute a Monaco e Parigi. Si scoprirà poi che si trattava di depistaggio. «Il depistaggio è stato fatto dal Sismi per non fare emergere la vera verità della bomba di Bologna. Secondo l´allora procuratore Domenico Sica c´era di mezzo la Libia, e coinvolgerla in quel momento avrebbe voluto dire tragedia per la Fiat e per l´Eni. Vada negli archivi delle sedute parlamentari: il 4 agosto 1980, Spadolini in persona presentò un´interrogazione parlamentare in cui attribuiva la bomba di Bologna a origini straniere mediorientali».
Ma qual era l’interesse mediorientale? «L´Italia non poteva sottrarsi agli obblighi Nato, e quindi doveva fare un accordo con Malta, per proteggerla in caso di attacchi del colonnello Gheddafi. L´accordo fu firmato, e Gheddafi fece la ritorsione. Ustica porta la stessa firma. Me lo ha raccontato Domenico Sica. Quando tolgono il segreto di Stato la verità salterà fuori».

giovedì 27 giugno 2013

VINCENZO CASILLO "O Nirone"




<<Signor Presidente desidero dire che io sono in carcere da 26 anni, ultimamente ho preso qualche 10 ergastoli, quindi la mia vita deve finire in carcere, ma non desidero pagare per la morte dell'amico mio più caro...comunque. Vi ripeto, tutti mi hanno detto che è stato un incidente, se poi è un omicidio dovreste domandare ad un certo apparato dello Stato, che gli ha rilasciato la tessera dei servizi segreti, e benché latitante entrava in tutte le carceri italiane. Però tutti mi hanno detto che è stato un incidente>>.
(Raffaele Cutolo)

Vincenzo Casillo

detto o' Nirone per la sua capigliatura corvina, è stato uno degli uomini chiave della Nuova Camorra Organizzata svolgendo un ruolo attivo sul territorio mentre Raffaele Cutolo soggiornava nelle diverse carceri italiane. È ritenuto l'autore materiale dell'omicidio di Nino Galasso, fratello di Pasquale Galasso.
L'affiliazione di Casillo alla NCO è anomala. Casillo, a differenza dei primi affiliati, non è un galeotto né un pregiudicato. Figlio di un industriale, dirige una fabbrica di pantaloni a San Giuseppe Vesuviano. Alla fine degli anni 70' si presenta spontaneamente a Poggioreale e in un colloquio con Raffaele Cutolo offre una sostanziosa quota della sua ditta per assicurarsi una piena protezione del boss. Da allora, stringe un rapporto sempre più intenso con il boss di Ottaviano, diventando il suo braccio destro. Insieme ad Alfonso Rosanova, ha svolto un ruolo chiave nel corso del rapimento di Ciro Cirillo e il primo contatto con la NCO avviene attraverso Francesco Pazienza, collaboratore dei servizi segreti, che il 17 luglio 1981 incontra ad Acerra Vincenzo Casillo. È proprio lui a gestire la trattativa tra SISMI, NCO, Brigate Rosse e dirigenti della DC. A seguito della liberazione di Cirillo (25 luglio) viene sospeso il decreto di carcerazione predisposto per Vincenzo Casillo. È possibile che questi fosse in possesso di un tesserino dei servizi.
Nel 1981, Casillo fa da mediatore tra le famiglie della vecchia camorra campana e la NCO. In principio, si riesce a trovare un accordo per una spartizione territoriale; successivamente, l'accordo salta poiché Cutolo pretende una forte tangente sul contrabbando delle sigarette.
Secondo il collaboratore di giustizia Pasquale Galasso, Casillo fu l'esecutore materiale dell'omicidio del banchiere Roberto Calvi, avvenuto a Londra nel 1982; Casillo infatti era segretamente passato dalla parte del clan Nuvoletta, legato ai Corleonesi, e per questo doveva fare un favore al mafioso siciliano Pippo Calò, che voleva uccidere Calvi perché si era appropriato del suo denaro e di quello dei suoi soci.






Giovanna Matarazzo
Il 29 gennaio 1983, a Roma, Vincenzo Casillo - in quel momento latitante - sale a bordo della sua automobile che esplode perché imbottita di tritolo. L'esplosione avviene in via Gregorio VII a poca distanza dalla sede del SISMI. Casillo muore mentre Mario Cuomo, seduto al suo fianco, perderà l'uso delle gambe. La sua compagna, la ballerina di night club romano  Giovanna Matarazzo, detta "Dolly Peach", dichiarerà al giudice Alemi che la morte di Casillo è collegata all'omicidio Calvi. Il 2 febbraio 1984 la donna verrà ritrovata in un blocco di cemento.
In un primo momento, è lo stesso Raffaele Cutolo ad essere accusato di essere il mandante dell’omicidio di Vincenzo Casillo. Nel luglio del 1993, il pentito Pasquale Galasso, ha riferito che l'omicidio di Casillo fu un chiaro segnale della potenza del clan Alfieri con cui i politici cominciavano ad avere rapporti più stretti. A detta di Galasso, Pinuccio Cillari aveva acconsentito a tradire i suoi compari poiché riteneva che oramai la NCO fosse destinata a scomparire, ma quando si accorse che Casillo stava riguadagnando terreno e che aveva addirittura la mafia alle spalle cominciò a tentennare.
A quel punto Galasso passò alle minacce, se Cillari non gli avesse consegnato Casillo la sua famiglia sarebbe stata oggetto di rappresaglie da parte della Nuova Famiglia. Cillari non ebbe scelta, anche se non gli fu facile compiere la sua missione poiché Casillo andava sempre in giro circondato da molti scagnozzi.

Pasquale Galasso

L'occasione giusta si presentò quando Enzo Casillo chiese a Cillari di acquistargli un'autovettura. Galasso colse l'opportunità al volo e fornì a Cillari i soldi per comperare l'auto, una Golf. La stessa vettura che prima di essere consegnata alla vittima fu imbottita di esplosivo e dove Vincenzo Casillo trovò la morte. Galasso ha inoltre riferito che il tritolo fu fornito dalla mafia. Per l'omicidio Casillo sono stati condannati all'ergastolo Ferdinando Cesarano e Pasquale Galasso.




