giovedì 11 aprile 2013

ROBERTO CALVI




Il ricatto era l'unico modo che Calvi aveva di salvare la propria vita. Persi i soldi di mafiosi, camorristi e maglianesi non aveva speranza, per questo era diventato un fuggitivo alla ricerca dell'unica cosa che lo avrebbe salvato: la lista dei 500. Una lista ereditata da Sindona e custodita chissà dove fra l'Austria e la Svizzera, una lista cercata anche dai suoi ex amici e padrini (Gelli, lo Ior ed i servizi segreti deviati), una lista tornata nelle mani di chi la usata per ricattare anche negli anni seguenti, una lista capace di uccidere con il caffè e con la corda.


Roberto Calvi 

nacque a Milano il 13 aprile del 1920. Suo padre era un funzionario della Banca Commerciale Italiana. Dopo il diploma in ragioneria si iscrive nel 1939 all'Università Bocconi, presso la quale frequenta la facoltà di Economia e Commercio, dedicandosi nel contempo ad attività politiche: dirige infatti l'Ufficio Stampa e Propaganda dei Gruppi Universitari Fascisti. Non concluderà tuttavia i suoi studi universitari a causa dello scoppio della II guerra mondiale.




 Nel 1940 si arruola in cavalleria (lancieri di Novara), venendo destinato al fronte russo. Al termine del conflitto mondiale Calvi ottiene, in virtù dei buoni uffici del padre, un posto alla Banca Commerciale. Vi rimarrà brevemente, entrando come "impiegato semplice", nel 1947, nel Banco Ambrosiano grazie ai buoni rapporti del padre con uno dei dirigenti della banca, Alessandro Canesi (futuro direttore generale nel 1959 e dal 1965 presidente). Il Banco era una banca privata strettamente legata all'Istituto per le Opere di Religione IOR.


Calvi  con la moglie Clara ed il Papa



Da quel momento iniziò una serie di rapidi avanzamenti di carriera, sotto l'ala protettrice di Canesi. Lavorando nel settore esteri della banca acquisisce una notevole esperienza nell'ambito dei paradisi fiscali. Nel 1958 diviene assistente personale di Canesi. Nel 1960, con la riorganizzazione del settore esteri viene nominato responsabile per le operazioni di carattere finanziario. Calvi "colleziona" posti nei consigli di amministrazione di diverse controllate estere del Banco Ambrosiano. Di lì a dieci anni raggiunse prima la carica di direttore generale nel 1971, poi quella di vicepresidente (1974), infine quella di presidente nel 1975, carica quest'ultima tramite la quale riuscì ad avviare una serie di speculazioni finanziarie per lanciare il Banco Ambrosiano nella grande finanza internazionale. Fondamentali, a questo scopo, le amicizie con membri della loggia massonica deviata P2 (di cui in seguito fece parte) e i rapporti con esponenti del mondo degli affari, della mafia e della politica (sia italiana sia di diversi paesi latino-americani). Nel 1968 conobbe Michele Sindona divenendone socio in affari; nel 1975 Sindona gli presentò Licio Gelli e Calvi entrò nella loggia P2 il 23 agosto di quell'anno.
Licio Gelli
La consacrazione definitiva di Calvi come membro del salotto buono della finanza italiana si concretizza con il suo ingresso nel consiglio di amministrazione della "sua" università, la Bocconi, in qualità di vice-presidente al fianco di Giovanni Spadolini, il quale in verità era molto insofferente di questa ingombrante presenza. Risalgono a quel periodo (1979-1982) donazioni ingenti (nell'ordine delle centinaia di milioni di lire) del Banco Ambrosiano, per mezzo di sue controllate (Banca Cattolica del Veneto e Credito Varesino) all'università. Tali stretti rapporti con il più prestigioso ateneo italiano di economia suscitarono veementi dibattiti e un'interrogazione parlamentare da parte dei Radicali nel 1982.
Michele Sindona
In poco tempo divenne uno dei finanzieri più aggressivi, intrecciando una fitta rete di società fantasma create in paradisi fiscali con lo IOR, la banca vaticana: acquistò la Banca del Gottardo, una banca svizzera; fondò una finanziaria in Lussemburgo, la Banco Ambrosiano Holding; con l'arcivescovo Paul Marcinkus fondò la Cisalpine Overseas, nelle Bahamas; insieme al tecnico
informatico Gerard Soisson (che morì a 40 anni in un Club Méditerranée in Corsica), Calvi ideò un meccanismo di compensazione dei conti fra istituzioni bancarie. Gli obblighi internazionali di riserva frazionaria vennero in questo modo applicati solo al saldo dei crediti tra due banche, a quella delle due che ha il saldo positivo (saldo creditore).
Su richiesta del Vaticano, finanziò «Paesi e associazioni politico-religiose» soprattutto nell'Europa orientale (ad esempio Solidarność) e in America Latina (come i Contras) «allo scopo di contrastare la penetrazione e l'espandersi di ideologie filomarxiste».
In seguito all'inchiesta per il suo omicidio, divenne noto col soprannome di Banchiere di Dio, tanto da ispirare un libro ed un film omonimi.


