lunedì 30 dicembre 2013

SANTO SORGE


albergo delle palme palermo riunione mafia genco russo

Santo Sorge nacque a Mussomeli, 11 gennaio 1908, viene ritenuto uno dei grandi "sconosciuti" della mafia siciliana e americana.
La sua attività criminale è associato ai crimini commessi dalla famiglia Bonanno. È stato buon amico di "Lucky" Luciano ed ha rappresentato un sicuro collegamento tra la mafia siciliana e quella nord-americana nel dopo guerra.
Sorge era un parente del boss mafioso siciliano Giuseppe Genco Russo e conosceva bene Calogero Vizzini . I suoi primi problemi con la autorità giudiziaria risalgono al 1928 nella sua città natale Mussomeli per rissa e lesioni personali gravi . Le furono respinte quando il contadino che lo accusava ritrattò, offrendo le sue scuse per aver causato problemi. Nel 1932 è stato condannato a Parigi (Francia) a sei mesi di carcere e una multa di 1.200 franchi francesi per uso di passaporto falso. Un anno dopo fu condannato a Gand (Belgio) a cinque mesi e 20.000 franchi belgi per frode.
Altre condanne per frode e assegni seguiti in Palermo nel 1937 e nel Torino, nel 1939. Nel 1948 è stato condannato a tre anni e quattro mesi su accuse vaghe per 'cospirazione politica' a Firenze (probabilmente legati allo spionaggio). Nel frattempo si è trasferì negli Stati Uniti.
Divenne cittadino naturalizzato degli Stati Uniti  a New York City, mantenendo un'immagine rispettabile in America, attraverso incarichi di amministratore in società di facciata come Rimrock International Oil Company di New York e l' Foreign Economic Research Association.

Tenente di Luciano
Era considerato un luogotenente di Lucky Luciano nel post seconda guerra mondiale per l'eroina-business, traffico di eroina prodotta in Francia da gangster corsi verso gli Stati Uniti. L' oppio necessario per produrre l'eroina erao coltivato in Turchia e Iran; trasformato in morfina base, poi trasportato dalla Siria in Libano . Da Beirut , in Libano, o di Aleppo , in Siria, la base di morfina veniva spedito ai laboratori clandestini in Francia per la conversione in eroina. 
Sorge, era un uomo con una buona educazione, probabilmente il responsabile della gestione del denaro. Grazie alla sua amicizia con Genco Russo, aveva le giuste contatti politici ad alto in Italia, anche tra membri del governo. Ha usato aziende negli Stati Uniti, Sicilia e Panama.

Incontro al Grand Hotel delle Palme 
Palermo chiude l Hotel  delle Palme   ospito  summit di mafia
Grand Hotel delle Palme oggi
Sorge era presente a una serie di incontri tra mafiosi americani e siciliani che hanno avuto luogo a Palermo tra il 12-16 ottobre 1957, presso il Grand Hotel Delle Palme a Palermo . Joseph Bonanno, Lucky Luciano, John Bonventre, Frank Garofalo e Carmine Galante tra i mafiosi americani, mentre tra i siciliani c'erano Salvatore "Ciaschiteddu" Greco e suo cugino Salvatore Greco "L'Ingegnere", Giuseppe Genco Russo, Angelo La Barbera , Gaetano Badalamenti, Calcedonio Di Pisa e Tommaso Buscetta . 
Secondo alcuni, uno dei principali temi all'ordine del giorno fù l'organizzazione del traffico di eroina a livello internazionale. L' FBI crede che questo incontro abbia istituito il traffico di eroina della Famiglia Bonanno.


Incriminato 
Nell'agosto 1965, Sorge ed altri 16 associati alla mafia americana sono stati incriminati a Palermo dal giudice Aldo Vigneri per associazione a delinquere in relazione all' incontro del 1957;insieme a Joe Bonanno, John Bonventre, Carmine Galante, Gaspare Magaddino, John Priziola , Raffaele Quasarano , Frank Coppola e Joe Adonis. Sorge non è mai stato arrestato, anche se l'Italia ha chiesto la sua estradizione. Il caso contro l'imputato è stato respinto per insufficienza di prove nel giugno 1968.
Il giudice Vigneri aveva ascoltato il pentito Joe Valachi , che gli disse:. "So Santo Sorge e so che appartiene a Cosa Nostra è la mia conoscenza personale che la sua funzione era quella di andare e venire dall'America verso l'Italia e viceversa -versa, svolgendo compiti che io non conosco. non sono mai stato in grado di capire a quale famiglia appartiene. Era un amico intimo di tutti i boss di Cosa Nostra ". Egli era molto stretto con Carlo Gambino, il capo della famiglia criminale Gambino di New York.
Morì a New York nel maggio 1972.

DOCUMENTI




giovedì 12 dicembre 2013

ANGELO RIZZOLI "Angelone"

p2  angelo rizzoli


angelo rizzoli senior
Angelo Rizzoli Senior (1889-1970)
Angelo Rizzoli nasce a Como il 12 novembre 1943 figlio di Andrea Rizzoli, presidente dell'omonima casa editrice, negli anni settanta il primo gruppo editoriale italiano. A 18 anni scopre di essere malato di sclerosi multipla. Con l'aiuto dei medici riesce ad evitare la disabilità totale, rimarrà però claudicante alla gamba destra. A 23 anni si laurea in Scienze politiche all'Università di Pavia; ottiene la specializzazione in Media and communications alla Columbia University di New York. Nel 1970 muore il nonno Angelo senior. L'anno seguente "Angelone", così chiamato per la sua stazza imponente e per distinguerlo dal celebre nonno, entra nel consiglio di amministrazione dell'azienda di famiglia, all'età di 28 anni.
Il 12 luglio 1974 il padre Andrea decide di rafforzare la casa editrice acquistando il primo quotidiano italiano, il Corriere della Sera. Acquisendo il Corriere realizza il suo sogno di imprenditore, ma comincia a fare i conti anche con un enorme indebitamento. Il Corriere perde infatti circa 5 miliardi di lire l'anno, con un tasso di inflazione che in Italia è in costante crescita.
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Angelo rizzoli con il padre
Sede del Corriere della Sera in via Solferino
La sede del Corriere della Sera oggi in vendita

Nel 1978 eredita la presidenza del gruppo, subentrando al padre. Eredita però anche un cumulo di debiti e di aziende non più profittevoli. Pressato dal sistema bancario in pochi anni cede al Banco Ambrosiano di Roberto Calvi, Licio Gelli ed altri iscritti alla loggia P2 il controllo del Gruppo Rizzoli-Corriere della Sera, il tutto all'insaputa dell'opinione pubblica. L'immagine della Rizzoli, primo gruppo editoriale italiano, è all'apice; Angelo junior è considerato un uomo di successo.