Pasquale Scotti
Pasquale Scotti, , detto "Pasqualino 'o collier" per aver regalato un collier alla moglie di Raffaele Cutolo, ma conosciuto anche come "l'ingegnere",  viene arrestato a Caivano il 17 dicembre del 1983 grazie ad un'operazione diretta dall'allora capo della squadra mobile Franco Malvano. È accusato di essere il mandante dell'omicidio di Giovanna Matarazzo.















DOCUMENTI




PIETRO SCAGLIONE


 Buscetta: "Nel ' 70, mi incontrai con Salvatore Greco per un colpo di Stato in Sicilia. Da quel momento, dopo aver parlato, io e Greco andammo via. Liggio decise... di creare un clima di tensione nel mondo politico, per preparare il colpo politico. Ognuno decise quale fosse il politico da colpire. A Palermo fu colpito un fascista. L' obiettivo di Liggio fu il procuratore Scaglione. Perche' in quel momento Scaglione era interessato alle rivelazioni di una donna che aveva accusato Vincenzo Riina. Ma non e' vero che Scaglione era vicino agli uomini d' onore. La verita' e' che bisognava minare le basi dello Stato... Ci chiamo' Pippo Calderone per farci sapere che si stava preparando un colpo di Stato e che Borghese voleva utilizzare i mafiosi in Sicilia

Pietro Scaglione (Palermo, 2 marzo 1906 – Palermo, 5 maggio 1971) dopo essere entrato in magistratura nel 1928 e dopo avere esordito in aula come pubblico ministero negli anni quaranta, Scaglione indagò sulla banda Giuliano e preparò dure requisitorie contro gli assassini del sindacalista Salvatore Carnevale, ucciso nel 1955, negli anni del latifondismo e delle lotte contadine per la redistribuzione delle terre. La parte civile della famiglia Carnevale fu rappresentata dal futuro presidente della Repubblica, il socialista Sandro Pertini, e dagli avvocati Nino Taormina e Nino Sorgi, anche loro socialisti. Si contrapposero ad un altro futuro presidente della Repubblica, il democristiano Giovanni Leone, difensore degli imputati (i campieri della famiglia aristocratica Notarbartolo). L'impianto accusatorio della Procura di Palermo (supportato dalla parte civile) fu, però, vanificato da altre corti. Alla fine, dopo un lungo iter giudiziario tra assoluzioni e condanne in vari tribunali italiani, la Corte di Appello di Santa Maria di Capua Vetere condannò i campieri della principessa Notarbartolo all'ergastolo, accogliendo le intuizioni di Scaglione, Pertini, Sorgi e Taormina.
File:Pietro Scaglione.jpgDiventato procuratore capo nel 1962, Scaglione indagò sulla strage di Ciaculli e inquisì Salvo Lima, Vito Ciancimino e altri politici locali e nazionali. Pietro Scaglione "fu convinto assertore che la mafia aveva origini politiche e che i mafiosi di maggior rilievo bisognava snidarli nelle pubbliche amministrazioni".
Dopo la strage mafiosa di Ciaculli del 1963, grazie alle inchieste condotte dall'Ufficio Istruzione del Tribunale di Palermo (guidato da Cesare Terranova) e dalla Procura della Repubblica (diretta da Pietro Scaglione) "le organizzazioni mafiose furono scardinate e disperse", come si legge nella Relazione conclusiva della Commissione parlamentare antimafia del 1976.
Pietro Scaglione era impegnato anche nel volontariato e divenne Presidente del Consiglio di Patronato per l'assistenza alle famiglie dei carcerati e degli ex detenuti, promuovendo, tra l'altro, la costruzione di un asilo nido; per queste attività sociali, gli fu conferito dal Ministero della giustizia il Diploma di primo grado al merito della redenzione sociale, con facoltà di fregiarsi della relativa medaglia d'oro. Infine, con Decreto dello stesso Ministero della Giustizia del 1991, previo parere favorevole del Consiglio Superiore della Magistratura, Pietro Scaglione fu riconosciuto "magistrato caduto vittima del dovere e della mafia". 



L'omicidio
Scaglione, che era stato da poco destinato a procuratore generale di Lecce, venne assassinato a colpi di pistola il 5 maggio 1971 in via dei Cipressi a Palermo, dopo essere uscito dal cimitero dove era andato a pregare sulla tomba della moglie, mentre era a bordo di una Fiat 1500 nera insieme al suo autista Antonino Lo Russo, che rimase pure ucciso. Il giorno seguente Scaglione si sarebbe dovuto recare a Milano per testimoniare sull'esistenza di una telefonata avvenuta tra il commercialista Antonino Buttafuoco e l'avvocato Vito Guarrasi durante le indagini sulla scomparsa del giornalista Mauro De Mauro, coordinate dallo stesso Scaglione; Buttafuoco infatti era pesantemente implicato nella scomparsa di De Mauro ed era anche strettamente legato a Guarrasi e al boss mafioso Luciano Leggio, a cui era solito fare visita. 
Inoltre Scaglione si era incontrato con De Mauro pochi giorni prima che questi scomparisse perché il giornalista era entrato in possesso di notizie su Vito Guarrasi e l'onorevole Graziano Verzotto, implicati nell'omicidio di Enrico Mattei, presidente dell'ENI.
L'assassinio di Scaglione si può considerare il primo omicidio eccellente compiuto in Sicilia dopo quello di Emanuele Notabartolo del 1893. Dopo la sua morte si diffusero insinuazioni relative ad una sua collusione e disponibilità ad insabbiare le inchieste, voci che molte fonti giudicano errate, come ribadito dalle sentenze irrevocabili, che lo definiscono magistrato integerrimo.
Le motivazioni ed i retroscena dell'omicidio di Scaglione vennero chiariti dal pentito Tommaso Buscetta: il crimine venne deciso da Luciano Leggio ed eseguito da lui stesso insieme al suo luogotenente Salvatore Riina.
In particolare, come scrivono i giudici del celebre Maxiprocesso di Palermo (istruito da Antonino Caponnetto e Giovanni Falcone), Buscetta definì Pietro Scaglione "un magistrato integerrimo e spietato persecutore della mafia". Sempre secondo Buscetta, il delitto sarebbe stato eseguito dai Corleonesi per diversi moventi, tra i quali l'eliminazione di un "nemico giurato della mafia" come Scaglione e la volontà di fare ricadere la colpa del delitto sul clan dei Rimi di Alcamo, per i quali il procuratore Scaglione si accingeva a chiedere il rinvio a giudizio.