Paul  Marcinkus
Sindona ospite della famiglia Calvi


Le crisi del Banco Ambrosiano

La prima crisi del Banco risale al 1977. All'alba del 13 novembre Milano si svegliò tappezzata di cartelloni in cui si denunciavano presunte irregolarità del Banco Ambrosiano. Artefice del gesto era stato Michele Sindona, che voleva vendicarsi di Calvi, cui aveva chiesto senza successo i soldi per "tappare i buchi" delle sue banche.
Per alcuni mesi, a partire dal 17 aprile 1978, alcuni ispettori della Banca d'Italia analizzarono la situazione del Banco Ambrosiano e denunciarono molte irregolarità, segnalate al giudice Emilio Alessandrini, il quale venne però ucciso il 29 gennaio 1979 da un commando di terroristi di estrema sinistra appartenenti a Prima Linea. Il 24 marzo il governatore della Banca d'Italia Paolo Baffi e il vice direttore generale Mario Sarcinelli, artefici dell'ispezione, vennero accusati dai magistrati Luciano Infelisi e Antonio Alibrandi di alcune irregolarità e posti agli arresti (domiciliari per Baffi), salvo essere completamente prosciolti nel 1983, in seguito all'accertamento dell'assoluta infondatezza delle accuse mosse a loro carico.
In seguito il Banco si trovò ad affrontare una prima crisi di liquidità, che risolse ricevendo finanziamenti dalla BNL e dall'ENI per circa 150 milioni di dollari, mentre una seconda crisi di liquidità nel 1980 fu risolta grazie a un nuovo finanziamento dell'ENI di 50 milioni di dollari, per ottenere i quali Calvi, come risulta dagli atti processuali, pagò tangenti a Claudio Martelli e Bettino Craxi. Il "castello di carte" dell'Ambrosiano crollò nel 1981 con la scoperta della loggia P2 che lo proteggeva: Calvi, rimasto senza protezioni ad affrontare lo scandalo, cercò l'intervento del Vaticano e dello IOR, ma poco meno di due mesi dopo, il 21 maggio, venne arrestato per reati valutari, processato e condannato.






Tentativo di salvataggio 

Flavio Carboni
In attesa del processo di appello, Calvi fu messo in libertà provvisoria, tornando a presiedere il Banco. Nel Flavio Carboni, un finanziere sardo legato al Gran Maestro Licio Gelli, al boss mafioso Pippo Calò e alla banda della Magliana, con il quale entrò in rischiose operazioni di riciclaggio di denaro sporco; i legami con Carboni molto probabilmente portarono al tentato omicidio di Roberto Rosone, vicepresidente del Banco Ambrosiano al quale era passata la gestione della banca dopo l'arresto di Calvi. Rosone fu vittima di un attentato da parte di Danilo Abbruciati, un boss della banda della Magliana, perché aveva cominciato a tenere ordine nei conti della banca, anche vietando ulteriori crediti senza garanzia concessi a Flavio Carboni. Lo stesso Carboni, durante il processo, ha dichiarato
tentativo di trovare fondi per il salvataggio dei conti, Calvi strinse rapporti con
« Non capisco che interesse potevo avere a fare del male a Calvi. Al contrario, potevo avere l'interesse opposto, visto che mi aspettavo da lui un premio piuttosto consistente » (Corriere della Sera)
La situazione comunque precipitò e Calvi e Carboni cercarono ancora l'intervento dello IOR, che rifiutò di fornire aiuto di fronte ai numerosi fatti criminosi che via via emergevano.


