venerdì 26 aprile 2013

CIRO CIRILLO






Ciro Cirillo

(Napoli, 1921) è un politico italiano.
Il 27 aprile 1981, all'epoca del suo mandato da assessore regionale ai lavori pubblici in Campania, Cirillo venne sequestrato dalle Brigate rosse a Torre del Greco. Il suo sequestro, durato 89 giorni, fu al centro di durissime polemiche: a differenza del sequestro Moro, infatti, la Democrazia Cristiana optò per la trattativa con i terroristi.
La sua liberazione avvenne tramite intrecci mai del tutto chiariti, che videro probabilmente anche la mediazione di Francesco Pazienza, faccendiere legato ai servizi segreti, e Raffaele Cutolo, capo della Nuova Camorra Organizzata: per quella vicenda l'ordinanza del giudice Alemi nel 1988 chiamò in causa anche Antonio Gava.


Il rilascio




"La mia verità è dal notaio" "Ho scritto tutto, si saprà dopo la mia morte. Non voglio farmi sparare a ottant'anni"





di GIUSEPPE D'AVANZO TORRE DEL GRECO - 
Si è appena seduto e subito la mette giù, bella chiara: "Signore mio, glielo dico subito, io non le racconterò la verità del mio sequestro. Quella, la tengo per me, anche se sono passati ormai venti anni. Sa che cosa ho fatto? Ho scritto tutto. Quella verità è in una quarantina di pagine che ho consegnato al notaio. Dopo la mia morte, si vedrà. Ora non voglio farmi sparare - a ottant'anni, poi! - per le cose che dico e che so di quel che è accaduto dentro e intorno al mio sequestro, dopo la mia liberazione...". 
Alle 21,45 del 27 aprile 1981 nel garage di via Cimaglia a Torre del Greco, Napoli, le Brigate Rosse sequestrano l'assessore regionale all'Urbanistica, Ciro Cirillo. Cinque persone lo attendono nell'oscurità e quando ne vengono fuori stanno già sparando. Muoiono Luigi Carbone, agente di scorta, Mario Cancello, autista. Ciro Cirillo fu prigioniero delle Brigate Rosse per ottantanove giorni.
"Mi tenevano in una casetta di legno all'interno di un appartamento. C'era un lettino e un wc chimico. Ogni sera - ricorda Cirillo - arrivava il fiorentino, quel Senzani, e cominciava a soffocarmi di domande. C'era stato il terremoto, la Dc mi aveva messo alla testa della commissione tecnica per la ricostruzione e Senzani voleva da me "i piani". Dove tieni "i piani"? Ce li hai a casa? Andiamo a prenderli! Come se i piani fossero già pronti. Che gli dovevo dire? Che io nemmeno volevo fare l'assessore all'urbanistica? Era vero, finii lì controvoglia, a sapere che cosa mi sarebbe successo... Dunque, quello mi interrogava e io rispondevo il meno possibile. Facevo il fesso. Tu, mi diceva Senzani, sei il punto di riferimento di questo regime e io non capivo nemmeno di quale regime parlasse. Mi diceva: noi abbiamo visto che, con l'uccisione di Aldo Moro, non abbiamo avuto il rivolgimento che ci aspettavamo e abbiamo deciso di cambiare area, obiettivo e metodo. Il metodo era di cavare i soldi di un riscatto dal mio sequestro. Cominciarono a chiedermi quanti soldi avessi. Io, di soldi, non avevo poi tanti. Sì e no, una cinquantina di milioni al Banco di Napoli. E gli amici? - mi chiedevano i brigatisti - Quanto ti possono dare gli amici politici, gli amici imprenditori? Ma quali imprenditori, dicevo io...".
Negli atti, non è questa la storia. Ciro Cirillo indica ai figli gli "amici" che gli devono un favore. Per quel tale mi sono "interessato", a quell'altro ricordategli dell'appalto, a quell'altro poi ditegli di quel mio "intervento". Ciro Cirillo nella "casetta di legno" butta giù una lista di nomi. Albino Bacci, Bruno Brancaccio, Italo Della Morte, Michele Principe, presidente della Stet... Sono lunghe quelle notti nella casa di Antonio Gava sulla collina di Posillipo. Don Antonio li convoca. Gli imprenditori accorrono e si sistemano intorno al tavolo nel Cubo. Il Cubo è bianco, gigantesco, piazzato al centro del salone e protetto da due porte scorrevoli. Antonio Gava di tanto in tanto si allontana per ricevere un giornalista, per parlare con il presidente del Consiglio Arnaldo Forlani e li lascià lì a far i conti di quel possono dare o devono dare. Tutti gli imprenditori edili napoletani che avevano partecipato al sacco della città negli Anni Cinquanta e Sessanta, legati a cappio doppio alla Dc di Antonio Gava, mettono mano al portafoglio e partecipano alla "colletta". Saranno ripagati per quel gesto di solidarietà e si taglieranno, al momento opportuno, una bella fetta nella torta della ricostruzione.