La testimonianza di Piero Grasso 
Nel libro la Mafia Invisibile, il superprocuratore antimafia Piero Grasso (intervistato da Saverio Lodato) si occupa ampiamente dell'omicidio Scaglione affermando, tra le altre cose:
« Ricordo le prime campagne di delegittimazione sulla figura del magistrato. Ricordo che circolarono certe voci per gettare ombre sulla sua attività: calunnie poi categoricamente smentite dalle indagini successive. Scaglione aveva sempre tenuto un atteggiamento coerente e rigoroso nei confronti di una criminalità che allora era ancora difficilmente decifrabile come mafiosa. »
(Lodato; Grasso, La mafia invisibile. La nuova strategia di Cosa Nostra, Milano, Arnoldo Mondadori Editore, 2001, p. 91 ss.)


File:Pietro Scaglione - Antonino Lorusso - Lapide Palermo.jpg

martedì 25 giugno 2013

PRINCIPE ALLIATA DI MONTEREALE



Principe Alliata di Montereale


Il principe don Giovanni Francesco Stefano Ippolito Oliviero Agilulfo Pio Giacomo Orazio Maria Brasilino Alliata di Montereale e Villafranca

meglio conosciuto come Gianfranco (Rio de Janeiro, 26 agosto 1921 – Roma, 20 giugno 1994), figlio di don Giovanni (nato a Trapani il 13 agosto 1877, deceduto a Rio de Janeiro il 20 gennaio 1938, ministro plenipotenziario di 1ª classe) e di donna Olga dei conti Matarazzo, nacque in Brasile, dove la famiglia aveva vasti possedimenti.
Laureato in giurisprudenza, dopo lo sbarco degli Alleati in Sicilia del 1943 aderì al movimento separatista. Capo della componente agraria del Movimento Indipendentista Siciliano, fu indicato da Gaspare Pisciotta come uno dei mandanti della strage di Portella della Ginestra del 1º maggio 1947, ma le accuse non furono mai provate.
Nel 1946 è eletto al consiglio comunale di Palermo.                                         
Il 30 aprile 1947 fu eletto deputato all'Assemblea regionale siciliana ma si dimise nel 1948 perché eletto deputato alla Camera, nella prima legislatura, per il Partito Nazionale Monarchico, nel collegio unico nazionale.
Ha dilapidato un patrimonio in una vita piena di donne e tavoli da gioco oltre che di massoneria. Di disponibilità finanziarie comunque ne ha sempre avute. 
Riconfermato alla Camera nel 1953, nel 1956 passa al Partito Monarchico Popolare, con cui viene rieletto nella terza legislatura, stavolta nel collegio di Palermo. Lascia il PMP nel 1959 per aderire al Partito Democratico Italiano. Non rieletto nel 1963. Consigliere comunale a Bologna dal 1956 al 1960.
È stato vice presidente del Partito nazionale monarchico e presidente regionale per la Sicilia dello stesso Partito; vice presidente del Partito monarchico popolare e vice presidente dell'Unione monarchica italiana
Nel 1970 una "soffiata" gli permette di sfuggire alla cattura ordinata dalla Procura della Repubblica di Roma nell'ambito dell'inchiesta sul fallito golpe del principe Junio Valerio Borghese e di rifugiarsi all'estero.
Secondo i giudici Alliata avrebbe partecipato alla stesura del progetto politico-militare ed avrebbe richiesto collaborazione ai boss di Cosa Nostra, che tramite Luciano Leggio, pero' rifiuteranno.
Verra' poi prosciolto e tornera' tranquillamente in Italia. 
Compare poi fra i destinatari di un avviso di garanzia inviato dalla magistratura di Padova che indaga sull'attivita' del gruppo neofascista la Rosa dei Venti
Fu Gran Maestro della loggia massonica di Piazza del Gesù.
Aderì alla Loggia P2 (tessera n. 361). Fu Sovrano Gran Commendatore a vita del Rito Scozzese Antico e Accettato dell’osservanza massonica di Piazza del Gesù e Gran Maestro della Serenissima Gran Loggia Nazionale degli Antichi Liberi e Accettati Muratori (ALAM).
Costituì l’Associazione Nobili del Sacro Romano Impero.
Nel 1993 fu promotore a Roma di una lista alle Comunali per le prime elezioni dirette del sindaco.
Morì a Roma, mentre era agli arresti domiciliari per un'indagine della Procura di Palmi per aver fatto parte di un "gruppo massonico occulto".





sabato 22 giugno 2013

EMANUELA ORLANDI


Il 24 luglio 2011 Antonio Mancini, in un'intervista a La Stampa, dichiara che effettivamente la Orlandi fu rapita dalla Banda della Magliana per ottenere la restituzione del denaro investito nello IOR attraverso il Banco Ambrosiano, come ipotizzato dal giudice Rosario Priore. Mancini aggiunge di ritenere sottostimata la cifra di 20 miliardi e che fu Enrico De Pedis a far cessare gli attacchi contro il Vaticano, malgrado i soldi non fossero stati tutti restituiti, ottenendo in cambio, fra le altre cose, la possibilità di essere sepolto nella Basilica di Sant'Apollinare, come poi effettivamente avvenne.


Emanuela Orlandi (nata a Roma il 14 gennaio 1968) 
Quella che all'inizio poteva sembrare la "normale" sparizione di un'adolescente, magari per un allontanamento volontario da casa, divenne presto uno dei casi più oscuri della storia italiana che coinvolse lo Stato Vaticano, lo Stato Italiano, l'Istituto per le Opere di Religione (IOR), la Banda della Magliana, il Banco Ambrosiano e i servizi segreti di diversi Paesi, in maniera a tutt'oggi non ancora risolta.
Alla scomparsa di Emanuela fu collegata la sparizione di un'altra adolescente romana, Mirella Gregori, scomparsa il 7 maggio 1983 e mai più ritrovata.