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Nello stesso anno conosce ad una festa Eleonora Giorgi: meno di un anno dopo i due si sposano (il testimone di Angelo è il manager Bruno Tassan Din), durante una convention Rizzoli a Venezia, nella cripta della Basilica di San Marco, con Eleonora già incinta di cinque mesi. Nascerà un figlio maschio, cui viene dato il nome di Andrea. Il nuovo piano industriale della Rizzoli prevede il lancio di nuovi investimenti, tra cui la fondazione di un quotidiano di taglio popolare, L'Occhio. I conti della casa editrice sono sempre in rosso. La solidità della Rizzoli-Corriere della Sera dipende ora dalle buone relazioni con i partiti politici, commistioni che il padre di Angelone aveva sempre accuratamente evitato.
arresto angelo rizzoli
Nel 1981 il Corriere della Sera è travolto dallo scandalo della Loggia P2, tra i quali iscritti c'è anche Angelone Rizzoli (tessera n° 532), così come il direttore generale del gruppo Bruno Tassan Din. Con la formalizzazione da parte del Tribunale di Milano (4 febbraio 1983), dell'amministrazione controllata per il Corriere della Sera (l'assemblea dei creditori contava ben 2138 iscritti tra cui banche, collaboratori, rivenditori e società collegate, per un totale di 65 miliardi e 670 milioni di crediti) Angelo, il fratello Alberto e Tassan Din (direttore generale) sono arrestati per bancarotta patrimoniale societaria in amministrazione controllata. L'accusa è di aver «occultato, dissipato o distratto» oltre 85 miliardi di lire.
Il fratello Alberto subisce due mesi di carcere e il sequestro dei beni, per poi essere prosciolto in istruttoria. Angelone rimane in carcere 13 mesi. Durante la detenzione del figlio, il padre Andrea è colto da infarto e muore. La sorella minore Isabella, appena diciottenne, è indagata e privata del patrimonio. Minacciata più volte di arresto, cadrà in una forte depressione e si suiciderà nel 1987, a 22 anni. Tutti i beni di Angelo Rizzoli jr, incluso il 50,2% della casa editrice rimasto in suo possesso, gli sono sequestrati e affidati ai custodi giudiziari.
Rizzoli non ne può disporre neanche dopo il ritorno in libertà: i custodi giudiziari vendono i suoi beni a chi è stato loro indicato dai giudici del Tribunale di Milano (una cordata che comprende Gemina, Montedison, Mittel e Giovanni Arvedi). Secondo Rizzoli, i beni vengono ceduti a un prezzo molto inferiore al loro valore di mercato, causandogli un notevole danno economico. «Il restante 50,2% delle mie azioni [è stato svenduto] per circa 9 miliardi, a fronte di una perizia contabile eseguita per conto del tribunale di Milano dal professor Luigi Guatri, già rettore della Bocconi, che valutava il solo patrimonio attivo, senza valori di testata e di avviamento, almeno 270 miliardi di lire».
Angelone fa causa ai compratori della sua ex casa editrice, ma l'istanza viene rigettata: il tribunale accerta la congruità del prezzo e del dissesto della società. Nello stesso annus horribilis 1984, il 19 gennaio la Corte d'Appello civile di Roma condanna Rizzoli, mentre è ancora in carcere, per condotte distrattive a danno di Cineriz. Sei mesi dopo l'uscita dal carcere inizia anche la causa di separazione con la moglie, per "incompatibilità della vita in comune". Nei mesi successivi Eleonora Giorgi chiede la metà del patrimonio del marito, valutabile in 400 miliardi di lire. Ottiene 10 miliardi di lire.
morte angelo rizzoliNel 1985 Rizzoli versa 4 miliardi di lire alla nuova proprietà del gruppo editoriale, per saldare ogni debito personale con la sua ex azienda. Dopo un lungo periodo di silenzio, negli anni novanta Angelone Rizzoli riprende l'attività come produttore cinematografico e televisivo. Tra le sue produzioni, «Padre Pio» con Sergio Castellitto, «Incompreso», «Cuore», «La guerra è finita» e «Le ali della libertà» con Sabrina Ferilli. Oggi la sua società di produzione fattura oltre 50 milioni di euro all'anno.
Angelone Rizzoli si sposò con Melania De Nichilo (conosciuta nel 1989), medico e parlamentare del PDL, da cui ha avuto due figli, Arrigo e Alberto. Ha vissuto gli ultimi anni della sua vita a Roma, nel quartiere Parioli. È scomparso proprio nella Capitale, presso il Policlinico Gemelli, nella serata dell'11 dicembre 2013 all'età di 70 anni.

angelo rizzoli


Vicende giudiziarie
Angelone Rizzoli è stato chiamato in giudizio sei volte dalla magistratura italiana. Nel 1983 viene arrestato per bancarotta fraudolenta in amministrazione controllata. È accusato di aver fatto sparire i fondi destinati all’aumento di capitale del 1981. Per questa vicenda Rizzoli venne condannato, con pena condonata, a tre anni e quattro mesi di reclusione. In un processo successivo del 1992 la Cassazione sentenziò che l'imprenditore non aveva trattenuto una parte dei fondi pagati da "La Centrale" di Roberto Calvi”. Quei fondi erano scomparsi per opera di Tassan Din, Gelli e Ortolani.
angelo rizzoli tassan din
Rizzoli e Tassandin
Tre sentenze successive, pronunciate dalla Cassazione, dalla Suprema Corte d’Irlanda e dalla giustizia elvetica, hanno riconosciuto che i fondi del falso aumento di capitale furono trasferiti sui conti Recioto, Zirka e Telada presso la Rothschild Bank di Zurigo e di lì occultati in paradisi fiscali. La sentenza del 1992 viene ribadita in corte d'appello nel 1996: Rizzoli era totalmente estraneo all’operazione, come poi dimostreranno con sentenza definitiva i magistrati milanesi che si sono occupati del crac del Banco Ambrosiano.
La Corte d'Appello Civile di Milano, nel gennaio 1996, condanna invece Rizzoli per diffamazione (fatto avvenuto nel 1984) nei confronti di Giovanni Bazoli, allora presidente del Nuovo Banco Ambrosiano. Tale giudizio si è concluso con la condanna dello stesso Angelo Rizzoli a risarcire il danno (come accertato dal Tribunale di Brescia con sentenza del 28 ottobre 1998). Nel 2006 il reato per cui fu arrestato nel 1983 è stato depenalizzato; successivamente Rizzoli ha chiesto l'archiviazione del caso. Il 20 novembre 2007 il Tribunale di Milano ha rigettato la richiesta, ma Rizzoli ha presentato ricorso avverso la sentenza. Il 26 febbraio 2009 la Corte di Cassazione ha accolto il ricorso ed ha revocato la sentenza di condanna per bancarotta. Tolta l'unica condanna (in sede civile) per diffamazione, Angelone Rizzoli è incensurato davanti alla giustizia italiana.
Al termine della lunga vicenda giudiziaria (durata sei processi per 26 anni complessivi) che riguarda la casa editrice, Rizzoli ha ottenuto sei assoluzioni definitive con formula piena. Successivamente l'imprenditore ha deciso di intraprendere ogni azione legale possibile per vedere ristabilito il suo diritto nei confronti della cordata che, a suo dire, rilevò l'azienda non a prezzi di mercato ma utilizzando il ricatto del carcere. Resta infatti la grande questione di come le procure abbiano potuto accusare i dirigenti della Rizzoli di bancarotta quando l'azienda rimaneva a tutti gli effetti sul mercato. E ancora, resta fortissima l'impressione generale di un'operazione poco trasparente, considerando anche come i presunti debiti Rizzoli non siano mai arrivati nemmeno ad 1/5 del valore dei beni posseduti dall'azienda.
Nel 2010 Angelone Rizzoli ha avanzato la richiesta di risarcimento danni: nel gennaio 2012 il Tribunale di Milano ha però respinto l'istanza ed ha inoltre condannato l'imprenditore a risarcire i convenuti per "lite temeraria". Il 14 febbraio 2013 venne arrestato a Roma con l'accusa di bancarotta fraudolenta.



In un’intervista a Claudio Sabelli Fioretti, Angelone Rizzoli ha detto:
« Sono passato una sola volta in via Angelo Rizzoli, a Milano. Fu un’emozione enorme. Mi trovavo davanti a qualcosa che si chiama Rizzoli, ha sede in via Angelo Rizzoli, è stata costruita da Angelo Rizzoli e io mi chiamo Angelo Rizzoli. Sogno sempre di tornarci da proprietario. Ma Hölderlin diceva: "L’uomo è un dio quando sogna e un pezzente quando riflette". Quando rifletto mi metto il cuore in pace. Non tornerò mai più a Milano. Mai più in via Rizzoli. »
Nel 1991 rilasciò un'intervista al settimanale L'Europeo in cui fece luce sui suoi rapporti con i partiti politici nel periodo in cui fu alla testa del gruppo editoriale. Ebbe a dire:
« In quella fine degli anni settanta la classe politica italiana, senza esclusione di nessun partito, diventa famelica, dà la caccia ai soldi delle imprese. I partiti sono immense macchine elettorali, costano [così] tanto che non c'è nessun partito in grado di far quadrare i conti. »
« La pressione pluripartitica [faceva leva] su due punti di forza per incidere nelle decisioni aziendali (…). Uno era l'assillo finanziario, come sapevano egregiamente il segretario della DC Amintore Fanfani, o il presidente dell'IMI, Giorgio Cappon (…). L'altro era il potere sindacale, cui erano aggrappati il principale partito d'opposizione, il PCI, i comitati di redazione, i poligrafici. »
Il 23 agosto 2009, in un dibattito tenuto a Cortina d'Ampezzo all'interno della rassegna Cortina Incontra per la presentazione del libro "Vaticano Spa" di Gianluigi Nuzzi, ha ribadito di essere tuttora incensurato ed ha ricostruito e raccontato la sua personale esperienza giudiziaria (che definisce "persecuzione"). In un'intervista successiva Rizzoli rievoca le circostanze che determinarono, nel 1983, l'inizio del suo calvario giudiziario:
« [L'insolvenza] aziendale si verificò nel momento in cui il Banco Ambrosiano disse di aver sottoscritto un aumento di capitale, che in realtà non venne mai versato: quei soldi finirono su conti esteri e io fui accusato di aver distratto i fondi. Una trappola studiata a tavolino. »
In una lettera aperta al Corriere della Sera, Rizzoli fornisce maggiori particolari: si trattò di un aumento di capitale di 150 miliardi di lire, sottoscritto da «La Centrale Finanziaria S.p.A.» (finanziaria presieduta da Roberto Calvi). Il denaro, invece di essere depositato nelle casse della Rizzoli, fu trasferito presso alcuni conti della Banca Rothschild di Zurigo denominati Zinca, Recioto, Telada, ad opera di funzionari di quella stessa Banca fiduciari di Bruno Tassan Din e Umberto Ortolani. Rizzoli aggiunge che i vertici della Banca svizzera furono condannati a vari anni di reclusione per avere distratto circa 180 milioni di dollari di fondi destinati alla Rizzoli verso conti del cosiddetto «gruppo dei BLU» (Bruno Tassan Din, Licio Gelli, Umberto Ortolani).

