domenica 8 dicembre 2013

SCANDALO ENI PETRONIM


ENI - PETROMIN, ORTOLANI ACCUSA IL MANAGER PSI
Il finanziere Umberto Ortolani, interrogato ieri dalla seconda Corte d' assise di Roma nell' ambito del processo contro la loggia massonica P2, ha spiegato come avvenne il suo ingresso nella massoneria e i suoi rapporti con Licio Gelli. "Contattai il venerabile nel ' 73", ha raccontato, "avevo bisogno di qualcuno che mi aiutasse a frenare i virulenti attacchi di Mino Pecorelli su Op contro di me. Alcune persone mi indicarono Gelli come l' uomo che mi poteva aiutare". Erano gli anni 70 e su Op infatti, secondo quanto ha detto in aula l' ex banchiere, erano comparsi alcuni articoli in cui si diceva che se l' Argentina voleva salvarsi doveva liberarsi di alcuni uomini, in particolare dello stesso Ortolani. Il quale, ha spiegato ieri, aveva molti interessi in quel paese e tra questi la proprietà di un importante istituto di credito, il ' Banco Continental' . Gelli, secondo quanto è stato detto in aula, prese in considerazione la richiesta d' aiuto di Ortolani ma per agire chiese una controparte: l' avvocato doveva iscriversi a quella che lui definì un' associazione culturale. Ortolani ha detto d' aver aderito alla proposta pur non ignorando che di massoneria si trattava. Nonostante ciò gli attacchi di Pecorelli, anche se meno virulenti, continuarono. Nel corso dell' udienza, sollecitato dal presidente della Corte d' assise, Sorichilli, l' ex banchiere ha raccontato di come una quota della Rizzoli e quindi del Corriere della sera diventò di proprietà dello Ior, la banca vaticana, attraverso l' interessamento di Calvi, sollecitato a sua volta dallo stesso Ortolani. "Andrea Rizzoli venne da me e mi disse - ha dichiarato l' imputato - che stava per scadere il termine entro il quale doveva pagare una forte somma di denaro alla famiglia Agnelli. Una considerevole somma di denaro Ma non aveva i fondi per farlo; perciò io mi impegnai, contattando Calvi, a recuperare i 23 miliardi necessari". Fu in questo modo che una quota del Corriere passò di mano. Da quel momento il quotidiano, secondo quanto ha raccontato Ortolani, cominciò a pubblicare articoli "influenzati da Gelli". Uno di questi riguardava un pesante attacco contro la Fiat e la stessa famiglia Agnelli. Un secondo articolo, firmato da Maurizio Costanzo, raccontava di un "burattinaio" che capiva meglio degli altri quello che stava accadendo in Italia. La persona in questione, di cui Costanzo faceva nome e cognome - ha affermato sempre Ortolani - era proprio Licio Gelli. "Costanzo - ha spiegato l' imputato - agiva così perchè voleva ingraziarsi Gelli in quanto aveva bisogno di soldi per aprire il suo giornale, L' Occhio, che effettivamente fu aperto in seguito, e costò alla Rizzoli molto denaro". Il finanziere è poi passato a parlare a lungo dell' onorevole Rino Formica. "Formica", ha raccontato Ortolani, "chiese a Ruggero Firrao (arrestato in Svizzera e proprio oggi sottoposto a interrogatorio per rogatoria da parte dei magistrati che si occupano delle tangenti sulla Sace) di introdurlo presso di me. Io lo invitai a colazione a casa mia e lui mi chiese 500 milioni per finanziare la sua campagna elettorale. In seguito mi tempestò di richieste e io rifiutai di rivederlo". A conclusione dell' udienza il presidente della Corte ha sollecitato Ortolani a parlare della ' Sophilau' , la società di Panama che fece da mediatrice tra Eni e Petromin (l' ente per il petrolio dell' Arabia Saudita) per la fornitura all' Italia di 91.250.000 barili di greggio. La ' Sophilau' si rivelò in seguito essere una società fantasma che smistava il denaro pagato per la mediazione su conti bancari in Svizzera intestati a sconosciuti. Ieri Ortolani ha ammesso per la prima volta il fatto che ad acquistare la società "era stato un finanziere con il doppio cognome legato al Psi". Interpellato, l' avvocato di Ortolani, Luciano Revel, ha confermato che il suo assistito si riferiva a Mach di Palmstein. Una richiesta a Palazzo Chigi Proprio sulla documentazione consegnata ai magistrati dall' ex presidente della Repubblica Francesco Cossiga in relazione all' affare Petromin la corte ha emesso un' ordinanza con la quale si chiede al presidente del Consiglio