Scomparsa 
Emanuela Orlandi frequentava una scuola di musica in piazza Sant'Apollinare a Roma. Il giorno della scomparsa, nel tragitto che dal Vaticano la portava alla scuola, incontrò uno sconosciuto, alla guida di una berlina verde, che le offrì un lavoro di vendita di cosmetici, da svolgere durante una sfilata di moda e pagato esageratamente (circa 375.000 lire dell'epoca, l'equivalente di uno stipendio di allora). Emanuela rispose che prima di accettare avrebbe dovuto chiedere il permesso ai genitori. Verso le ore 19:00, dopo essere uscita in anticipo dalla lezione, telefonò a casa per riferire la proposta che le era stata fatta: la sorella le disse che diffidava molto della troppo allettante proposta, e comunque di tornare quanto prima a casa per parlarne con la madre. Questo fu l'ultimo contatto che Emanuela ebbe con la famiglia.
Dopo la telefonata, Emanuela si confidò con un'amica e compagna della scuola di musica, Raffaella Monzi, che la accompagnò alla fermata dell'autobus, lasciandola alle 19:30. Poco dopo, Emanuela fu vista da un vigile urbano in servizio davanti al Senato (al quale chiese dove si trovasse la Sala Borromini). Il vigile, interrogato dalle forze dell'ordine una volta iniziate le indagini per la scomparsa, riferì che la ragazza era in compagnia di un uomo alto circa 1 m e 75, sui 35 anni, snello, con il viso lungo, stempiato, con una valigetta e una berlina scura metallizzata. Altri testimoni la videro salire sull'auto. Dall'identikit che fu tracciato, un carabiniere del Nucleo Operativo di via in Selci notò la somiglianza con Enrico De Pedis, membro della Banda della Magliana, ma la cosa, stranamente, non ebbe un immediato seguito investigativo; pare che una giustificazione sarebbe nel fatto che all'epoca si riteneva il soggetto criminale latitante all'estero, ma un riscontro approfondito in merito non venne effettuato.



Le ricerche e le telefonate
Le prime ricerche furono condotte autonomamente dalla famiglia. Il 25 giugno, però, dopo una serie di telefonate non attendibili, arrivò agli Orlandi una chiamata da parte di un uomo che diceva di chiamarsi Pierluigi, il quale raccontò che la sua fidanzata aveva incontrato a Campo dei Fiori due ragazze, una delle quali vendeva cosmetici, aveva con sé un flauto e diceva di chiamarsi Barbara. "Pierluigi" riferì anche che "Barbara", all'invito di suonare il flauto, si sarebbe rifiutata a causa della vergogna che provava nell'indossare gli occhiali.
Enrico De Pedis
Tre ore più tardi "Pierluigi" richiamò, aggiungendo che gli occhiali di "Barbara" erano "a goccia, per correggere l'astigmatismo". Queste chiamate si rivelarono preziose per i familiari, poiché in effetti Emanuela era astigmatica, si vergognava di portare gli occhiali e suonava il flauto. Il 26 giugno "Pierluigi", durante un'altra chiamata, aggiunse alcune informazioni su se stesso: disse di avere 16 anni e di trovarsi in quella giornata con i genitori in un ristorante al mare. Comunicò anche che "Barbara" avrebbe suonato il flauto al matrimonio della sorella ma rifiutò ogni ulteriore collaborazione per rintracciare Emanuela e di incontrare di persona lo zio.
Il 28 giugno fu il turno di un certo "Mario" che, con un forte accento romano, disse di avere 35 anni. Anch'egli sosteneva di aver visto un uomo e due ragazze che vendevano cosmetici, una delle quali diceva di essere di Venezia e chiamarsi Barbara. Significativo risulta, durante la telefonata di "Mario", un piccolo dettaglio: quando gli viene chiesta l'altezza della ragazza, egli esita, come se non lo sapesse. In sottofondo, si sente una seconda voce, che dice "No, de più". Sembra quindi che ci fosse un secondo uomo con lui, il quale aveva visto la ragazza, al contrario di "Mario".
In una seconda telefonata, "Mario" spiegò che "Barbara" gli aveva confidato di essersi allontanata volontariamente da casa. La famiglia, considerando quest'ipotesi impossibile, perse a questo punto fiducia nelle telefonate di "Mario" e "Pierluigi". "Mario" venne, dopo molti anni, identificato con forte probabilità in un uomo vicino alla Banda della Magliana.


Ipotesi 
Domenica 3 luglio 1983 il Papa di allora, Giovanni Paolo II, durante l'Angelus, rivolse un appello ai responsabili della scomparsa di Emanuela Orlandi, ufficializzando per la prima volta l'ipotesi del sequestro.
Agostino Casaroli
Il 5 luglio, giunse una chiamata alla sala stampa vaticana. All'altro capo del telefono un uomo, che parlava con uno spiccato accento anglosassone (e per questo subito ribattezzato dalla stampa "l'Amerikano"), affermò di tenere in ostaggio Emanuela Orlandi, sostenendo che molti altri elementi erano già stati forniti da altri componenti della sua organizzazione, Pierluigi e Mario, e richiese l'attivazione di una linea telefonica diretta con il Vaticano. Chiamava in causa Mehmet Ali Ağca, l'uomo che aveva sparato al Papa in Piazza San Pietro un paio di anni prima, chiedendo un intervento del pontefice, Giovanni Paolo II affinché venisse liberato entro il 20 luglio.
Un'ora dopo, l'uomo chiamò a casa Orlandi, e fece ascoltare ai genitori un nastro con una voce di ragazza, forse di Emanuela che diceva di frequentare la Scuola Convitto Nazionale Vittorio Emanuele II, e di dover iniziare a settembre il terzo liceo scientifico.
L'8 luglio 1983 un uomo con inflessione mediorientale telefonò a una compagna di classe di Emanuela, dicendo che la ragazza era nelle loro mani, che avevano 20 giorni di tempo per fare lo scambio con Alì Agca, e chiedendo una linea telefonica diretta con il Cardinale Segretario di Stato Agostino Casaroli.