RIZZOLI ALLA P2: UNA SCELTA DEL REGIME LA SPARTIZIONE DELLE TESTATE DC PSI. L'ALLEANZA TASSAN DIN PCI, SIPRA E LEGGE PER L'EDITORIA
di Massimo Teodori
A partire dall'autunno 1981 le grandi manovre per l'acquisto del »Corriere sono in pieno svolgimento con i partiti che patrocinano o fanno fallire i diversi tentativi di soluzione. A loro volta Calvi e Tassan Din li favoriscono o li ostacolano nella misura in cui possono servire a rinsaldare i rapporti con i partiti . Dapprima il sen. Bruno Visentini, presidente del PRI oltre che della Olivetti, tenta la scalata al »Corriere in sostegno di un qualche progetto di governo dei buoni tecnici e, poi, ripete il tentativo il finanziere Giuseppe Cabassi con l'assenso del PSI e di una parte della DC. Ma i socialisti insorgono contro l'ipotesi Visentini sì da arrivare nel settembre 1981 quasi a mettere in crisi il governo Spadolini con un ultimatum di Claudio Martelli; e, specularmente, nel periodo successivo, Tassan Din ostacola il progetto Cabassi enunciando la legge partitocratica che doveva guidare qualsiasi operazione: »non mi sembrava giusto vendere ad un solo partito, il PSI, che stava dietro Cabassi . In un memoriale, lo stesso direttore generale della Rizzoli specifica la sua filosofia: »Mentre intrattenevo rapporti, stipulavo accordi con Gelli, Ortolani e Calvi, dall'altra parte contemporaneamente e per tutto il periodo considerato e cioè fino al 1982, avevo stretto legami e rapporti con la Banca Commerciale, con il prof. Visentini e, in campo politico, con alcuni esponenti del Partito comunista come, ad esempio, Adalberto Minucci e Gianni Cervetti .
Fallite le diverse operazioni di vendita variamente patrocinate, verso la fine del 1981, Calvi arriva a ventilare anche la possibile ipotesi di una formale spartizione del »Corriere fra i partiti se questa estrema offerta avesse potuto risolutamente giovare alla sua posizione di fronte alla giustizia. E quel metodo di scambio politica finanza editoria giustizia che per anni aveva rappresentato la filosofia operativa dei Gelli, Ortolani e Tassan Din, viene riproposto da Calvi e dai suoi consiglieri e suggeritori Pazienza, Carboni, Wilfredo Vitalone con una soluzione formale che avrebbe consentito al presidente dell'Ambrosiano in disgrazia di incassare quell'utile non finanziario messo in rilievo al momento dell'acquisizione alla Centrale del 40% della proprietà del gruppo.
Si susseguono durante l'inverno 1981 82 riunioni, proposte e trattative sulla base di progetti spartitori. Ad alcune di queste manovre partecipa direttamente l'on. Giuseppe Pisanu, sottosegretario al Tesoro, da alcune testimonianze indicato come delegato di Piccoli e della DC a seguire la vicenda del »Corriere . Mentre si sviluppa allo stesso scopo un rapporto stretto con il PSI di Craxi e si cerca un aggancio con il PCI, Calvi mette sul piatto della propria salvezza, insieme a molti miliardi per la corruzione, anche il »Corriere , individuando nel PSI, nella DC e nel PCI gli interlocutori di sempre che potevano contribuire a ribaltare la sua precaria situazione di fronte alla giustizia e alle autorità di controllo e vigilanza finanziaria.
Certo quella di Calvi e dei suoi consiglieri era una visione paradossale e semplificata della realtà, magari distorta dall'ottica di chi si sentiva assediato. Ma, al fondo, corrispondeva alla natura dei rapporti instaurati negli anni precedenti fra il complesso piduistico e i partiti. Da parte loro, i partiti e i loro rappresentanti non fanno che confermare naturalmente in forme diverse da quelle immaginate da Calvi il loro interesse per il »Corriere , per il mantenimento o l'alterazione di determinati equilibri.
Il presidente del Consiglio, Craxi, di fronte alla commissione dichiara: »Per quanto riguarda la questione del "Corriere", c'è un punto fermo nel ragionamento di Calvi: che ogni soluzione che si possa prospettare definitiva per la sistemazione del futuro assetto del gruppo deve ottenere un vasto consenso politico di democristiani, di socialisti e di comunisti. E' ho ragione di ritenere, e ho ragione ben fondata e ben informata di ritenere, che tenesse su questo tema poi si è visto anche su altri, cioè sui finanziamenti che il Banco Ambrosiano erogava rapporti diretti con persone responsabili ed autorevoli di questi tre partiti... . Tale ragionamento di Craxi converge con le valutazioni che, dall'altra sponda della questione, avanza Angelo Rizzoli: »La classe politica ci ha fatto molte promesse e non ne ha mantenuta nessuna, ma nel cuor suo aveva in mente una cosa, portarci via il "Corriere" e, questa, è l'unica promessa che ha mantenuto .
Altre opinioni convergenti sono avanzate da protagonisti come Piccoli: »Mi occupai del "Corriere" come segretario della DC così come se ne occuparono i segretari di tutti gli altri partiti, perché tutti intervennero... ; mentre le smentite di Spadolini (»Ignoravo qualunque contatto con la società finanziaria per il nuovo gruppo del "Corriere"... Non ho mai chiesto niente, non ho ricevuto niente dal ''Corriere'' ) sono frontalmente contraddette dalla testimonianza di Angelo: »Spadolini quando era a Milano veniva tutti i lunedì di pomeriggio a trovarmi in ufficio per chiedere, per fare... Dopo di che, appena io sono uscito dal "Corriere", non si è fatto più vedere. Del resto è naturale: il rapporto con i politici è direttamente proporzionale al potere che hai... . Dal canto suo, il PCI, attraverso suoi autorevoli esponenti, intrattiene rapporti privilegiati con Tassan Din e ciò in coerenza con il giudizio che nel luglio 1980 Adalberto Minucci, incaricato del settore stampa del PCI, dava sulla situazione: »Il gruppo Rizzoli rappresenta ancora una editoria relativamente aperta al pluralismo e la mia personale convinzione è che questa sia la ragione perché si stia facendo il possibile per liquidarlo o minarne definitivamente l'autonomia .
I progetti di vendita con patrocini e veti ed i rozzi tentativi di Calvi di spartizione del »Corriere fra i partiti non arrivano a termine perché interviene la morte di Calvi e la conseguente bancarotta dell'Ambrosiano. Anche dietro le lotte che segnano il passaggio dal vecchio al nuovo Ambrosiano si intravede il problema del controllo della Rizzoli, per il quale basta richiamare solo alcuni episodi. Il socialista Nerio Nesi della Banca Nazionale del Lavoro insorge contro il democristiano Piero Schlesinger della Banca Popolare di Milano perché propone un comitato di garanti non equilibrato, leggi non lottizzato adeguatamente dal punto di vista del PSI; a sua volta il sostegno portato dal PCI alle posizioni di Tassan Din, fino a quando la decenza lo ha consentito, segna l'attestarsi dei comunisti su una linea di difesa ad oltranza di un equilibrio facente perno sul direttore Alberto Cavallari (che sostituisce Di Bella nel giugno 1981), sostenuto in un primo tempo dal garante senatore Giuseppe Branca della Sinistra indipendente e sulla forza contrattuale degli organismi sindacali dei giornalisti e dei tipografi.