Ciro Cirillo ha bevuto il suo caffè. Ora si guarda intorno soddisfatto mentre si sistema più comodamente nell'angolo del divano. "Sa che cosa mi chiedo qualche volta? Mi chiedo: "A chi devi ringraziare, Ciro?". Sa come rispondo?. "Ciro, tu non devi ringraziare nessuno perché - glielo voglio dire - quelli là, gli imprenditori mica hanno fatto grandi sacrifici. Glien'è venuto solo bene ad aiutarmi. Tanto bene e tanti affari".
I soldi degli imprenditori era necessari, ma non potevano essere sufficienti. Chi avrebbe convinto i brigatisti a intascare il denaro e a lasciar libero il prigioniero? C'era un solo uomo che aveva quel potere, pensano i dorotei. Quell'uomo era in carcere ad Ascoli Piceno e si chiamava Raffaele Cutolo, capo della Nuova Camorra Organizzata. A sedici ore dal sequestro, nel carcere di Ascoli Piceno si presenta un uomo del Sisde. E' solo la prima di una lunga teoria di visite illegali, non autorizzate, segrete. Dinanzi al camorrista sfileranno spioni, camorristi latitanti, "ambasciatori" delle Brigate Rosse, "due uomini politici di livello nazionale". Cutolo fa il prezioso, si lascia pregare e implorare. Chiede sconti di pena per i suoi, per sé perizie psichiatriche per venir fuori dalla galera, vuole appalti della ricostruzione a vantaggio delle imprese che controlla e qualche miliarduccio per la mediazione. Gli dicono: "Tranquillo, entro due o tre anni uscirai...". Cutolo ricorda: "Mi è stato promesso che sarei uscito dal carcere. Mi fecero balenare la possibilità formale della scarcerazione...". Incassato il "premio" per il presente e assicurazioni per il futuro, il camorrista offre alle Br "soldi, armi e una lista di indirizzi per eseguire le condanne a morte di magistrati antiterrorisimo e un elenco di esponenti delle forze dell'ordine". Quel che soltanto nel 1978 la Dc e lo Stato si erano rifiutati di accettare per uno statista del livello di Aldo Moro, decretandone - come sostiene oggi Francesco Cossiga - la morte, va in porto per Ciro Cirillo. Il riscatto venne pagato. Senzani intasca su un bus di Roma 1 miliardo e 450 milioni. Cutolo sdegnato dice di aver rifiutato la tangente. I suoi lo contraddicono: "Si mise in tasca una cifra che oscillò tra i 2 miliardi e 800 milioni al miliardo e mezzo". All'alba del 24 luglio 1981, Ciro Cirillo viene rilasciato in un palazzo abbandonato in via Stadera a Poggioreale.
Ciro Cirillo non appare imbarazzato. Non c'è nessun incertezza nella sua voce, nessun dubbio nelle sue parole. Si attende la domanda. Deve essere una domanda che in questi venti anni si sarà sentito fare mille volte. Ha imparato a fronteggiarla anche se, a quanto pare, sembra gradirla come una pernacchia. "Ora a questo punto, signore mio, lei mi chiederà: perché per Moro la fermezza e per lei la trattativa? Me la faccia. So che deve farmela. E allora me la faccio da solo perché conosco la risposta: la Dc non poteva tollerare altro sangue, non avrebbe sopportato un altro esponente di prima fila morto ammazzato dai terroristi. Così il segretario del partito Flaminio Piccoli e il mio amico Antonio Gava decisero di darsi da fare. Non creda alla chiacchiere sulla trattativa con Cutolo. Fu Cutolo a farsi avanti. Gli affari della camorra, con tutta quella polizia nelle strade, stavano andando a rotoli. E allora meglio offrire un aiuto e darci un taglio a quella storia". Ciro Cirillo dice proprio così, lo dice con una soddisfazione che gli fa luccicare gli occhi.