Il 17 luglio, venne fatto ritrovare un nastro, in cui si confermava la richiesta di scambio con Ağca, la richiesta di una linea telefonica diretta con il cardinale Casaroli, e si sentiva la voce di una ragazza che implorava aiuto, dicendo di sentirsi male. La linea fu installata il 18 luglio. Alcuni giorni più tardi, in un'altra telefonata, "l'Amerikano" chiese allo zio di Emanuela di rendere pubblico il messaggio contenuto sul nastro, e di informarsi presso il cardinale Agostino Casaroli, riguardo ad un precedente colloquio.
In totale, le telefonate dell'"Amerikano" furono 16, tutte da cabine telefoniche. Nonostante le richieste di vario tipo, e le presunte prove, l'uomo (mai rintracciato) non aprì nessuna reale pista.
Nel comunicato n. 20 del 20 novembre 1984, i Lupi grigi dichiarano di custodire nelle loro mani entrambe le ragazze. La "pista turca" dei Lupi grigi, tuttavia, è stata sconfessata dall'ex ufficiale della Stasi Günter Bohnsack, il quale ha dichiarato che i servizi segreti della Germania Est sfruttarono il caso di Emanuela Orlandi scrivendo finte lettere a Roma per consolidare la tesi che metteva in relazione Ağca con i Lupi Grigi, al fine di scagionare la Bulgaria dalle accuse durante le indagini per l'attentato a Papa Giovanni Paolo II. L'estraneità dei Lupi grigi fu confermata da un pentito della Banda della Magliana Antonio Mancini, che nel 2007 ha dichiarato «Si diceva che la ragazza era roba nostra, l'aveva presa uno dei nostri».
Nel 2010, Pietro Orlandi, fratello di Emanuela, ha un colloquio con Mehmet Ali Ağca, nel quale l'ex terrorista conferma l'ipotesi del rapimento per conto del Vaticano, già menzionata nella telefonata del 5 luglio 1983 e fa il nome di un cardinale, Giovanni Battista Re, ritenendolo persona informata sui fatti[. Un anno dopo, la registrazione del colloquio viene pubblicata dalla trasmissione Chi l'ha visto? che censura il nome del cardinale. Pietro Orlandi, in quel momento in collegamento, comunica di essere andato a parlare con lo stesso Re, che ha smentito le parole dell'ex terrorista.


Presunti collegamenti con lo scandalo IOR ed il caso Calvi 
Secondo alcuni giornali e pubblicazioni, l'identikit dell'Amerikano, stilato dall'allora vicecapo del SISDE Vincenzo Parisi in una nota rimasta riservata fino al 1995, corrisponderebbe a monsignor Paul Marcinkus, che all'epoca era presidente dello IOR, la "banca" vaticana: gli specialisti del SISDE, analizzando i messaggi e le telefonate pervenute alla famiglia, per un totale di 34 comunicazioni, ne ritennero affidabili e legati a chi aveva effettuato il sequestro 16, che riguardavano una persona con una conoscenza approfondita della lingua latina, migliore di quella italiana (ritenendo possibile che fosse stata appresa successivamente al latino), probabilmente di cultura anglosassone e con un elevato livello culturale e una conoscenza del mondo ecclesiastico e del Vaticano, oltre alla conoscenza approfondita di diverse zone di Roma (dove probabilmente aveva abitato).

paul marcinkus orlandi
Paul Marcinkus






Presunti collegamenti con la Banda della Magliana 
Nel luglio del 2005, alla redazione del programma Chi l'ha visto?, in onda su Rai 3, arrivò una telefonata anonima in cui si diceva che per risolvere il caso di Emanuela Orlandi era necessario andare a vedere chi è sepolto nella basilica di Sant'Apollinare e controllare «del favore che Renatino fece al cardinal Poletti». Si scoprì così che "l'illustre" defunto altri non era che un capo della Banda della Magliana, Enrico De Pedis. L'inviata Raffaella Notariale era riuscita a ottenere le foto della tomba e i documenti originali relativi alla sepoltura del boss in territorio vaticano, voluta dal cardinale Ugo Poletti, allora presidente della Cei.
Il 20 febbraio 2006, un pentito della Banda, Antonio Mancini, sostenne di aver riconosciuto nella voce di Mario quella di un killer al servizio di De Pedis, tale "Rufetto". Alla redazione del già citato programma di Rai Tre giunse poi una cartolina raffigurante una località meridionale che presentava il seguente testo: «Lasciate stare Renatino».

Cardinal Ugo Poletti 


Il 30 giugno 2008, Chi l'ha visto? trasmise la versione integrale della telefonata anonima del luglio 2005, lasciata inedita fino ad allora. Dopo le rivelazioni sulla tomba di De Pedis e del cardinal Poletti, la voce aggiungeva «E chiedete al barista di via Montebello, che pure la figlia stava con lei...con l'altra Emanuela». Il bar si rivelò appartenere alla famiglia di S. d. V, amica di Mirella Gregori, altra ragazza scomparsa a Roma il 7 maggio 1983 in circostanze misteriose ed il cui rapimento venne collegato a quello Orlandi. La redazione di Chi l'ha visto? è stata minacciata nel luglio 2008 anche da un'altra telefonata anonima da parte di un certo "biondino".
Nel luglio 2011 la procura distrettuale di Roma ha arrestato alcuni componenti della famiglia romana De Tomasi, accusati di reati tra i quali usura e riciclaggio di denaro; secondo gli inquirenti, Giuseppe De Tomasi, noto Sergione, affiliato alla Banda della Magliana, è la stessa persona che nel 1983 telefonò alla famiglia Orlandi identificandosi con il nome "Mario", mentre il figlio, Carlo Alberto De Tomasi, è l'autore della telefonata a "Chi l'ha visto?" del luglio 2005.