DOCUMENTI


lunedì 9 dicembre 2013

VITO GUARRASI "Don Vito"





Vito Guarrasi nasce ad Alcamo il 22 aprile 1914; figlio di una agiata famiglia di possidenti introdotta negli ambienti nobiliari dell'isola, è stato un controverso avvocato e manager . Era un lontano cugino di Enrico Cuccia (una zia di Guarrasi era sposata con uno zio di Cuccia).
Nel 1943, con il grado di sottotenente di complemento del servizio automobilistico fu presente alla firma dell'Armistizio di Cassibile assieme al generale Giuseppe Castellano, in qualità di suo aiutante di campo. In un rapporto del 27 novembre 1944 indirizzato al Segretario di Stato USA, il console generale americano a Palermo Alfred Nester affermò che Vito Guarrasi, assieme ad altre personalità dell'isola, fu presente ad una riunione con alti ufficiali americani in cui si discusse se la Sicilia dovesse separarsi dall'Italia e dichiarare l'indipendenza. Il rapporto del console è significativamente intitolato: Formation of group favoring autonomy of Sicily under direction of Mafia. (formazione di un gruppo che favorisca l'autonomia della Sicilia sotto la direzione della Mafia).

firma dell'armistizio di cassibile vito guarrasi
Firma dell'armistizio a Cassibile, all'estrema destra l' avv. Guarrasi 
Dal 2 ottobre 1947 Guarrasi è socio fondatore della società cooperativa La voce della Sicilia, di ispirazione socialista. Dal 7 luglio 1948 al 19 ottobre 1964 è consigliere di amministrazione della società mineraria Val Salso, dedita all'estrazione e alla commercializzazione dello zolfo e dei suoi derivati.
Nel 1948 Guarrasi si candidò nelle liste del Fronte Popolare. Negli anni Cinquanta entrò nel consiglio di amministrazione del giornale comunista L'Ora di Palermo. Avvocato civilista, risulta iscritto all'albo presso il foro di Palermo il 2 maggio 1949.
Dal 20 marzo 1949 al 30 marzo 1952 fu presidente della Cassa Agricola e Professionale Don Rizzo di Alcamo, una piccola banca orientata verso il credito agricolo e privato. Guarrasi, nel corso della gestione della cassa dovette fronteggiare un iniziale flessione dei depositi e un aumento della richiesta di prestiti dovuta al periodo di crisi in cui versava l'economia Italiana nel 1950 e anche una serie sempre più accesa di rivendicazioni sindacali da parte dei dipendenti della cassa. Nel 1953 si candidò al Senato per il PLI nel collegio Alcamo-Castelvetrano, ma non fu eletto.
graziano verzotto vito guarrasi
Graziano Verzotto
Guarrasi ideò e promosse un'iniziativa, poi divenuta la legge regionale n 4 del 13 marzo 1959 che istituì presso il Banco di Sicilia un fondo di rotazione delle miniere di zolfo che trasferì alla regione 12 miliardi di debiti contratti da diversi proprietari delle miniere con il Banco di Sicilia stesso. Fu uno dei promotori insieme a Graziano Verzotto e Domenico La Cavera della nascita della So.Fi.S (Società per il Finanziamento dello Sviluppo in Sicilia), società finanziaria della Regione Siciliana, che fu il primo esempio di società pubblica regionale. Nei primi mesi del 1960 Guarrasi divenne anche consigliere di Enrico Mattei, in particolare in merito alla costruzione di un metanodotto sottomarino che collegasse l'Africa alla Sicilia. La collaborazione fu di breve durata e l'incarico di Guarrasi era terminato già all'epoca della morte di Mattei (27 ottobre 1962). Negli anni Vito Guarrasi è stato azionista, presidente o consigliere di amministrazione di più di 25 differenti società (spesso pubbliche) i cui ambiti spaziano dallo sport (presidente del Palermo Calcio dal 1952 al 1960) all'immobiliaristica, al settore minerario e dell'estrazione di idrocarburi, al turismo e alla commercializzazione di medicinali.


Procedimenti giudiziari
Il pentito Gioacchino Pennino ha affermato nel 2007 che Guarrasi svolse un ruolo nella morte del giornalista dell'Ora Mauro De Mauro, scomparso il 16 settembre 1970 e il cui corpo non è mai più stato ritrovato. All'epoca il giornalista stava raccogliendo informazioni sulla morte di Mattei e sul fallito golpe del principe Junio Valerio Borghese. Pennino ritiene che Guarrasi abbia riferito indirettamente le informazioni in possesso di De Mauro ad alcuni capimafia, che avrebbero così deciso di eliminarlo.
Si dice che il giornalista palermitano, poco prima di scomparire avrebbe incontrato tutta una serie di personalità e, tra queste, anche Guarrasi. L' avvocato replica: I fatti parlano da soli. Io nell' inchiesta De Mauro non ho ricevuto neanche una comunicazione giudiziaria. 
Il 10 luglio 1971 Guarrasi è stato condannato a quattro anni di reclusione per bancarotta fraudolenta dalla 1ª Sezione Penale del Tribunale di Roma; verrà in seguito prosciolto.
vito guarrasi morteNel rapporto del 1976 del senatore Luigi Carraro, relatore della commissione parlamentare antimafia si legge che: L'attività pubblica di Guarrasi è stata caratterizzata da rapidi successi e dalla ricerca costante di posizioni di potere... Non c'è stato settore di qualche importanza della vita economica siciliana che non ha visto impegnato in prima persona l'avvocato Guarrasi... Non sempre però queste iniziative andarono a buon fine.
Nel 1986 Guarrasi è risultato anche iscritto alla loggia della "Massoneria universale di rito scozzese antico e accettato. Supremo Consiglio d'Italia" di via Roma a Palermo, insieme all'esattore di Salemi Nino Salvo e al boss mafioso Salvatore Greco.
Guarrasi è stato interrogato nel 1998 come testimone al processo per mafia a carico di Giulio Andreotti.
Morì un'anno dopo a Mondello.


l'avvocato dei misteri vito guarrasi


LA VITA DI DON VITO GUARRASI
 (IL VERO BOSS DEI BOSS)
DIMENTICATE I RIINA E I PROVENZANO, BIECA MANOVALANZA DEL CRIMINE, LA MAFIA SI INCARNA IN DON VITO - PIÙ POTENTE DI CUCCIA, PIÙ INFLUENTE DI AGNELLI, PIÙ RICCO DI BERLUSCONI, PIÙ ASTUTO DI ANDREOTTI, PIÙ SEGRETO DI FATIMA 
Piero Melati per "il Venerdì di Repubblica"
Di sicuro c'è solo che è morto. L'ultimo giorno di luglio del 1999. Liquidato in tre righe sul Corriere della Sera. Di sicuro c'è solo che il suo nome non si poteva nemmeno pronunciare. Era inteso Mister X. Si diceva nei bar: «Se il Palermo vince, in schedina scrivi uno. Se perde scrivi due. Se pareggia scrivi Guarrasi». Vito Guarrasi. Di lui si sussurrava che era più potente di Cuccia, più influente di Agnelli, più ricco di Berlusconi, più astuto di Andreotti, più segreto di Fatima.
Tra le sue mani di «consulente dei potenti» sono passati i misteri d'Italia: i retroscena dello sbarco degli americani in Sicilia, la morte di Mattei, la scomparsa di De Mauro, il golpe Borghese, l'ascesa di Cefis, l'affare Sindona, la morte di Calvi, gli omicidi politici, i rapporti tra Andreotti e la mafia.
In mezzo, nel crocevia del diavolo, sempre lui. Sempre Guarrasi. Eppure mai un processo, un concorso esterno, un favoreggiamento, un 41 bis. Mai nessuna visibilità, nessuna «esposizione». Sempre nell'ombra. Ha mandato all'opposizione in Sicilia la Dc di don Sturzo e Fanfani, boss di Cosa Nostra del calibro di Calogero Vizzini e Genco Russo diventavano umili al cospetto, i capi della Cia in visita a Palermo andavano a trovarlo nello studio in via Segesta o nella villa di Mondello. Era amico di Nino e Ignazio Salvo, i potenti esattori legati alla mafia, ma per cinque mesi fu anche consigliere di amministrazione dell'Ora, il quotidiano antimafia di Palermo.
Un enigma. Che ora viene risistemato da una biografia (L'avvocato dei misteri, Castelvecchi, pp. 190, euro 16,50) di Marianna Bartoccelli e Francesco D'Ayala, che contiene ampi stralci dal diario privato di Guarrasi. Un libro critico verso l'Antimafia. Ma non per questo meno ricco di dettagli. Anche privati. Guarrasi sposa la bellissima Simonetta Biuso Greco, appena diciottenne, e sarà lei a fornirgli le chiavi di accesso allo studio del padre, l'avvocato più importante del Banco di Sicilia.
Sua moglie fu poi per sedici anni l'amante del suo migliore amico, Domenico La Cavera, detto Mimì, presidente degli industriali siciliani, conosciuto tra i banchi del Gonzaga, un'avventura politica condivisa (anche con il Pci di Emanuele Macaluso), quella del milazzismo. Poi Mimì sposò a sua volta la diva del cinema degli anni Sessanta Eleonora Rossi Drago, che aveva appena troncato una storia d'amore con Alfonso di Borbone, fratello del re di Spagna.