Roberto Rosone


Il giallo della morte

Il 9 giugno 1982 Calvi si allontanò da Milano, giungendo a Roma in aereo, dove incontrò Flavio Carboni, col quale organizzerà la fuga verso l'estero. L'11 giugno il banchiere si diresse a Venezia, per poi raggiungere Trieste, e successivamente la Jugoslavia. Dal paese slavo proseguirà poi per Klagenfurt.
Il 14 giugno Calvi incontrò Carboni al confine con la Svizzera, per poi partire il 15 giugno verso Londra, dall'aeroporto di Innsbruck. Il 16 giugno Carboni partì da Amsterdam per raggiungere Calvi a Londra.
Il 18 giugno venne trovato impiccato da un impiegato postale, sotto il Ponte dei Frati Neri sul Tamigi (51°30′34″N 0°06′16″W) in circostanze molto sospette, con dei mattoni nelle tasche e 15.000 dollari addosso. Fu trovato anche un passaporto con le generalità modificate in "Gian Roberto Calvini". Nelle sue tasche venne ritrovato anche un foglio con alcuni nominativi: quello dell'industriale Filippo Fratalocchi (noto produttore di apparati di guerra elettronica e presidente di Elettronica S.p.A.), del politico democristiano Mario Ferrari Aggradi, del piduista Giovanni Fabbri, di Cecilia Fanfani, dell'amico di Sindona ed ex consigliere del Banco di Roma Fortunato Federici, del piduista e dirigente BNL Alberto Ferrari, del piduista e dirigente del settore valute del Ministero del Commercio Estero Ruggero Firrao e del Ministro delle Finanze del PSI Rino Formica.
Giulio Andreotti
Il 25 giugno si suicida la sua segretaria personale, Graziella Corrocher, lanciandosi dal quarto piano dell'edificio dove ha sede il Banco Ambrosiano.
La magistratura inglese liquidò la morte di Calvi come suicidio, come affermato da una perizia medico-legale. Sei mesi dopo, la Corte Suprema del Regno Unito annullò la sentenza per vizi formali e sostanziali ed il giudice che l'aveva emessa venne incriminato per irregolarità; il secondo processo britannico lasciò aperta sia la porta del suicidio, sia quella dell'omicidio.
Nel 1988 iniziò in Italia una causa civile che stabilì che Roberto Calvi era stato ucciso e impose a un'assicurazione il risarcimento di 3 milioni di dollari alla famiglia. Il 2 febbraio 1989 Clara Canetti, la vedova di Calvi, nel corso di una puntata della trasmissione televisiva "Samarcanda" affermò che il marito le avrebbe confidato che il vero capo della loggia P2 era l'onorevole Giulio Andreotti, il quale lo avrebbe minacciato indirettamente attraverso Giuseppe Ciarrapico in seguito al crack del Banco Ambrosiano e gli avrebbe fatto dei discorsi che lo turbarono: di tali affermazioni però non sono mai stati raccolti riscontri attendibili anche se è accertato che Calvi, prima di partire per Londra dove venne ritrovato morto, incontrò realmente Andreotti e Ciarrapico, che lo invitarono a cena per discutere di alcune divergenze che lui aveva avuto con Orazio Bagnasco, nuovo vicepresidente del Banco Ambrosiano.
Un nuovo procedimento legale sulla morte di Calvi è stato aperto in Inghilterra nel settembre 2003.









Il processo in Italia

Una prima indagine della procura di Milano archiviò il fatto come suicidio. Nel momento in cui, nel 1992, la procura di Roma venne in possesso di nuovi elementi per riaprire il caso come omicidio volontario e premeditato, la Cassazione decise il passaggio della competenza da Milano a Roma.
Il collaboratore di giustizia Francesco Marino Mannoia infatti aveva dichiarato che Calvi e Licio Gelli avevano investito denaro sporco nello IOR e nel Banco Ambrosiano per conto del boss mafioso Pippo Calò, che curava gli interessi finanziari del clan dei Corleonesi. A proposito, Marino Mannoia dichiarò:
« Calvi fu strangolato da Francesco Di Carlo su ordine di Pippo Calò. Calvi si era impadronito di una grossa somma di danaro che apparteneva a Licio Gelli e a Pippo Calò. Prima di fare fuori Calvi, Calò e Gelli erano riusciti a recuperare decine di miliardi e, quel che più conta, Calò si era tolto una preoccupazione perché Calvi si era dimostrato inaffidabile»