Le testimonianze di Sabrina Minardi e la ripresa delle indagini 
Sabrina Minardi con Bruno Giordano
Nel 2006 la giornalista Raffaella Notariale raccolse un'intervista di Sabrina Minardi, ex-moglie del calciatore della Lazio Bruno Giordano, che tra la primavera del 1982 ed il novembre del 1984 ebbe una relazione con Enrico De Pedis. Due anni e mezzo dopo, il 23 giugno del 2008, la stampa italiana riportò le dichiarazioni che Sabrina Minardi aveva reso agli organi giudiziari che avevano deciso di ascoltarla: Emanuela Orlandi sarebbe stata uccisa ed il suo corpo, rinchiuso dentro un sacco, gettato in una betoniera a Torvaianica. In quella occasione, secondo la Minardi, De Pedis si sarebbe sbarazzato anche del cadavere di un bambino di 11 anni ucciso per vendetta, Domenico Nicitra, figlio di uno storico esponente della banda. Il piccolo Nicitra fu però ucciso il 21 giugno 1993, ben dieci anni dopo l'epoca alla quale la Minardi fa risalire l'episodio, e tre anni dopo la morte dello stesso De Pedis, avvenuta all'inizio del 1990. Stando a quanto riferito da Sabrina Minardi, il rapimento di Emanuela Orlandi sarebbe stato effettuato materialmente da Enrico De Pedis, su ordine del monsignor Paul Marcinkus «come se avessero voluto dare un messaggio a qualcuno sopra di loro».
Nel particolare, la Minardi ha raccontato di essere arrivata in auto (una Autobianchi A112 bianca) al bar del Gianicolo, dove De Pedis le aveva detto di incontrare una ragazza che avrebbe dovuto «accompagnare al benzinaio del Vaticano». All'appuntamento arrivarono una BMW scura, con alla guida "Sergio", l'autista di De Pedis e una Renault 5 rossa con a bordo una certa "Teresina" (la governante di Daniela Mobili, amica della Minardi) e una ragazzina confusa, riconosciuta dalla testimone come Emanuela Orlandi. "Sergio" l'avrebbe messa nella BMW alla cui guida andò la Minardi stessa. Rimasta sola in auto con la ragazza, la donna notò che questa «piangeva e rideva insieme» e «sembrava drogata». Arrivata al benzinaio, trovò ad aspettare in una Mercedes targata Città del Vaticano, un uomo «che sembrava un sacerdote» che la prese in consegna.
La ragazza avrebbe quindi trascorso la sua prigionia a Roma, in un'abitazione di proprietà di Daniela Mobili in via Antonio Pignatelli 13 a Monteverde nuovo - Gianicolense, che aveva «un sotterraneo immenso che arrivava quasi fino all'Ospedale San Camillo» (la cui esistenza, oltre ad un piccolo bagno ed un lago sotterraneo, è stata accertata dagli inquirenti il 26 giugno 2008). Di lei si sarebbe occupata la governante della signora Daniela Mobili, "Teresina"; secondo la Minardi, la Mobili, sposata con Vittorio Sciattella, era vicina a Danilo Abbruciati, altro esponente di spicco della Banda della Magliana, coinvolto nel caso Calvi e che dispose il restauro della palazzina in via Pignatelli.
La Mobili ha negato di conoscere la Minardi o di avere avuto un ruolo nel rapimento, poiché in quegli anni si trovava, così come il marito, in prigione. Tuttavia la Minardi si è sempre riferita alla governante "Teresina", che effettivamente lavorava nell'appartamento in quel periodo, anche se non aveva la patente].Successivamente, la Minardi ha citato un altro componente della Banda (corrispondente ad un vecchio identikit) che, rintracciato dalle forze dell'ordine, ha confessato che il rifugio in via Pignatelli era sì un nascondiglio, «ma non per i sequestrati, [bensì] per i ricercati. Era il rifugio di "Renatino"», negando la connessione fra l'ex boss della Magliana e il rapimento Orlandi.


Affiora anche il personaggio di Giulio Andreotti, presso il quale la Minardi racconta di essere andata a cena due volte, insieme al compagno De Pedis, a quel tempo già ricercato dalla polizia. La donna specifica però che Andreotti «non c'entra direttamente con Emanuela Orlandi, ma con monsignor Marcinkus sì».
Le dichiarazioni della Minardi, benché siano state riconosciute dagli inquirenti come parzialmente incoerenti (anche a causa dell'uso di droga da parte della donna in passato) hanno acquistato maggior credibilità nell'agosto 2008, a seguito del ritrovamento della BMW che la stessa Minardi ha raccontato di aver utilizzato per il trasporto di Emanuela Orlandi e che risulta appartenuta prima a Flavio Carboni, imprenditore indagato e poi assolto nel processo sulla morte di Roberto Calvi, e successivamente ad uno dei componenti della Banda della Magliana.
La pubblicazione dei verbali resi alla magistratura dalla Minardi ha suscitato le proteste del Vaticano, che, per bocca di padre Federico Lombardi, portavoce della Sala Stampa della Santa Sede, ha dichiarato che oltre alla «mancanza di umanità e rispetto per la famiglia Orlandi, che ne ravviva il dolore», ha poi definito come «infamanti le accuse rivolte a Mons. Marcinkus, morto da tempo e impossibilitato a difendersi».
Il 19 novembre 2009 Sabrina Minardi, interrogata presso la Procura di Roma dal procuratore aggiunto Giancarlo Capaldo e dal pubblico ministero Simona Maisto, sembrerebbe aver riconosciuto l'identità di "Mario", ossia l'uomo che nei giorni immediatamente successivi alla scomparsa di Emanuela Orlandi telefonò ripetutamente alla famiglia.
Il 21 novembre, su Rai News 24, andò in onda un'altra intervista a Sabrina Minardi, curata da Raffaella Notariale. La Minardi raccontò che Emanuela Orlandi aveva trascorso i primi quindici giorni di prigionia a Torvaianica, nella casa al mare di proprietà dei genitori della Minardi stessa.
Il 2 febbraio 2010 Pietro Orlandi, fratello di Emanuela, ha incontrato Alì Aǧca, dal quale ha ricevuto rassicurazioni sul fatto che «Emanuela è viva e ritornerà presto a casa». Secondo l'ex Lupo grigio, la ragazza «ora vive reclusa in una mega villa in Francia o in Svizzera. Tornerà a casa».
Il 10 marzo 2010 è stata resa nota l'esistenza di un nuovo indagato, Sergio Virtù, indicato da Sabrina Minardi come l'autista di fiducia di Renatino, il quale avrebbe avuto un ruolo operativo nel sequestro della ragazza. L'uomo è indagato per i reati di omicidio volontario aggravato e sequestro di persona. Virtù è stato arrestato il giorno dell'interrogatorio per altri reati e trasferito nel carcere di Regina Coeli. All'ex autista di De Pedis infatti, erano state inflitte in passato due condanne perché coinvolto in reati di truffa. Davanti ai pm titolari dell'inchiesta, Virtù ha negato ogni addebito sulla vicenda, in particolare di avere mai conosciuto né avuto rapporti di amicizia con De Pedis. A carico dell'ex autista ci sono anche alcune dichiarazioni di un'altra donna, definita dagli inquirenti una sua ex convivente, la quale avrebbe raccontato di aver avuto un ruolo nel sequestro della Orlandi e di averne per questo anche ricevuto compenso.
Nel luglio 2010 è stato dato, dal Vicariato di Roma, il via libera all'ispezione della tomba di Enrico De Pedis nella basilica di Sant'Apollinare. Questo è il contenuto della nota, inviata dal Vicariato alla trasmissione di Raitre Chi l'ha visto?, che ne ha diffuso il testo e che il 5 luglio è tornata ad occuparsi della scomparsa di Emanuela.
Il 17 giugno 2011, durante un dibattito sul libro di Pietro Orlandi "Mia sorella Emanuela" in diretta tv su RomaUno un uomo dichiaratosi ex-agente del SISMI afferma che «Emanuela e' viva, si trova in un manicomio in Inghilterra ed è sempre stata sedata». Aggiunge che causa del rapimento fu la conoscenza da parte di Ercole Orlandi, padre di Emanuela, di attività di riciclaggio di denaro "sporco" legate ad Antonveneta, essendo quindi il rapimento collegato a Calvi e al crack dell'Ambrosiano.
Il 24 luglio 2011 Antonio Mancini, in un'intervista a La Stampa, dichiara che effettivamente la Orlandi fu rapita dalla Banda della Magliana per ottenere la restituzione del denaro investito nello IOR attraverso il Banco Ambrosiano, come ipotizzato dal giudice Rosario Priore. Mancini aggiunge di ritenere sottostimata la cifra di 20 miliardi e che fu Enrico De Pedis a far cessare gli attacchi contro il Vaticano, malgrado i soldi non fossero stati tutti restituiti, ottenendo in cambio, fra le altre cose, la possibilità di essere sepolto nella Basilica di Sant'Apollinare, come poi effettivamente avvenne.
Il 14 maggio 2012 finalmente viene aperta la tomba di De Pedis, ma al suo interno vi si trovano solamente i resti del defunto. Allora si scava più approfonditamente, ma vengono trovate solo nicchie con resti di ossa risalenti al periodo napoleonico.
Quattro giorni dopo, il 18 maggio, viene indagato Don Pietro Vergari per concorso in sequestro di persona.
Secondo una pista investigativa Emanuela Orlandi sarebbe stata attirata ed uccisa in un giro di festini a sfondo sessuale in cui erano coinvolti esponenti del clero,[senza fonte] un gendarme vaticano e personale diplomatico di un'ambasciata straniera presso la Santa Sede. Altre indagini rinviano ad una pista che conduce a Boston, con coinvolgimento di preti pedofili.