AVVOCATO DEI MISTERI
DI BARTOCCELLI E DAYALA
Una soap opera alla Dynasty. Dal padre Raffaele (sposato con Luigia Dagnino) Guarrasi eredita l'azienda vinicola Rapitalà. È amico per la pelle di Galvano Lanza Branciforti di Trabia, per conto del quale amministra il feudo di Villa Trabia. Dirà La Cavera: «Le Terre rosse di Villa Trabia erano un mito».
Il futuro Mister X, da semplice ufficiale di complemento del servizio automobilistico dell'esercito, non ancora trentenne, viene spedito dal generale Giuseppe Castellano, insieme all'amico Lanza di Trabia, in missione segreta ad Algeri. Incontreranno il generale Dwight «Ike» Eisenhower, futuro presidente degli Stati Uniti, comandante dell'esercito alleato. Lo scopo, trattare la resa dell'Italia, che verrà firmata il 3 settembre a Cassibile e resa nota il fatidico 8 settembre.
Guarrasi smentirà la sua presenza alla firma dell'armistizio. Lui aveva trattato con Ike, ma quel giorno era nella villetta del barone Vincenzo Valenti, in via Dante, a Palermo, a rassicurare i nobili siciliani che lo sbarco alleato in Sicilia non avrebbe comportato derive comuniste. «Quella stessa casa che per eredità è poi pervenuta al sindaco Leoluca Orlando...».
C'erano mafiosi alla riunione? Guarrasi nega: «Figurarsi se mi sarei riunito con la manovalanza. Noblesse oblige». Fatto sta che quella fu la madre di tutte le trattative: appoggio logistico delle «famiglie» allo sbarco, in cambio di impunità e posti di comando. Rapporti spericolati. Ma Guarrasi era solito camminare con le mani basse dietro la schiena, come Enrico Cuccia, il patron di Mediobanca di cui era parente. «Per evitare che qualcuno me lo metta in quel posto».
Con quello stesso spirito affronta l'avventura di Silvio Milazzo: dal ‘58 al ‘60 l'ex deputato dc di Caltagirone mette insieme comunisti e fascisti e taglia fuori lo scudocrociato di Fanfani dal governo. Guarrasi è responsabile del piano di sviluppo.
I Salvo appoggiano Milazzo, don Paolino Bontate (padre di Stefano, il «principe di Villagrazia» ucciso dai corleonesi nella successiva guerra di mafia) schiaffeggia personalmente i deputati monarchici dubbiosi. Padri e figli. Ma non solo quelli delle dinastie mafiose. A diverso titolo, giocheranno un ruolo Bernardo Mattarella (padre di Piersanti, il presidente della Regione Sicilia ucciso dalla mafia nell'81), Salvatore Orlando Cascio (padre del quattro volte sindaco di Palermo Leoluca), Giuseppe La Loggia (padre del leader del Pdl Enrico), Francesco Pignatone (padre del capo della Procura di Roma Giuseppe).
E ancora, Gerlando Miccichè, fratello del defunto Luigi, che fu segretario particolare di Mimì La Cavera, e padre dell'ex sottosegretario berlusconiano Gianfranco, del banchiere Gaetano, del manager del Palermo calcio Guglielmo. O Aldo Profumo, padre dell'ex presidente di Unicredit Alessandro, direttore, ai tempi in cui La Cavera era in auge, della Elettronica Sicula, collegata alle grandi imprese Usa, azienda che inventò i tubi catodici per le tv a colori. La Sicilia vola. Enrico Mattei, presidente dell'Eni, vuole industrializzare l'Isola. Usa i partiti come taxi, sfida le sette sorelle del petrolio. Ma muore in un incidente aereo a Bescapè (27 ottobre ‘62).
Un attentato? Gli succede Eugenio Cefis. Guarrasi è consulente di Mattei, lo resta anche di Cefis nei decenni successivi. Ma intanto, caduto Milazzo, fa approvare una legge che scarica sulla Regione i debiti mostruosi delle industrie minerarie. «Io non faccio le leggi. Le scrivo» dirà. Si cominciano a mangiare la Sicilia. Otto anni dopo scompare il cronista dell'Ora De Mauro, al tempo di Salò legato alla X Mas del principe nero Junio Valerio Borghese. De Mauro lavorava come consultente al film del regista Francesco Rosi sul giallo di Mattei. Il capo della squadra Mobile Boris Giuliano (ucciso dalla mafia nel ‘79) batte la pista che porta a 
Palermo scommette: stanno per futtiri Mister X. Lo definisce così, sull'Espresso, il questore dell'epoca, Angelo Mangano, lo sbirro che arrestò Luciano Liggio. Ma la palude inghiotte tutto. Qualche lume verrà 27 anni dopo. Un giudice a Pavia, Vincenzo Calia, riapre l'inchiesta. E ascolta il pm Ugo Saitto, che rivela: Boris Giuliano gli confidò di un summit nella panormita Villa Boscogrande, presieduto dal capo dei servizi, il piduista Vito Miceli. Qui, tra zagare, gelsomini e fette di cassata, si era deciso di insabbiare tutto. Poi ci si mette Graziano Verzotto, ex partigiano e braccio destro di Mattei, latitante per 16 anni, ad accusare Guarrasi.
Dice al giudice Calia che le mani di Mister X sono lorde del sangue di Mattei e De Mauro. Ne esce un intrigo che finisce nei soldi riciclati dalle banche di Sindona. Ma dell'inchiesta non si parlerà (fino a Rizza e Lo Bianco, Profondo nero, Chiarelettere, 2009). Il fantasma di Michele Sindona lo tira fuori al processo Andreotti il pentito Angelo Siino, che fu l'autista di papa Giovanni Paolo II in Sicilia. Siino sostiene di aver accompagnato Sindona da Guarrasi. L'accusa cita un rapporto della Finanza del ‘93, che parla di «occulta regia» dell'anziano Guarrasi nei mutamenti in corso dentro Cosa Nostra.
La prima Repubblica era crollata un anno prima. E Guarrasi morirà un anno dopo quel processo. Oggi tre inchieste (Il caso De Mauro, Giuseppe Pipitone, Editori Riuniti, pp. 191, euro 16; L'eretico, Nino Amadore, Rubbettino, pp. 115, euro 12; Alfio Caruso, I siciliani, Neri Pozza, pp. 671, euro 18) scavano sul personaggio. E sui misteri mai chiariti nelle quattro interviste rilasciate da Guarrasi in vita (nella prima, a Giuseppe Sottile sull'Espresso, sostenne che De Mauro era stato eliminato per complicità nel golpe Borghese).
Nell'ultima, a Claudio Fava, figlio del giornalista ucciso dalla mafia, plaudì Berlusconi. Lo paragonò a Milazzo. Disse che, più che una rivoluzione, la fine della prima Repubblica era stata una «mareggiata». «Perché?» chiese Fava. «Mancava una cosa: la ghigliottina».

DOCUMENTI


domenica 8 dicembre 2013

L' ANELLO "Noto servizio"

mario roatta
Mario Roatta

«Giulio Andreotti sarebbe stato il vero “padrone” della Loggia P2? Per carità… io avevo la P2, Cossiga la Gladio e Andreotti l’Anello». (Licio Gelli - 15 febbraio 2011)


« L’Anello fu un servizio segreto parallelo e clandestino... La storia di questo servizio si incrocia con molte delle vicende più oscure della storia del nostro paese: da piazza Fontana al caso Moro al caso Cirillo. Il termine Anello non compare in alcun atto ma è citato da alcuni appartenenti all’organizzazione che si attribuiscono il ruolo di anello di congiunzione tra i servizi segreti (usati in funzione anticomunista) e la società civile » (Aldo Giannuli su Oggi)
La scoperta dell'esistenza di questa struttura segreta venne alla luce nel 1996, grazie al lavoro del saggista Aldo Giannuli che, per conto del giudice milanese Guido Salvini e la Procura di Brescia, nell'ambito delle sue indagini sul terrorismo nero e sulla strage di Piazza Fontana, scoprì una serie di documenti in un archivio dell’Ufficio Affari Riservati abbandonato sulla via Appia Nuova, a Roma. Nel novembre del 2000, poi, la procura inviò tutti gli atti alla Commissione parlamentare sulle stragi.
Dai documenti scoperti dalla Procura di Brescia, venne svelato che la struttura sarebbe stata fondata nel 1944 anno in cui, il generale Mario Roatta, ex capo del SIM, riuscì ad evadere dall'ospedale militare in cui era detenuto e a coinvolgere alcuni suoi vecchi sottoposti a seguirlo nella formazione del primo nucleo di questa nuova organizzazione.
Sembra che nel 1972 la struttura potesse contare su una rete di 164 uomini che gravavano sul bilancio dello Stato, dal dopoguerra alla metà degli anni Ottanta, operò in diverse azioni e in trame oscure al pari di altre organizzazioni sovrastatali e non democratiche vicine alla massoneria e alla criminalità organizzata. Dall'inchiesta emerse che la stessa veniva utilizzata essenzialmente per operazioni di condizionamento politico anticomunista ed azioni che miravano ad avversare elementi e partiti della sinistra: dossieraggio, campagne di disinformazione ed interventi diretti quali rapimenti, eliminazione degli avversari e in molti scandali economici e criminali della Repubblica.
Potendo contare su una base operativa molto ristretta, il servizio era solito rivolgersi agli ambienti dell'eversione di destra e della malavita organizzata per reclutare manovalanza per le varie operazioni e facente comunque sempre capo ai vertici del SID ed, informalmente, alle dipendenze della presidenza del Consiglio.
Secondo gli inquirenti, l’Anello ebbe un ruolo in molte vicende oscure nell’Italia di quegl'anni. Dal rapimento di Aldo Moro, al caso Cirillo, l'assessore campano della Dc rapito dalle Br nel 1981, ai traffici di armi e di petrolio e anche nella vicenda della fuga del colonnello delle Ss, Herbert Kappler, responsabile dell’eccidio delle Fosse Ardeatine e fatto fuggire dall’ospedale militare del Celio nel 1977. Nel 1978, pochi giorni dopo il rapimento Moro, ad esempio, tramite l'intervento dell'Anello, sarebbe stato individuato il covo terrorista di via Gradoli, a Roma.