Pippo Calò
Nel 1996 Francesco Di Carlo, diventato collaboratore di giustizia, negò di essere l'assassino di Calvi ma ammise che Pippo Calò gli aveva chiesto di ucciderlo ma poi si organizzò diversamente e gli venne detto che «la questione era stata risolta con i napoletani»: infatti, secondo il collaboratore Antonino Giuffrè, i camorristi legati ai Corleonesi (Michele Zaza, i fratelli Nuvoletta ed Antonio Bardellino) si erano affidati pure a Calvi per i loro investimenti e quindi avevano perso denaro anche loro; inoltre, secondo il collaboratore Pasquale Galasso, l'esecutore dell'omicidio di Calvi fu Vincenzo Casillo, membro della Nuova Camorra Organizzata che era passato segretamente dalla parte del clan Nuvoletta e per questo doveva fare un favore a Pippo Calò. Antonio Mancini, esponenente della banda della Magliana divenuto collaboratore di giustizia, dichiarò che Calvi venne ucciso su ordine di Pippo Calò e del faccendiere Flavio Carboni, che costituiva un anello di raccordo tra la banda della Magliana, la mafia di Pippo Calò e gli esponenti della loggia P2 di Licio Gelli.
Casillo esecutore materiale?
L'indagine proseguì con l'ordinanza di custodia cautelare emessa nel 1997 dal gip Mario Alberighi a carico di Pippo Calò e Flavio Carboni, accusati di essere i mandanti dell'omicidio. L'anno successivo, una nuova perizia sulla morte di Calvi, ordinata dal gip Otello Lupacchini, stabilì l'infondatezza dell'ipotesi del suicidio. Il processo penale iniziò il 5 ottobre 2005 in una speciale aula approntata all'interno del carcere di Rebibbia, a Roma. Imputati furono Pippo Calò e Flavio Carboni, accusati di omicidio, Ernesto Diotallevi, esponente della banda della Magliana, Silvano Vittor (contrabbandiere di jeans e caffè) e la compagna di Carboni, Manuela Kleinszig.
L'accusa fece leva sulle circostanze della morte di Calvi per dimostrare la colpevolezza degli imputati (tra cui una telefonata effettuata dalla camera dove alloggiava il banchiere, i tempi
morti nella ricostruzione, etc), sulle difficoltà di accesso per un uomo di 60 anni al luogo in cui er
a stata legata la corda, e su una serie di perizie sul livello del Tamigi. Dall'altro lato, la difesa puntò sulla sostanziale assenza di prove contro gli imputati e sull'assenza di un movente forte per scagionare Carboni e Calò.
La frase "Il Banco Ambrosiano non è mio, io sono soltanto il servitore di qualcuno." pronunciata da Roberto Calvi durante il processo per reati valutari ha lasciato molti dubbi sugli eventi. Delle recenti affermazioni della famiglia di Calvi vorrebbero legare quella frase ad alcuni esponenti del Vaticano e la scomparsa di Emanuela Orlandi (la ragazza scomparsa a Roma nel 1983 e tuttora al centro di un giallo internazionale) a queste vicende.
Silvano Vittor
Nel marzo 2007 il pm Luca Tescaroli, al termine della sua arringa conclusiva, aveva chiesto l'ergastolo per Pippo Calò, già considerato il "cassiere" della mafia, per il "faccendiere" Flavio Carboni, per Ernesto Diotallevi, ritenuto uno dei boss della Banda della Magliana, e per Silvano Vittor, accusato di aver accompagnato Calvi a Londra, di avergli fornito il passaporto falso e di essere stato uno degli esecutori materiali del delitto. Assoluzione piena era stata invece richiesta per la ex fidanzata di Carboni, Manuela Kleinszig.
Ad avviso del pm, tre motivi principali sarebbero stati alla base del delitto: gli organizzatori dell'omicidio ritenevano che il banchiere avesse male amministrato il denaro di Cosa Nostra, sospettavano potesse rivelare i segreti del sistema di riciclaggio messo in piedi attraverso il Banco Ambrosiano e ritenevano, compiuto il delitto, di poter avere maggiore peso negoziale nei confronti di coloro che erano coinvolti con Calvi.
Il capo d'imputazione recitava:
« Gli imputati, avvalendosi delle organizzazioni di tipo mafioso denominate Cosa nostra e camorra, cagionavano la morte di Roberto Calvi al fine di: punirlo per essersi impadronito di notevoli quantitativi di denaro appartenenti alle predette organizzazioni; conseguire l'impunità, ottenere e conservare il profitto dei crimini commessi all'impiego e alla sostituzione di denaro di provenienza delittuosa; impedire a Calvi di esercitare il potere ricattatorio nei confronti dei referenti politico-istituzionali della massoneria, della Loggia P2 e dello Ior, con i quali avevano gestito investimenti e finanziamenti di cospicue somme di denaro »
Il 6 giugno 2007 la seconda Corte d'assise di Roma, presieduta da Mario Lucio d'Andria, ha emesso una sentenza di totale assoluzione per tutti gli imputati per il processo Calvi. Flavio Carboni, Pippo Calò, Ernesto Diotallevi e Silvano Vittor sono assolti ai sensi dell'articolo 530 c.p.p., 2º comma, ossia per insufficienza di prove. Assolta con formula piena invece Manuela Kleinszig, come chiesto dallo stesso PM. Resta aperto invece il secondo filone dell'inchiesta romana, a proposito dei mandanti dell'omicidio, tra i cui indagati figura anche Licio Gelli.
Il 7 maggio 2010 la Corte d'assise d'appello di Roma ha confermato le assoluzioni di Flavio Carboni, Pippo Calò ed Ernesto Diotallevi per l'omicidio del banchiere. Nelle motivazioni della sentenza si legge: “Roberto Calvi è stato ammazzato, non si è ucciso”



Buscetta: "Badalamenti mi disse che il mio figlioccio, Giuseppe Calo' , nel delitto Calvi era coinvolto... mi risulta che Calo' e' stato visto in compagnia di Danilo Abbruciati, quello che va a sparare al vicepresidente del Banco Ambrosiano di Milano, Rosone. Vedi che disegno? Perche' Calo' sta in compagnia di Abbruciati pochi giorni prima della sparatoria?... Non e' affatto impensabile che Calvi abbia avuto soldi mafiosi e ne abbia fatto cattivo uso"