Le Br non dissiparono il gruzzolo del riscatto. Si armarono meglio. Uccisero. Nel primo anniversario del sequestro di Cirillo, il 28 aprile 1983, ammazzarono Raffaele Delcogliano, assessore campano alla formazione professionale. Lo uccisero con il suo autista, Aldo Iermano. Il 28 luglio 1982, spararono in faccia al capo della squadra mobile di Napoli, Antonio Ammaturo e al suo autista, Pasquale Paola. Assaltarono due caserme dell'Esercito. Ci rimisero la vita un soldato di leva, Antonio Palumbo, e due agenti di polizia, Antonio Bandiera e Mario De Marco. Nella camorra per due anni si scatenò la più violenta guerra della sua storia scandita da mille morti all'anno. I rivali di Cutolo videro nel patto stretto dal camorrista con i politici e gli imprenditori una definitiva minaccia per il loro potere e affari e partirono all'attacco sterminando sistematicamente gli uomini della Nuova Camorra Organizzata, minacciando i dorotei campani per goderne dei favori, assediando gli imprenditori per sciogliere il nodo che li legava a Cutolo.
"Se vuole sapere come andò dopo, glielo dico...". Ciro Cirillo è un fiume in piena. "La verità è che io sono stato umiliato, mortificato. Perché? E me lo chiede. Ero sulla cresta dell'onda. Sarei diventato ancora presidente della Regione. Avrei gestito la ricostruzione della regione. Sarei stato eletto in Parlamento. Avrei fatto il ministro. Beh, quanto meno il sottosegretario. Invece accadde che dopo la liberazione mi fecero sapere che era meglio che non mi facessi più vedere alle riunioni di partito. Nomi non ne faccio, no. Sono personaggi in auge e nomi non ne faccio. Comunque, uno di questi signori mi avvicina e mi dice: "Ciro, con la tua presenza nuoci al partito...". Capito, a me che per un soffio non ero stato accoppato dalle Br, dicono: fatti più in là, sparisci. No, non li odio. Certo, non posso considerare i Popolari di oggi dei miei amici.
Il 16 marzo 1982 l'Unità pubblica in prima pagina la notizia che per la liberazione di Cirillo erano stati coinvolti i vertici dei servizi segreti e il capo della camorra Cutolo. E' la verità sostanziale affondata dalla falsità del documento che la raccoglie. Lo scoop è l'inizio della più imponente operazione di cancellazione di prove e di morte di testimoni che abbia mai funestato un caso politico-giudiziario. Muoiono i latitanti che trattarono dentro e fuori il carcere per conto di Cutolo. Muoiono gli ufficiali dei servizi segreti che accompagnarono la trattativa. Muore l'avvocato di Cutolo che faceva da messaggero. Muore l'ambasciatore delle Brigate Rosse. Muoiono suicidi i compagni di cella del camorrista. Le Brigate Rosse si incaricano di ammazzare Antonio Ammaturo che aveva ricostruito la vicenda in un dossier spedito al Viminale e scomparso per sempre. Nonostante le difficoltà, il giudice istruttore Carlo Alemi, il 28 luglio 1988 deposita la sua ordinanza di rinvio a giudizio e scrive delle trattativa e del "patto scellerato" stretto dalla Dc con la camorra. Antonio Gava è il ministro degli Interni della Repubblica nel governo presieduto da Ciriaco De Mita. Che tuonerà: "Alemi è un giudice che si è posto fuori del circuito istituzionale". (Alemi è un uomo gentile e riservato. E lo è rimasto anche dinanzi alla persecuzione e i processi disciplinari che ha dovuto subire per quella sua indagine. Oggi è presidente del Tribunale di Santa Maria Capua Vetere).
E' a suo agio Ciro Cirillo quando parla del processo. "Quello non era un processo, fu un tentativo di mettere in difficoltà il mio amico Antonio Gava. Lei sa che cosa disse la sentenza? Disse: "E' stato impossibile accertare la verità". Vede che quei quaranta fogli che ho lasciato nella cassaforte del mio notaio, prima o poi, torneranno utili? 

(12 aprile 2001)







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