Testimonianze sul ruolo di Andreotti
giulio andreotti anelloSecondo alcuni testimoni, a partire dal 1964, politicamente l'Anello faceva riferimento direttamente alla figura di Giulio Andreotti.
Durante gli interrogatori condotti dalla Procura di Brescia, Michele Ristuccia, uno degli aderenti alla struttura, dichiarò che l’Anello «dipendeva direttamente dalla presidenza del Consiglio. La sua gestione è stata monopolio democristiano, tranne che nell’ultimo periodo, nel quale suppongo che anche il Psi sapesse, in quanto mi risulta che avesse fatto alcune richieste». I componenti della struttura segreta, sempre secondo il supertestimone, avevano in dotazione «un tesserino sulla base del quale era dovuta a loro cooperazione e immunità da responsabilità penali in cui avrebbero potuto incorrere per motivi di servizio. Preciso che non so se tutti i membri dell’Anello avessero questo tesserino, ma Titta certamente lo aveva e io l’ho potuto personalmente vedere, ricordo che aveva l’intestazione della presidenza del Consiglio dei ministri».
Alcune testimonianze contenute negli atti dell’inchiesta individuerebbero, nella figura di Giulio Andreotti, il principale referente politico dell’Anello.
Personaggi di punta dell’Anello, negli anni cruciali del caso Moro e del rapimento Cirillo, sono Adalberto Titta, il sedicente «colonnello del Sismi» che trattò con i camorristi la liberazione dell’assessore democristiano Ciro Cirillo; il senatore missino Giorgio Pisanò; il faccendiere Felice Fulchignoni; l’imprenditore Sigfrido Battaini; il religioso Padre Enrico Zucca, entrato nelle cronache per aver trafugato, nell’immediato dopoguerra, la salma di Benito Mussolini a Milano. 
anello giorgio pisanò
Giorgio Pisanò
Titta è, in quegli anni drammatici, il vertice operativo della struttura. Un uomo fin troppo loquace, un po’ guascone, ex pilota nella Repubblica sociale. Muore d’infarto dopo la liberazione di Cirillo, mentre è impegnato in una delicata missione legata proprio a questo caso. Tanto delicata da suscitare i sospetti di una morte non del tutto naturale: i servizi di sicurezza francesi mandano a misurare la lunghezza del cadavere, per accertarsi che sia proprio Titta, e i carabinieri fanno qualche indagine dopo alcuni esposti che accennavano a un omicidio mascherato da malore.
L’Anello, del resto, era specializzato proprio in omicidi coperti da morte naturale e da incidenti stradali. Ma, più in grande, si occupava dell’economia parallela del petrolio, che serviva a finanziare le forze politiche più «affidabili» e sinceramente anticomuniste. Tra il 1975 e il 1976 l’Anello si dà da fare addirittura per far nascere una nuova Dc, in grado di contrastare l’apertura a sinistra preparata da Aldo Moro: è la breve avventura del Nuovo partito popolare, che divenne poi l’oggetto principale, con riferimenti alle forniture militari alla Libia, di un famoso dossier segreto, chiamato «Mi.Fo.Biali», oggetto di ricatti trasversali che coinvolsero anche il giornalista di Op Mino Pecorelli
Andreotti risulta il principale beneficiario politico della struttura, almeno secondo quanto si afferma in più punti nelle «veline» agli atti dell’inchiesta. Anche alcune testimonianze affidano al sette volte presidente del Consiglio un ruolo guida per l’Anello. Fu Andreotti a volerla, con questa denominazione, per fronteggiare il «notevole caos» che c’era negli anni Settanta nei vari organismi che si occupavano di intelligence, sia per inefficienza, sia per concorrenza. Andreotti decise di creare una struttura «pilota» che traghettasse questo mondo dal caos a servizi segreti più adeguati. Nascerebbe da qui il nome di Anello, adottato, secondo alcune testimonianze, dalla metà degli anni Sessanta: la struttura avrebbe dovuto essere infatti la congiunzione – l’anello appunto – tra le molteplici e spesso confuse strutture parallele del dopoguerra e i servizi di sicurezza istituzionali. I testimoni ascoltati nell’inchiesta hanno confermato che il compito principale dell’Anello era quello di «arginare» con tutti i mezzi l’avanzata delle sinistre. Anche Francesco Cossiga era a conoscenza dell’Anello, testimonia Ristuccia. 
Tra la fine degli anni Sessanta e l’inizio dei Settanta, almeno secondo i racconti dei testimoni dell’inchiesta, la struttura si era preparata per sequesti (poi non realizzati) di alcuni personaggi politici. Tra questi, il sindaco di Milano Aldo Aniasi, il leader del Movimento studentesco Mario Capanna e l’editore Gian Giacomo Feltrinelli. Ma è il caso Moro l’episodio più clamoroso nella storia segreta dell’Anello. 

VIA GRADOLI
«Ricordo che il Titta mi accennò, già durante il sequestro Moro e me lo confermò poi successivamente, che erano stati contattati per adoperarsi per la liberazione di Moro, così come per il sequestro Cirillo». Questa è la testimonianza di Ristuccia, uno dei principali collaboratori di Titta. «Mi disse addirittura di aver avuto contatti con appartenenti alle Br e che questi avevano espresso sfiducia verso l’Arma dei carabinieri e la Dc. Mi disse», continua a verbale Ristuccia, «che gli uomini delle Br con i quali erano entrati in contatto non erano riusciti a trovare gli interlocutori adatti e non si fidavano delle istituzioni. Titta sosteneva di aver parlato di ciò con Cossiga e con l’onorevole Andreotti, ma che quest’ultimo (si era espresso) con valutazioni negative sull’eventualità del rilascio dell’ostaggio, bloccando così le attività che intendeva intraprendere. Ricordo che lo stesso giorno in cui si seppe che nel lago della Duchessa doveva trovarsi il cadavere di Moro, mi disse in tempo reale che si trattava di una “bufala”. Ciò ovviamente me lo disse prima che ci fosse la smentita». 
Lo stesso testimone racconta: «Io venni informato da Titta che il presidente della Dc correva seri rischi di sequestro. Sequestro durante, il Titta mi disse di essere a conoscenza del luogo dove Moro era detenuto, lo aveva detto anche ai senatori Andreotti e Cossiga. Il Titta mi disse, sequestro durante, che Moro era detenuto in via Gradoli e, come ebbi occasione di accennarvi, lo seppe direttamente dalle Brigate rosse. Non posso dirvi come entrò in contatto con le Br, ma lui mi disse di essere stato fortemente ostacolato sul caso Moro, proprio dal potere politico dal quale dipendeva. Come già dettovi, in particolare alla richiesta di poter intervenire su via Gradoli, il Titta ricevette un secco diniego da Andreotti che, mi disse, gli fece capire che non era auspicabile una soluzione positiva del processo, la frase che ricordo distintamente è: “Moro vivo non serve più a nessuno”. Preciso che tutte queste notizie io le ho apprese sequestro durante». 
È la testimonianza di un personaggio che riferisce racconti di un morto, che non può più né confermare né smentire. Forse è troppo poco per imbastire un’azione giudiziaria, ma certo è un’ulteriore smagliatura in una vicenda, il sequestro Moro, piena di elementi oscuri. Nelle dichiarazioni di Michele Ristuccia vi è certamente un errore: l’appartamento di via Gradoli è indicato come la prigione di Moro, mentre è appurato che fosse una base delle Br, ma che non ospitò il sequestrato. È lo stesso errore compiuto, in diverse dichiarazioni, da Bettino Craxi. Titta aveva una indicazione che riguardava la sola via Gradoli, oppure il capo operativo dell’Anello aveva cambiato in Gradoli una diversa indicazione della prigione al fine di tutelarla? 