se conferma il segreto di Stato sugli omissis che vi sono contenuti. Stamani riprenderà l' interrogatorio del finanziere proprio sull' argomento ' Sophilau' . In serata sono giunte le precisazioni e le smentite delle persone citate nel corso dell' udienza dall' ex finanziere. Maurizio Costanzo ha affermato che "nel 1980 il giornale L' Occhio era uscito da un anno e io non me ne ocupavo più". Non solo. "L' intervista pubblicata dal Corriere, ha aggiunto il presentatore televisivo, era palesemente a Licio Gelli e lui si definiva, in una risposta, ' burattinaio' ". Replica anche dell' onorevole Rino Formica, citato anche egli a proposito di un finanziamento di 500 milioni. "Si tratta di una storia vecchia e già chiusa. Ortolani fece affermazioni di questo genere nel 1980 con una lettera sul Corriere della sera in cui sostenne di avere avuto da me richieste di finanziamento per il Psi e che, sempre su mia richiesta, il Psi non voleva essere lasciato fuori dall' affare Eni-Petromin". "Per queste affermazioni - ha ricordato Formica - Ortolani fu condannato nel 1982 dal Tribunale di Roma a quattro mesi di reclusione per diffamazione aggravata a mezzo stampa nei miei confronti. Prima di arrivare al processo d' appello, Ortolani ritrattò tutto".

Strane storie e mezze verità sulla maxitangente Eni-Petromin
intervista a Donato Speroni di Roberto Paglialonga11 Ottobre 2009
Siamo in una fase di bagarre energetica. Lo Stato vive una forte destabilizzazione istituzionale. I potentati economici si azzuffano e speculano, gli scandali politici sono all’ordine del giorno. Sembra oggi, ma è il 1979. L’Eni firma un megacontratto petrolifero con i sauditi e subito scoppia l’affaire Eni-Petromin. Per assicurarsi il greggio a prezzi vantaggiosi, infatti, è previsto che dagli uffici di San Donato Milanese sborsino una tangente di oltre 100 miliardi di lire, più o meno 400 milioni di euro attuali. Quattro volte la “madre di tutte le tangenti”, quella per la Enimont. Donato Speroni, giornalista di lungo corso, già al Corriere della Sera e vicedirettore de Il Mondo, direttore poi di Capitale Sud, era al tempo direttore centrale dell’azienda del “cane a sei zampe”, e quella vicenda la visse sulla propria pelle. Ha messo insieme i pezzi del puzzle e ne è nato “L’intrigo saudita. La strana storia della maxitangente Eni-Petromin”, uscito pochi giorni fa per Cooper. 
Speroni, si è messo nel filone degli instant book sul malcostume della politica italiana che furoreggiano ultimamente?
«Beh, instant non direi. Ci ho lavorato quindici mesi e sono trent’anni che penso a questo libro, come si può leggere nell’introduzione, liberamente scaricabile dal sito www.intrigosaudita.it . Gli instant book sono leggerini, questo ha la bellezza di 454 pagine...
Io racconto che lo scandalo Eni-Petromin fu innanzitutto un “errore mediatico”. Non un errore giudiziario, perché non ci fu mai alcun processo; ci fu invece un grave errore di valutazione di alcuni giornali che si fecero manipolare da chi era interessato a far scoppiare lo scandalo. Certo fu un episodio di malcostume».
Per l’affare Eni-Petromin però lei parla di “scandalo non scandalo”. Perché rivangare una vicenda di trent’anni fa allora?
«Per due ragioni. Una oggettiva, di giustizia: la memoria collettiva ricorda la vicenda Eni-Petromin come una storia di finanziamenti ai partiti gestita dalla P2 per comprare alcune testate importanti dell’editoria italiana. Io dimostro che non è così, alla luce di testimonianze importanti, che i giudici valutarono decidendo di non dar corso ad alcuna incriminazione, ma che furono sostanzialmente ignorate dai giornalisti perché arrivarono cinque anni dopo, quando quella storia non interessava più a nessuno. La seconda è personale. Trent’anni fa ero uno dei direttori centrali dell’Eni, responsabile dei rapporti con il governo, la politica, i media. Ho vissuto in diretta la decadenza dell’Eni innescata da questa storia, finché non ho deciso di ritornare al giornalismo come vicedirettore al mio giornale, Il Mondo. Su questa vicenda avevo maturato opinioni, ma non certezze. Ho aspettato di avere il tempo per ricostruirla con calma. Insomma, questo per me era un impegno professionale che ho tenuto in serbo per trent’anni». 