La ricostruzione di Pinotti

Il giornalista Ferruccio Pinotti nel libro Poteri forti (BUR, 2005) ha indagato sulla morte di Calvi, dopo avere ripetutamente ascoltato il figlio di Calvi, che per anni ha ricostruito le vicende legate alla carriera e alla misteriosa morte del padre. Pinotti descrive le operazioni finanziarie con le quali Calvi riuscì a rendere il Banco Ambrosiano padrone di se stesso, così da poterlo gestire in piena autonomia. Operazioni tuttavia che rendono Calvi ricattabile e lo costringono a erogare cospicui finanziamenti a società dipendenti dallo IOR guidato dal vescovo Paul Marcinkus.
Quando si manifestano difficoltà finanziarie, l'Ambrosiano cerca, senza riuscirvi, di recuperare il denaro prestato all'Istituto vaticano, che presumibilmente usa il denaro ricevuto per aiutare in tutto il mondo e in particolare in Polonia gruppi religiosi e politici vicini alla Santa Sede. Calvi allora proverebbe a rivolgersi ad ambienti religiosi vicini all'Opus Dei, che sarebbero stati disponibili a coprire i debiti dello IOR per ottenere maggior peso in Vaticano. Tentativo senza successo, perché ostacolato da quanti, in Vaticano, temono che il potere dell'Opus Dei possa crescere e per impedirlo sono disposti a lasciare fallire il Banco Ambrosiano.
In una lettera del 5 giugno 1982 rilasciata dal figlio diversi anni dopo e pubblicata nel libro di Pinotti, Calvi scrive anche a papa Giovanni Paolo II cercando aiuto:
« Santità sono stato io ad addossarmi il pesante fardello degli errori nonché delle colpe commesse dagli attuali e precedenti rappresentanti dello IOR, comprese le malefatte di Sindona...; sono stato io che, su preciso incarico dei Suoi autorevoli rappresentanti, ho disposto cospicui finanziamenti in favore di molti Paesi e associazioni politico-religiose dell'Est e dell'Ovest...; sono stato io in tutto il Centro-Sudamerica che ho coordinato la creazione di numerose entità bancarie, soprattutto allo scopo di contrastare la penetrazione e l'espandersi di ideologie filomarxiste; e sono io infine che oggi vengo tradito e abbandonato... »
I segreti e gli interessi economici legati alla mancata restituzione da parte dello IOR del denaro ricevuto dal Banco Ambrosiano e connessi alle operazioni finanziarie che lo IOR realizzava per conto di propri clienti italiani desiderosi di esportare valuta aggirando le norme bancarie sarebbero quindi all'origine della decisione di uccidere Roberto Calvi, che, disperato e temendo di finire in carcere, avrebbe potuto rivelare quanto sapeva ai magistrati.




IL FIGLIO DI CALVI: “LA CHIAVE DEL GIALLO NELLO SCANDALO IOR”