KAPPLER E CIRILLO
L’Anello ebbe un ruolo anche nella vicenda della fuga di Herbert Kappler, il colonnello delle Ss responsabile dell’eccidio delle Fosse Ardeatine, fatto uscire dall’ospedale militare del Celio, dopo un accordo politico ed economico con la Germania. Fu Titta e non la moglie di Kappler, Annelise – come si disse – ad accompagnare Kappler al confine. Nelle carte dell’inchiesta romana c’è la testimonianza del medico che visitò Kappler prima che questi fosse portato oltre confine. 
È nel caso Cirillo, però, che l’Anello giocò in pieno le sue carte. Ciro Cirillo, assessore campano della Dc, fu rapito dalle Br a Napoli nel 1981. Per Cirillo, a differenza che per Moro, la Democrazia cristiana e lo Stato accettarono di trattare con i terroristi, anzi lo fecero attraverso la criminalità organizzata. È Adalberto Titta in persona che tratta in carcere con Raffaele Cutolo, il capo della Nuova camorra organizzata (Nco). Titta entra nel carcere di Ancona per concordare direttamente con Cutolo la liberazione di Cirillo, porta a cena fuori dal carcere il capo camorrista e gli mostra un foglio di scarcerazione per invogliarlo a riprendere i contatti con le Br che erano stati aperti già nel 1978, durante la vicenda Moro. L’Anello è la chiave che unisce le due vicende. E spiega alcune affermazioni di Cutolo, che ha più volte ripetuto di aver avuto un ruolo anche nella vicenda Moro, oltre che in quella Cirillo. Personaggio di congiunzione tra l’Anello e il boss della Camorra è Francesco Gangemi, esponente di primo piano della Dc calabrese, avvocato di Raffaele Cutolo, ma anche grande amico di Adalberto Titta. Fu proprio Gangemi – affermano alcuni testimoni dell’inchiesta – a presentare Cutolo a Titta per permettergli di intervenire nell’affare Cirillo. «Il Cutolo non avrebbe mai accettato di prendere parte ad alcuna trattativa se il Gangemi non avesse garantito per il Titta», assicura il supertestimone Ristuccia. Il legame Titta-Cutolo-Gangemi-Anello può dare un contesto ad alcune sibilline affermazioni fatte dal capo della Nco. Nel 1993 Cutolo diceva, a proposito della vicenda Cirillo, che in tanti «fecero la fila da me, ad Ascoli Piceno, e quel Titta dei servizi segreti era disposto in cambio dei miei favori a far eliminare i miei nemici». E aggiungeva: «Avrei potuto salvare la vita dell’onorevole Moro perché, grazie a informazioni ottenute da alcuni membri della banda della Magliana, avevo saputo dove era la sua prigione. Mi incontrai con il sedicente “inviato di Cossiga” che mi promise persino sconti di pena. Ma in seguito ricevetti una visita del mio fedele luogotenente Vincenzo Casillo, latore di un messaggio di alcuni politici campani: “Don Rafè, facitevi ’e fatte vuoste”». 
L’inviato di Cossiga, rivela Cutolo nel volume di Giuseppe Marrazzo Il camorrista. Vita segreta di don Raffaele Cutolo, potrebbe essere Nicola Lettieri, il sottosegretario all’Interno che durante i 55 giorni del sequestro guidava il «comitato di crisi» del Viminale. 
Nel 1994, davanti alle telecamere di Mixer Cutolo raccontò di aver ricevuto, mentre era latitante ad Albarella e mentre Moro era nelle mani delle Br, la visita di Nicolino Selis, affiliato della Nco, suo rappresentante a Roma e contemporaneamente boss della banda della Magliana, per conto della quale controllava la zona che da Acilia arriva al mare. Selis, dice Cutolo, «aveva saputo dove si trovava la prigione di Moro e mi chiese se volessi salvarlo». Cutolo in quella occasione aggiunse di essersi consultato con un avvocato che a sua volta si rivolse a dei politici. Il capo della Nco ha detto di aver saputo successivamente da un suo fedelissimo, Enzo Casillo («Morto con la tessera dei servizi segreti in tasca») che «importanti politici nazionali erano molto preoccupati del fatto che Moro avrebbe potuto salvarsi». In quell’occasione si mossero anche due sacerdoti calabresi. Selis non può certo confermare: scomparso nel 1981, il suo cadavere non è mai stato trovato; probabilmente sotterrato ad Acilia, vicino al greto del Tevere, è stato coperto con la calce viva. 
Durante i 55 giorni, quindi, Cutolo latitante sostiene di aver ricevuto l’avvocato Gangemi, l’inviato di Cossiga, Lettieri, e il suo rappresentante nella banda della Magliana, Nicolino Selis, che aveva scoperto dove era la prigione di Moro: presumibilmente nella sua zona di controllo, cioè tra Aprilia e il mare. Cutolo trascorse quei mesi di latitanza a casa di un vecchio contadino di Albanella, vicino a Pestum. L’uomo si chiamava, ironia della sorte, Nicola Lettieri, come il probabile «inviato di Cossiga». Finirà ucciso anche lui: da chi – dirà Cutolo – «credeva di trovare nella sua casa di campagna qualche tesoro da me nascosto». 

Il Vaticano ed il caso Moro
Con alcune lettere ad Andreotti, padre Zucca chiedeva di poter aprire una trattativa. Il religioso milanese affermava di essere «sicurissimo» che le Br avrebbero liberato Moro per soldi. Diceva anche di aver incontrato un brigatista in una chiesa di Milano «verso la fine di aprile» (Moro era stato rapito il 16 marzo). L’incontro-colloquio si era svolto in confessionale e in quell’occasione si era parlato di soldi. Il brigatista avrebbe anche proposto a Zucca di incontrare Moro. I soldi sarebbero stati depositati in una banca svizzera. 
L’inchiesta sull’Anello, svolta dal maggiore del Ros-carabinieri Massimo Giraudo (lo stesso ufficiale che ha condotto l’inchiesta sulla strage di piazza Fontana che ha portato alle prime condanne del gruppo di Ordine nero dopo oltre 30 anni), ha dimostrato che già il 31 marzo 1978 Zucca aveva confidato a un amico (presumibilmente Adalberto Titta) di essere stato avvicinato al fine di aprire una trattativa con le Br. Un appunto del Sisde del 4 aprile 1978 dà conto di questa notizia. 
Michele Ristuccia ha confermato il contatto Anello-Br: «Titta mi disse che le Br non volevano condurre la trattativa con organi di polizia ufficiali o esponenti politici. In merito alle mancate risposte di Andreotti, mi ricordo che non le diede a voce, al Titta, facendo bene intendere che Moro vivo non interessava». 
Francesco Cossiga ha detto di essere stato informato «anni dopo» del tentativo messo a punto dal Vaticano il 9 maggio per cercare di liberare Aldo Moro e di cui ha parlato per la prima volta Andreotti in marzo. «Seppi da lui che questa possibilità di riscatto era la ragione del suo ottimismo quando lo andai a trovare la sera dell’8 maggio 1978. In Vaticano si avevano ragioni per credere di avere contatti con le Br. Da quello che compresi questo contatto passava per la rete dei cappellani carcerari», dice oggi Cossiga, che come Andreotti smentisce categoricamente a Diario di conoscere l’Anello e Titta. Ma c’è un altro elemento che si connette a questa vicenda, dando un senso concreto ad alcuni dubbi che ancora oggi dominano i pensieri della famiglia Moro. 
Qualcuno, mai identificato, la mattina del 9 maggio 1978 avrebbe dovuto entrare nella prigione di Moro e portargli la carezza, il conforto del Papa, e poi garantire la liberazione dell’ostaggio e il contemporaneo pagamento del riscatto. Poche ore più tardi, invece, Aldo Moro sarebbe stato ritrovato ucciso in via Caetani. Comunque l’Anello predispose i 50 miliardi di cui parla Andreotti per pagare la mattina del 9 maggio il riscatto che avrebbe liberato Moro. Se è finita come è finita qualcosa è andata male o qualcuno non ha rispettato i patti. Chi interruppe bruscamente la trattativa in corso? L’Anello fu bloccato da qualcuno che non voleva che Moro uscisse libero dalla prigione potendo raccontare che il suo luogo di prigionia era stato individuato, ma si era scelto di non intervenire? E di trattare segretamente tramite quelli che un comunicato delle Br (il numero 4 del 4 aprile, quando Zucca aveva già il suo contatto aperto con le Br) definisce i «misteriosi intermediari»? 
Afferma la sentenza che ha mandato assolto, in primo grado, Giulio Andreotti dall’accusa di essere il mandante politico dell’omicidio del giornalista Mino Pecorelli: «Qui preme sottolineare l’articolo Vergogna buffoni, pubblicato su Op del 16 gennaio 1979, e quindi poco più di due mesi prima dell’omicidio, in cui Carmine Pecorelli preannunciava una rivisitazione di tutto il caso Moro, con esplicito riferimento alle trattative con le Br, non andate a buon fine perché qualcuno non aveva mantenuto i patti e aveva «giocato al rialzo», pretendendo un prezzo che non poteva essere accettato. Ma se così è, non può revocarsi il dubbio che tali circostanze, se vere e portate a conoscenza dell’opinione pubblica, che pure aveva atteso con ansia la liberazione di Aldo Moro, avrebbero sicuramente sconvolto il panorama politico italiano, proprio perché sarebbe chiaramente emerso che il potere politico non aveva voluto che fosse salvata la vita dello statista». 
L’inchiesta sull’omicidio Pecorelli ha evidenziato i rapporti che si erano stabiliti tra il giornalista di Op e il generale Carlo Alberto dalla Chiesa, almeno dall’agosto-settembre 1978. Pecorelli ricevette molte «dritte» dal generale. Tante allusioni di Pecorelli al fascicolo «Mi.Fo.Biali», nato intorno alla corruzione della Guardia di finanza per lo scandalo dei petroli, non sono che riferimenti in codice all’Anello e alla sua azione sotterranea. E dalla Chiesa, almeno secondo le malevole testimonianze di Ristuccia, conosceva l’Anello: «Il generale non faceva parte dell’Anello, conosceva Titta e non ostacolava le attività dell’Anello, non perché fosse contrario a esse, ma semplicemente per concorrenza, in quanto», dichiara a verbale Ristuccia, «non desiderava, specialmente in tema di lotta al terrorismo, che qualcuno potesse arrivare prima di lui. Ricordo in particolare il tentativo di catturare Moretti a Milano con un intervento su un obiettivo, sul quale da tempo stava lavorando anche l’Anello. L’improvvido intervento del generale ne consentì la fuga. Conobbi il generale dalla Chiesa in quanto me lo presentò il Titta appena giunto a Milano». E ancora: «Ricordo (che Titta, ndr) non apprezzava il generale dalla Chiesa in quanto per protagonismo avrebbe danneggiato alcune operazioni dell’Anello». 
Il generale dei carabinieri Nicolò Bozzo, collaboratore di dalla Chiesa, ha affermato davanti a un magistrato nel 1993 che dalla Chiesa era molto interessato da una ipotesi di lavoro: l’esistenza di una struttura segreta paramilitare, con funzioni organizzative antinvasione ma che «aveva debordato poi in azioni illegali e con funzioni di stabilizzazione del quadro interno». Dalla Chiesa credeva che questa struttura poteva aver avuto origine «sin dal periodo della Resistenza, attraverso infiltrazioni nelle organizzazioni di sinistra e attraverso il controllo di alcune organizzazioni di altra tendenza». Poteva trattarsi di Gladio-Stay behind. Ma Gladio nasce nel 1954. L’Anello nasce invece nel 1948. 