Cerchiamo di capire allora. Cosa successe quando Giorgio Mazzanti arrivò alla presidenza dell’Eni?
«L’arrivo di Mazzanti alla presidenza dell’Eni, nel febbraio 1979, coincise con quello di Khomeini in Iran, cioè con la seconda crisi petrolifera. Mazzanti, collaboratore del premio Nobel Giulio Natta, era un tecnico di valore. E lo è ancora, visto che è ancora consulente internazionale a 81 anni. Però ingenuamente non aveva valutato il peso dei condizionamenti partitici sulle partecipazioni statali. Fece delle promesse ai politici, poi cercò di sfuggire alla stretta dei partiti con una strategia “alla Enrico Mattei”, cercando grandi contratti internazionali sul mercato del petrolio. Ma i tempi erano cambiati e gliela fecero pagare». 
Lei scrive che in parte si è trattato di una storia dei segreti di Pulcinella. In dettaglio, per esempio: se la tangente per il contratto con la Petromin venne effettivamente pagata, e tutto fu dichiarato e trasparente, perché tanto clamore?
«L’Italia era in un regime di controlli valutari. La tangente pagata dall’Agip (per conto dell’Eni) alla società panamense Sophilau fu ufficialmente autorizzata dal ministero del Commercio estero. Era una delle 30mila tangenti che all’epoca gli italiani pagavano ogni anno per fare affari all’estero. Però doveva rimanere segreta. Nel momento in cui qualcuno fece circolare il contratto, i politici di tutti i partiti si insospettirono e ciascuno pensò che i soldi andassero ai suoi avversari, visto che lui non vedeva il becco di un quattrino. Anche perché, diciamolo, l’Eni all’epoca finanziava abbondantemente i partiti attraverso le finanziarie estere, come emerse successivamente. Insomma, nessuno voleva credere che ci fosse una tangente “pulita”, che andava davvero ai sauditi. E questa è l’anomalia di questa storia rispetto ai tanti scandali italiani».
E ancora: visto che le “mediazioni” con gli arabi per assicurarsi contratti vantaggiosi erano la prassi, perché da Riad negarono sempre l’esistenza della tangente e il suo pagamento?
«Perché per gli arabi la mediazione era ufficialmente illegale. Le leggi saudite infatti non consentivano intermediazioni su contratti petroliferi. Anche se, come spiegò l’ambasciatore italiano a Riad, Alberto Solera, in realtà erano la prassi anche nel mondo dell’oro nero. Ma anche Solera questa spiegazione potè darla alla Commissione Inquirente del Parlamento soltanto anni dopo, quando era stato trasferito a Berlino... E non dimentichiamo che su tutta questa storia, per proteggere i rapporti con l’Arabia Saudita, in Italia grava ancora il segreto di stato. Trent’anni dopo!». 
Che cosa non sappiamo ancora di quanto accadde con i sauditi?
«Sappiamo che furono loro a gestire la tangente, che la divisero in sei conti svizzeri nessuno dei quali destinato a italiani. Non sappiamo con certezza, ma possiamo supporre, che una parte importante della tangente non andasse a finanziare donne e champagne dei principi in Costa Azzurra, ma fosse destinata ai palestinesi dell’Olp». 
Il terrorismo palestinese…
«La mia ipotesi, che ho scritto prima di intervistare Cossiga ma che il presidente del Consiglio dell’epoca sostanzialmente conferma trent’anni dopo, è che quei soldi servissero almeno in parte a finanziare l’Olp con la connivenza dei servizi segreti italiani, che in quel momento storico, attraverso il colonnello Stefano Giovannone a Beirut, cercavano di rompere la saldatura tra terrorismo palestinese e Brigate rosse». 
Molti però sostengono ancora che quei soldi fossero funzionali a ungere i meccanismi di partiti politici, consorterie, clan.
«In questa storia partiti, consorterie e clan ci sono tutti. Ed è un periodo di grande corruzione, lo stesso periodo dello scandalo del Banco Ambrosiano, della P2, di una involuzione durata quasi 15 anni che finì con il suicidio di Raul Gardini e Gabriele Cagliari, i protagonisti dello scandalo Enimont. C’è da stupirsi che l’Eni abbia potuto risollevarsi e cambiar pelle. Però lo ripeto: ci sono testimonianze che in questo caso i soldi non sono ritornati in Italia, mentre non c’è alcuna prova del contrario».  