La teoria Nicotri 
Nel 2002, con la pubblicazione del libro Mistero Vaticano, e nel 2009, con la pubblicazione di Emanuela Orlandi - La verità, il giornalista Pino Nicotri, già redattore de l'Espresso, sovverte completamente tutte le ipotesi relative al rapimento, riconducendole ad un insabbiamento finalizzato a nascondere la realtà dei fatti. La Orlandi, secondo Nicotri, sarebbe morta in Vaticano il giorno stesso della scomparsa, durante un incontro sessuale con una persona molto in alto nella gerarchia ecclesiastica, un'ipotesi che avvicina il caso Orlandi a quello di Wilma Montesi. A tal proposito il giornalista Max Parisi afferma di essere a conoscenza di questo nome e di esserne stato colpito, ma che non intende divulgarlo.
Nei libri il giornalista afferma che l'aggancio alla vicenda dei servizi segreti dell'est (che nel caso non sarebbero coinvolti affatto) non sarebbe altro che un'opportunistica manovra degli stessi, volta a indebolire papa Wojtyła e impedirgli di dare forza a Solidarność. Così pure la ragnatela di comunicati, le presunte "svolte" nelle indagini, le dichiarazioni di improbabili testimoni succedutesi negli anni, il presunto coinvolgimento di organizzazioni criminali, non sarebbero da ricondursi a un complotto internazionale, ma obbedirebbero a una catena di eventi opportunistici di cui le alte sfere vaticane si sarebbero servite per insabbiare la scabrosa vicenda.









Il supertestimone Fassoni Accetti
Corriere 26/04/2013 (Peronaci)
ROMA - Spunta un'altra «ragazza con la fascetta» nell'intrigo che da 30 anni ha inghiottito Emanuela Orlandi e Mirella Gregori. Si chiamava Caterina Skerl, detta Katy, aveva 17 anni e frequentava il liceo artistico in via Giulio Romano, a Ponte Milvio. Figlia di un regista americano, abitava a Montesacro e il 22 gennaio 1984 fu trovata strangolata in una vigna, a Grottaferrata.

Marco Fassone Accetti ed Emanuela Orlandi

Il giorno prima, nel pomeriggio, Katy era attesa da un'amica sulla Tuscolana, dove non arrivò mai: in quel lasso di tempo incontrò la belva che inghiottì anche lei. Mantello nero, pantaloni di velluto e stivaletti bordeaux ; viso pulito, capelli lunghi e lisci: sul collo i segni della cinta e del fil di ferro usati dal killer. Un enigma: un altro cold case lasciato in eredità agli investigatori romani dal milieu affaristico-criminale del secolo scorso. Ma anche un giallo che ora, a sorpresa, torna d'attualità.
Emanuela, Mirella. E Katy. E' stato Marco Fassoni Accetti, autore cinematografico indipendente, l'uomo che nei recenti interrogatori in Procura si è autoaccusato di essere stato uno dei telefonisti del caso Orlandi, a legare il delitto di Grottaferrata alle quindicenni.
Il regista, che all'epoca sostiene di aver militato in un «nucleo di controspionaggio» incaricato di svolgere «azioni di pressione» nell'ambito di presunte lotte di potere all'interno del Vaticano, avrebbe attribuito l'omicidio della Skerl alla «fazione opposta» alla sua. Scenario inquietante, da Guerra fredda: ragazze a spasso per Roma pedinate, «agganciate» con l'inganno, usate per foto e filmati utili a ricattare, distruggere i «nemici». Quelli della Orlandi e della Gregori, secondo il telefonista, furono gli unici «sequestri simulati» attuati per «proteggere il dialogo tra Santa Sede e Paesi del Patto di Varsavia»: dovevano durare poco, ma le «trattative» fallirono. A Katy, invece, il destino ha riservato la morte tra filari di vite rinsecchiti dal gelo.
Domande, suggestioni, misteri. Come quello della morte di Josè Garramon, 12 anni, figlio di un funzionario uruguayano dell'Onu, che il 20 dicembre 1983 fu ucciso da un furgone nella pineta di Castel Porziano. Al volante c'era proprio Fassoni Accetti, che si allontanò e fu rintracciato dalla scorta di Severino Santiapichi, il magistrato che si occupava dell'attentato al Papa e aveva la villa poco distante. Il regista finì in carcere per un anno. 
Nei giorni scorsi, al Corriere , ha dichiarato: «Era buio, c'erano delle ombre. Quel bambino mi fu gettato sotto la macchina, fu un incidente provocato. In seguito sono stato assolto. La prova è in un comunicato sul caso Orlandi in cui si parla di una pineta: era un messaggio in codice indirizzato a me, è lampante». 
Il 27 settembre 1983, effettivamente, arrivò al giornalista Joe Marrazzo del Tg2 una lettera firmata «Phoenix», sigla usata allora dal Sisde per incastrare i sequestratori. «Vogliamo generosamente ricordare a "Mario" che nella pineta c'è tanto posto per aumentare la vegetazione...», diceva il testo. Allusioni, torve minacce: era davvero un avvertimento? Tre ragazze, il piccolo Josè. E un giallo intricatissimo, in queste ore a una svolta.
Vaticano, fazioni in lotta