Il banchiere rivelò: “Chi ha colpito Wojtyla ora mista facendo la guerra”. 
di ANNA MARIA TURI
Calvi con il figlio
L'anniversario dell'attentato a Giovanni Paolo II segna un mistero lungo vent'anni. Dal 13 maggio 1981, tre
inchieste della magistratura, e nessuna risposta all'interrogativo sui mandanti di un crimine senza precedenti nella storia moderna.
Ma ecco giungere dalla Turchia le dichiarazioni di Orai Celik, boss mafioso che dava ordini ad Agca nella sua lunga marcia verso piazza San Pietro: né l'Est, né l'Ovest - dice il lupo grigio — hanno complottato ai danni di Wojtyla, perché i mandanti vanno ricercati in certi ambienti vaticani, sostenuti da ambienti dei Servizi segreti italiani.
E' bene ricordare che all'epoca il Vaticano doveva risolvere il problema del colossale “buco” nelle sue finanze, createsi per l'aggrovigliata storia dei suoi rapporti con il Banco Ambrosiano di Roberto Calvi. E’ perciò a Carlo Calvi, figlio del banchiere assassinato a Londra il 18 giugno 1982, che chiediamo di parlarci dei retroscena a sua conoscenza riguardanti quei crimini e di quanto, eventualmente, è rimasto finora sepolto nel patrimonio dei ricordi di famiglia.
Dottor Calvi, torniamo alla fine degli anni Settanta e agli inizi degli anni Ottanta, fitti di delitti e di misteri, i cui nodi sono ancora da sciogliere. Per la parte che ne ebbe suo padre, lei cosa ne sa?
«L'omicidio di mio padre, come l'attentato al Papa dell'anno prima, servirono a scongiurare la rivelazione dei rapporti tra politica, economia e crimine. Quando più violenta si fece la pressione esercitata su mio padre affinchè mantenesse il segreto sull'uso che si faceva dell'Ambrosiano, e quindi dello IOR, per finanziare attività politiche e progetti occulti, lui pensò di difendersi informandone il nuovo Papa. E lo fece all'insaputa di tutti, anche di Marcinkus. Giovanni Paolo II, una volta eletto, fu per qualche tempo all'oscuro delle attività coperte dei due Istituti, mentre papa Montini ne era stato sempre perfettamente al corrente. Così papa Wojtyla venne informato da mio padre del complesso meccanismo di triangolazione chiamato "conto deposito", che consentiva al Banco Ambrosiano di Nassau di finanziare lo IOR tramite la panamense United Trading Company con conto presso la Banca del Gottardo di Lugano».
A questo punto iniziò una guerra a Calvi e al Papa?
«Esattamente. Io allora vivevo a Washington e mi sono rimasti particolarmente impressi gli incontri con mio padre che a volte, per raggiungermi, rimandava impegni importantissimi. Lo scopo era di trasmettermi il senso del pericolo incombente sulla nostra famiglia. A me, a dir la verità, quei presagi allora sembravano esagerati. Ma poco prima dell'attentato al Papa, mio padre volle che ci ritrovassimo tutti insieme in Svizzera: e fu allora che lui, fortemente preoccupato per la nostra incolumità, fece pressioni affinchè anche mia madre e mia sorella lasciassero l'Italia».
A lei raccomandava di guardarsi da qualcuno in particolare?
«Da Umberto Ortolani, per esempio, cui attribuiva un potere sinistro, e dal suo giro. Dopo il 13 maggio, mio padre cominciò le pratiche per trasferire mia madre e mia sorella in Canada».
Lei dunque sostiene che i mandanti dell'attentato al Papa e quelli che, un anno dopo, uccisero suo padre furono gli stessi?
«Esattamente. Concordo, in questo, con le dichiarazioni di Oral Celik. Molti si sentivano assediati da un Papa che ormai “sapeva”».
Ma suo padre, all'indomani del 13 maggio, accennò ai nomi dei presunti mandanti?
«Mio padre era un uomo riservato. D'altro canto, si guardava bene dal renderci depositari di verità particolarmente scottanti. Comunque, sì, li collocava all'interno del Vaticano, lacerato dalle lotte di potere,dove i rapporti, esasperati, assumevano forme di vera e propria violenza».
Prima che si accasciasse sotto i colpi di Ali Agca, quali pensieri avevano angustiato il Santo Padre al quale, come lei ci dice, Roberto Calvi parlava da solo e in confidenza?
«Lo angustiavano appunto le divisioni, le lotte, e le posizioni ideologiche e di potere da cui traevano origine».
E il debito?
«Il Papa non era afflitto tanto dal debito in sé».
Suo padre le disse chiaramente: “Hanno colpito il Papa gli stessi che stanno facendo la guerra a me”?
«Sì, inquadrò gli eventi nello stesso contesto in cui avvenivano gli episodi di aggiotaggio miranti a colpire lui personalmente. Stesso contesto, stessa regia».
Francesco Pazienza
A soli sei giorni dall'attentato, un rapporto dei servizi segreti italiani menzionava fatti e circostanze che misero gli inquirenti sulla pista dell'Est.
«Ricordo che all'indomani di quel 13 maggio '81,Francesco Pazienza corse da me alle Bahamas e, invitandomi a cena la sera stessa del suo arrivo, non fece che parlarmi dell'attentato, suggerendo,ambiguamente, quella che sarebbe diventata la pista bulgara».
Parliamo degli esecutori materiali. I magistrati hanno scoperto tracce dei contatti tra Agca e la mafia siciliana. La polizia ha accertato che il turco, pochi mesi prima dell'attentato, soggiornò a Palermo dove giunse dalla Tunisia. Adesso Celik svela che nel capoluogo siciliano avvennero contatti determinanti per l'esecuzione dell'attentato. Questo le fa venire in mente qualcosa?
«Mi fa venire in mente l'impiego del crimine organizzato, per esempio, nell'attentato a Roberto Rosone, direttore generale dell'Ambrosiano, da parte di Danilo Abbruciati, boss della banda della Magliana. La caratteristica della banda era di accomunare criminali e terroristi, come gli "espatriati" di estrema destra a Londra, legati al mondo degli antiquari».
Il 20 maggio '81 suo padre è arrestato nella casa di Milano. Il 10 giugno inizia il processo per il crac dell'Ambrosiano. Allora lui comincia a rivelare parte dell'intreccio che lega i due Istituti. Questo ne prepara la fine?
«Voglio che si sappia che la rogatoria che prese le mosse il 20 maggio fu una vera e propria pallottola assimilabile a quella dell'attentatore, in tutti i sensi. Certamente vi furono anche altre cause della tragedia di mio padre, il quale in quel periodo cercava interlocutori, per sé e per lo IOR, per salvare la sua Banca e l'Istituto vaticano, e per quest'ultima li cercava in quanti erano più vicini alle posizioni ideologiche del Papa. Fino a quel momento la Banca vaticana era stata una torre impenetrabile, ma il processo l'aveva resa penetrabile. Ora l'Opus Dei prometteva un suo intervento per ridurre la posizione debitoria dell'Istituto; in cambio, ovviamente, di un aumento del peso della sua influenza su di esso».
Fonte: La Repubblica, 12 maggio 2001