In effetti nel suo libro compaiono praticamente tutti i protagonisti della Prima Repubblica: Craxi, Andreotti, Cossiga, Signorile…
«Andreotti da presidente del Consiglio avallò il contratto, poi passò la mano al primo governo Cossiga, che inizialmente difese l’operato dell’Eni, poi cedette alle pressioni dei socialisti sacrificando Mazzanti, inviso ai craxiani perché considerato vicino a Signorile della sinistra socialista. Craxi fu il mattatore che costrinse Mazzanti alle dimissioni. Quando Mazzanti protestò con lui anni dopo, dicendo “mi avete costretto a dimettermi per i vostri giochi politici, ma io sono un tecnico”, Craxi gli rispose gelidamente: “Lei sbaglia, la presidenza dell’Eni è un incarico politico”».
Quando e perché entra in gioco la loggia P2?
«Licio Gelli cercò di sfruttare la situazione per acquisire maggiore potere e riuscì ad irretire lo stesso Mazzanti, quando questi stava per essere fatto fuori dalla presidenza dell’Eni. Ma posso testimoniare (e nel libro racconto come mai) che Mazzanti non conosceva Gelli e non aveva rapporti con la P2 al momento della stipula del contratto. Io sono convinto che in questo caso il burattinaio dello scandalo stava all’estero: qualcuno che mescolò informazioni vere e false e riuscì a muovere a suo piacimento partiti, giornali e anche mestatori di professione come il capo della P2». 
C’era qualcuno interessato a mettere fuori gioco l’Eni quindi?
«A vari livelli. Oltre al Mossad, il servizio segreto israeliano, per ragioni politiche, non gradivano il ruolo dell’Eni in Arabia saudita né i francesi né gli americani che a Riad per ragioni diverse avevano una posizione privilegiata. In Italia invece giocarono contro Mazzanti sia la diffidenza dei democristiani liberisti dell’Arel guidati da Umberto Agnelli e Beniamino Andreatta che non gradivano un rafforzamento di una impresa di Stato, sia le manovre socialiste che sfruttarono alcuni errori formali nella gestione del contratto per cercare di imporre un loro candidato alla guida dell’Eni: un tentativo che continuò ancora per anni, portando alle dimissioni altri tre presidenti dell’Eni che non si piegavano alla loro volontà». 
Insomma, sapremo mai la verità o anche questa storia è destinata a entrare nel lungo elenco dei misteri italiani?
«Una verità mi sembra appurata: Mazzanti era innocente, la tangente non è stata architettata per finanziare i partiti italiani. Più difficile capire chi ha voluto far saltare questo contratto. Forse un giorno, quando si apriranno gli archivi di qualche servizio segreto estero... Ma in Italia, ripeto, la vicenda è ancora coperta dal segreto di Stato».
Da giornalista si trovò dall’altra parte della barricata. Come visse quei momenti?
«Ho cercato di raccontarlo nel libro, mettendo in ogni capitolo, alla fine della ricostruzione che ho voluto fare in modo oggettivo, un paragrafo di testimonianza personale. Probabilmente ero la persona sbagliata, a quel posto, perché proprio il fatto di essere stato giornalista, capo della redazione romana di un settimanale indipendente e aggressivo come Il Mondo di Paolo Panerai, faceva sì che i politici mi guardassero con sospetto. Direi che il sentimento prevalente fu di rabbia e frustrazione, per veder distruggere un grande disegno di rilancio dell’Eni sui mercati internazionali. La stessa rabbia che Giorgio Mazzanti, nell’intervista che gli ho fatto qualche mese fa, confessa di provare ancora adesso...» 
Speroni, allarghiamo lo sguardo. Strategie di disinformazione, pubbliche calunnie, manovre politiche, indagini senza indizi e accuse senza prove… Ha descritto scenari agghiaccianti. E’ cambiato qualcosa da allora?
«Il clima politico e i rapporti tra politica e informazione mi sembrano ancora peggiori di quelli di trent’anni fa. Forse una cosa è cambiata in positivo. I partiti non pretendono più di comandare a bacchetta le imprese nelle quali lo Stato ha una partecipazione. L’Eni ha una sua autonomia e un suo prestigio internazionale. Ma attenti a non tornare indietro!» 
Un’inchiesta in grande stile, “L’intrigo saudita”, costruita in oltre trent’anni di carriera da quel famigerato 1979. Si legge come un thriller di Ian Fleming. Ma è solo la storia d’Italia, almeno in parte.



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