«Tutto iniziò con le microspie nelle auto dei monsignori Poi arrivammo ai sequestri»
Peronaci - Corriere.it
Marco Accetti, collegiale al San Giuseppe De Merode, grazie al suo direttore spirituale Pierluigi Celata nei primi anni '70 conosce alcuni religiosi che gli mettono a disposizione abiti talari e locali per attività filmiche. È questa la sua prima «entratura». Poi - il ragazzo è sveglio - maturano altri contatti. «Sacerdoti un po' peccatori mi proposero: visto che sei così bravo con la cinepresa, vuoi renderti utile?» Siamo alla fine dei '70, tempo di guerra fredda. Di spie, cordate e camarille. Le azioni del «nucleo di controspionaggio», elenca Accetti, nascono per «tutelare il dialogo con i Paesi del Patto di Varsavia» (il che coincideva con la linea Casaroli) e contrastare la gestione di Ior e Apsa. Ma chi fu l'ispiratore? Risposta sfumata: «Volevamo condizionare in senso progressista le scelte del Consiglio per gli affari pubblici della Chiesa... Agivamo nell'area di monsignor Backis (cardinale lituano presente al recente conclave, ndr)». Accetti comunque un episodio lo cita: «Nella sua Fiat collocammo microspie per attenzionare persone che erano con lui». Altre figure vicine erano «monsignor Martin, della Prefettura pontificia, e Deskur, preposto alle Comunicazioni sociali», nonché «il cardinal Hume, alle prese con i debiti della sua diocesi». Quanto alla parte avversa, è con l'ascesa nel 1978 del pontefice polacco che il gruppo individua i bersagli: «Ci opponevamo ai finanziamenti a Solidarnosc e in generale alla spinta anticomunista di Wojtyla»

Una donna nel sequestro di Emanuela 
Fu lei a scrivere le lettere da Boston
La moglie del superteste Fassoni Accetti si trasferì negli Usa nell'agosto 1983, due mesi dopo il sequestro. Perizia grafica conferma: stessa mano dei primi messaggi
ROMA - Le quattro lettere da Boston, inviate alla Rai e al corrispondente romano della Cbs nell'autunno 1983 per confermare l'iniziale richiesta di scambio con Alì Agca, furono scritte dalla moglie di Marco Fassoni Accetti, di recente indagato per il sequestro di Emanuela Orlandi, figlia di un messo pontificio. La novità, nel giallo della quindicenne sparita il 22 giugno 1983, ha un duplice effetto: da un lato rafforza la credibilità del fotografo, che ha riferito di essere stato uno dei telefonisti che chiamarono la famiglia Orlandi e il Vaticano; e dall'altro, per la prima volta dopo otto interrogatori, tira in ballo una seconda persona nell'affaire. Una perizia grafica dell'epoca, infatti, accertò che le missive dagli States furono vergate dalla stessa mano che aveva spedito i primi messaggi da Roma, attribuibili con certezza ai sequestratori.

CONTROSPIONAGGIO - Il coinvolgimento dell'allora giovanissima moglie dell'indagato è emerso anche grazie alla trasmissione Chi l'ha visto?. In un interrogatorio successivo all'incidente che a fine '83 provocò la morte di un bambino nella pineta di Ostia, Accetti precisò che sua moglie era stata a Boston senza interruzioni dai primi di agosto a metà novembre. Una circostanza che oggi si incrocia con quanto dichiarato nella sua lunga autoaccusa in Procura, vale a dire che nell'estate di trent'anni fa una «ragazza», militante come lui nel «nucleo di controspionaggio» che avrebbe sequestrato la Orlandi, si trasferì a Boston «nell'ambito della stessa operazione». La «moglie» e la «ragazza» erano quindi la stessa persona? «Sì», risponde senza esitazioni al Corriere il supertestimone indagato.

MISSIONE SPECIALE - Un altro tassello della vicenda Orlandi sembra insomma posizionarsi. Nel «gruppo operativo» (formato da ex collegiali come Accetti, elementi dei servizi segreti, malavita romana, ecclesiastici infedeli) che dopo l'attentato a Wojtyla si sarebbe mosso per indurre Agca a ritrattare le accuse di complicità all'Est (in particolare i bulgari), ora appare anche una donna in missione speciale. Ma perché per rivendicare il rapimento fu scelta Boston, città salita nello stesso periodo alla ribalta per lo scandalo dei preti pedofili?

L'OMBRA DI MARCINKUS - Forse perché da quella postazione il «nucleo» di cui parla Accetti poteva giocare su più tavoli e innescare altri ricatti? O per mandare un segnale alla «fazione americana» insediata in Vaticano a meta' anni '80, all'ombra di monsignor Marcinkus capo dello Ior? Saranno le successive indagini, in questa fase cruciale, a chiarirlo, quando ormai mancano pochi giorni al trentennale della scomparsa della sventurata «ragazza con la fascetta».