LA MORTE DI PAPA LUCIANI E IL BANCO AMBROSIANO


In nome di Dio. La morte di Papa Luciani (titolo originale In God's Name: An Investigation into the Murder of Pope John Paul I) è un saggio di David A. Yallop sulla morte improvvisa di Papa Giovanni Paolo I.
Venne pubblicato nel 1984 dall'editore Bantam Books; da allora, ha venduto 6 milioni di copie ed è stato tradotto in 30 lingue.
L'autore propone la teoria secondo la quale il papa era in "potenziale pericolo" a causa della corruzione esistente nell'Istituto per le Opere di Religione (IOR, Istituto di Opere Religiose, la più potente istituzione finanziaria del Vaticano, comunemente nota come la Banca del Vaticano), la quale deteneva un grosso pacchetto azionario del Banco Ambrosiano. Secondo quanto riportato nel libro di Yallop, la Banca Vaticana perdette una forte somma nel fallimento dell'istituto bancario milanese.
Yallop inserisce fra i sospettati l'arcivescovo John Patrick Cody di Chicago, che secondo lui papa Luciani era sul punto di sollevare dal governo dell'arcidiocesi di Chicago e il cardinale Jean-Marie Villot a causa delle sue presunte differenze teologiche rispetto al pensiero del nuovo papa.






Sabrina Minardi : sono stata con Calvi e Marcinkus







Gianluca Di Feo per "L'espresso"
Trent'anni fa era la ragazza che la Roma del potere sognava di portarsi a letto. Giovanissima, di una bellezza particolare che non tradiva volgarità; aveva sposato il calciatore più famoso, il campione laziale Bruno Giordano, prima di darsi alla vita e diventare la compagna del boss più ricco, Renato De Pedis, il "Dandi" di "Romanzo Criminale".
Tra il 1981 e il 1983 Sabrina Minardi è passata dai salotti e dalle camere da letto dove si confondevano sacro e profano, banchieri e mafiosi, cardinali e faccendieri, in un delirio di soldi facili, cocaina e violenza che scandivano l'Italia delle trame: dalla Banda della Magliana al Banco Ambrosiano, dalla P2 ai misteri dello Ior. Lei faceva perdere la testa ai protagonisti di questa capitale immorale, fino a diventare una stella nel sistema di piaceri, favori e ricatti: una leggenda delle notti romane, interpretata sullo schermo dal fascino malizioso di Anna Mouglalis.
Adesso Sabrina Minardi mostra tutti i segni di una vita bruciata, tra droga e sfruttamento: lo sguardo che seduceva padrini e padroni si è spento da tempo. Ma lei è convinta di custodire tanti altri ricordi di un passato che ancora pesa: memorie che tira fuori a fatica, spesso in modo frammentario o contraddittorio; altre volte invece offrendo dettagli e riscontri che trasformano le sue parole in indagini penali. È stata lei, ad esempio, a fornire una nuova pista per la scomparsa di Manuela Orlandi, la figlia quindicenne di un funzionario vaticano sparita nel 1983, accusando proprio Renatino De Pedis.
Adesso in un libro-intervista con la giornalista Rai Raffaella Notariale ("Segreto Criminale" edizioni Newton Compton) apre altri capitoli del suo personale romanzo criminale. Descrive una relazione con Roberto Calvi, il banchiere milanese dagli occhi di ghiaccio, tanto a suo agio tra i libri contabili quanto incauto nei rapporti romani, che lei sostiene di avere conquistato con una scena da racconto erotico in stile Emanuelle: "Mi telefonò e mi disse: "Senti, ti posso vedere un attimo?".
Gli rispondo: "No, guarda, sto a casa, non esco". E lui che non mollava: "Ma vengo sotto casa! Puoi scendere due minuti?". "Vabbè..." Nel giro di poco lui era già sotto casa mia. Ho preso e sono scesa con la vestaglia: in quel periodo io non sapevo che cosa fosse il senso del pudore. Comunque, questo si è presentato con la Limousine, quella con il terzo scompartimento, per capirci. E io sono salita con la vestaglietta, le ciabattine. E niente...".
I due si erano conosciuti la sera prima. Sabrina Minardi spiega che l'incontro era avvenuto a casa di Flavio Carboni, da trent'anni il faccendiere per antonomasia, che ha sempre negato qualunque rapporto con la donna. Lei però vuole rendersi credibile e al registratore di Raffaella Notariale sciorina dettagli sugli appartamenti e sulle garçonniere di Carboni.
Per tornare a parlare di Calvi: "Avevamo una relazione. Ma non standard. Era veramente molto cerebrale. Non c'è quasi mai stato sesso. C'è stato una volta durante i nostri momenti di perdizione. Non mi va di dire cosa succedeva, davvero... Roberto per me era una figura bella, chiara, pulita".
Che la Magliana abbia giocato pesante nelle sorti dell'Ambrosiano è storia provata. Un commando romano tentò di assassinare Roberto Rosone, il numero due del Banco che si opponeva a Calvi, ma la reazione di un vigilante fece fallire l'agguato lasciando sul pavè milanese il corpo di Danilo Abbruciati. Che Sabrina abbia conosciuto il banchiere invece non è provato. Nel processo per la fine di Calvi sotto il ponte londinese dei Frati Neri era prevista la sua deposizione, ma la Corte ha poi preferito soprassedere.
Lei però ricorda: "Lui mi ha regalato una villa a Montecarlo. Gli serviva una prestanome, sia chiaro, ma poi la villa è rimasta a me, per questo dico che me l'ha regalata. E mi ha prestato l'aereo per portare mamma a Parigi dove faceva chemioterapia. E poi mi riempiva di gioielli e cose così. Cose belle, ma è durata poco perché per lui era un periodaccio. A distanza di qualche mese, nemmeno un anno, è stato trovato morto".
Sabrina Minardi non accetta la definizione di prostituta: "Una prostituta sta sul marciapiede o in una casa e ti fa il lavoro per pochi spiccioli. Io mi divertivo, facevo la bella vita, vestivo Coco Chanel, Armani, mica ero l'ultima delle femmine. Uscivo tutte le sere o giù di lì. Uscivo tutte le volte che mi andava, frequentavo i migliori ristoranti e i più esclusivi night di Roma, in cambio del mio corpo ricevevo soldi a palate, vacanze, auto, gioielli, case. Calvi mi regalò una villa a Montecarlo. Quale prostituta può vantare le stesse cose? Loro sì che fanno una brutta vita, poverette. La mia era meno brutta, tutto sommato".
Oggi la donna del Dandi è appena uscita da un periodo di detenzione, scontato in una comunità di recupero. E torna a parlare dell'altro fronte del suo mondo di intrallazzi: quello vaticano."Monsignor Marcinkus? Certo che l'ho conosciuto... Non so che cosa gli avessero detto al monsignore, se gli avevano detto o meno che ero una tipa allegra e carina con chi era generoso, insomma, ma lui voleva stare con me... E io ci sono stata. Però, evidentemente, Flavio (Carboni, ndr.) gli aveva parlato di me, gli avrà forse detto che ero di facile reputazione, perché lui, il pretaccio, fu molto diretto. Non usò preamboli". È l'inizio di un'altra frequentazione. In cambio di cosa? "Ha fatto entrare un cugino di mia madre a lavorare in Vaticano. Dalla sera che gliel'ho chiesto, la mattina già era assunto. E... soldi, soldi, soldi, soldi, soldi, soldi... Ma tanti, eh!".
Quattrini che intascava e altri che consegnava al numero uno dello Ior per conto di De Pedis. "Renato mi dava borsoni di soldi per Marcinkus. Metteva sempre tutti i soldi nelle borse Louis Vuitton. Era fissato più di una donnina tutta fashion con le Vuitton. E io andavo da Marcinkus a presentargli un'amica e a portargli il borsone. Ma glielo svuotavo, sai? Mica sono scema. Gli lasciavo i soldi, ma la borsa me la tenevo. Pensa a quant'ero piccola e scema. Invece di prendermi una manciata di soldi, che nessuno se ne sarebbe accorto tanti erano, mi prendevo il borsone firmato". A che servivano tutti quei soldi?"A farne altri...".
Nelle frasi della Minardi ci sono altri prelati, i più alti dell'epoca: i cardinali Agostino Casaroli e Ugo Poletti. Il loro ruolo appare però sfocato, confuso in un vortice di festini dove alla fine sembra essere la cocaina a dominare anche i ricordi. Solo su Poletti c'è una scena dettagliata: "Il cardinale stava molto, molto, molto in confidenza con Renato. Grandi sorrisi, chiacchieravano amabilmente. Si misero a chiacchierare pure in disparte, mi ricordo ancora le mosse di Renato: si metteva le mani in faccia, a coprire la bocca, mentre parlava. Quando doveva parlare di cose serie e c'era gente faceva così: non si fidava neanche dei muri". Un racconto incredibile? In questa storia assurdo e reale si sovrappongono spesso: Renato De Pedis fu assassinato nel 1990 e sepolto in una cripta della Basilica di Sant'Apollinare, grazie al nulla osta del cardinale Poletti.




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