Pecorelli
Che cosa è accaduto tra la sera dell’8 maggio 1978 e le prime ore del 9? Pecorelli aveva una sua ipotesi: «Cossiga era convinto, crediamo (?), che Moro sarebbe stato liberato, e forse la mattina che il presidente è stato ucciso era (...) in attesa che arrivasse la comunicazione che Moro era libero. Moro invece è stato ucciso. In macchina. A questo punto vogliamo anche noi fare un po’ di fantapolitica. Le trattative con le Br ci sarebbero state. Come con i Feddayn. Qualcuno però non ha mantenuto i patti. Moro, sempre secondo le trattative doveva uscire vivo dal covo (al centro di Roma? Presso un comitato? Presso un santuario?), i “carabinieri” (?) avrebbero dovuto riscontrare che Moro era vivo e lasciar andar via la macchina rossa. Poi qualcuno avrebbe giocato al rialzo, una cifra inaccettabile, perché si voleva comunque l’anticomunista Moro morto, e le Br avrebbero ucciso il presidente della Democrazia cristiana in macchina, al centro di Roma, con tutti i rischi che una simile operazione comporta. Ma di questo non parleremo, perché è una teoria cervellotica campata in aria. Non diremo che il legionario si chiama “De” e il macellaio Maurizio». 
Il «De» (un modo per alludere e tutelare tipico di Pecorelli) secondo tutti gli studiosi del caso Moro è Giustino De Vuono, un ex legionario, calabrese, legato alla criminalità organizzata, di cui non si sa più nulla da anni. De Vuono venne indicato come uno dei possibili componenti del commando di Via Fani nel «volantone» diffuso dal Viminale subito dopo il 16 di marzo. Per anni si è favoleggiato sulla presenza della ’Ndrangheta nel commando che rapì Moro e uccise i cinque uomini della scorta. Ci sono state decine di riferimenti a questa presenza e i sospetti maggiori hanno riguardato De Vuono, grande specialista di armi che, secondo alcuni testimoni, era effettivamente presente in via Fani. «De» secondo Pecorelli partecipa alla uccisione insieme a «Maurizio» (il nome di battaglia di Mario Moretti). Ma un uomo dell’Anello, almeno secondo il nostro testimone Ristuccia, faceva parte del commando di via Fani: «Il Titta mi disse che anche nel commando che aveva operato in via Fani era presente un calabrese che lavorava per l’Anello meridionale, ma che era stato più volte impiegato da lui». 
La famiglia Moro, Maria Fida in particolare, ha il dubbio che Moro sia stato liberato dalle Br e ucciso da qualcun altro. Da chi? «L’unica spiegazione», ha detto l’ex presidente della Commissione stragi, Giovanni Pellegrino, in occasione del venticinquesimo anniversario della morte del presidente della Dc, «è quella che aveva pensato Craxi. Cioè che non sono i carcerieri a decidere l’esecuzione. L’ordine viene da fuori. E non sono stati loro neanche gli esecutori materiali. Entra in campo la complessità di più trattative che tendono da un lato alla salvezza di Moro e dall’altro alla neutralizzazione di quello che aveva potuto dire alle Br. 
l'anello servizio segretoLa vicenda alla fine precipita perché queste trattative si ostacolano e fanno emergere nei custodi finali di Moro l’idea che la soluzione politicamente più opportuna fosse la soppressione di un ostaggio, cioè il Moro vivo, per poter neutralizzare gli effetti destabilizzanti del secondo ostaggio, cioè le cose che Moro aveva detto alle Br». Oppure, molto più semplicemente, le Br uccidono Moro per uscire da una situazione senza sbocchi politici se non la liberazione, vista la mole di iniziative che quella mattina del 9 maggio erano in corso. Oppure c’è stata una cogestione: alla fine, per chi ha trattato, sia dalla parte delle Br, sia da quella dello Stato, la soluzione migliore, la più concreta e realistica dal punto di vista politico, è la morte di Moro. Ecco il perché delle tante incongruenze sulle modalità della morte e anche sul fatto che fosse stato detto o no a Moro che il suo destino era segnato. 
Ma c’è stato lo zampino di qualcuno che ha giocato al rialzo? Giustino De Vuono è scomparso nel nulla. Resta soltanto l’estremo messaggio di Carmine Pecorelli, che fa nascere nuovi interrogativi su questa storia dell’Anello e su questa inchiesta che la procura di Roma si avvia ad archiviare. Pochi giorni prima di essere assassinato (era il 20 marzo 1979), Pecorelli dedicò al delitto Moro l’ultimo suo inconfondibile articolo. Intitolato: Aldo Moro un anno dopo. 
Pieno di domande allusive, di sottintesi e probabilmente di messaggi, sarcastici e cifrati. Cita il lago della Duchessa, il falso comunicato Br del 18 aprile 1978, quanto il falsario Toni Chichiarelli, vicino alle Br e alla banda della Magliana, stila un falso documento che dà Moro per «suicidato» e sepolto nei «fondali limacciosi» di quel lago. Toni Chichiarelli seguiva da tempo – ci sono testimoni – il giornalista. «Chi è stato interrogato nel Palazzo? La catena ha rivelato in ogni suo anello l’esistenza di connivenze all’interno della struttura dello Stato, nel cuore dello Stato». Un messaggio, un avvertimento, o una firma. Diventerà decifrabile poche ore dopo, quando un colpo di pistola in bocca chiuderà la vita di Carmine Pecorelli. 
Paolo Cucchiarelli, giornalista parlamentare, è autore, tra l’altro, di «Lo stato parallelo» (con Aldo Giannuli, Gamberetti editrice, 1997). In questa inchiesta anticipa alcuni elementi di un più ampio lavoro che sarà pubblicato in un volume intitolato «Morte di un Presidente. Perché l’omicidio Moro rimarrà un mistero».

DOCUMENTI

SCANDALO ENI PETRONIM


ENI - PETROMIN, ORTOLANI ACCUSA IL MANAGER PSI
Il finanziere Umberto Ortolani, interrogato ieri dalla seconda Corte d' assise di Roma nell' ambito del processo contro la loggia massonica P2, ha spiegato come avvenne il suo ingresso nella massoneria e i suoi rapporti con Licio Gelli. "Contattai il venerabile nel ' 73", ha raccontato, "avevo bisogno di qualcuno che mi aiutasse a frenare i virulenti attacchi di Mino Pecorelli su Op contro di me. Alcune persone mi indicarono Gelli come l' uomo che mi poteva aiutare". Erano gli anni 70 e su Op infatti, secondo quanto ha detto in aula l' ex banchiere, erano comparsi alcuni articoli in cui si diceva che se l' Argentina voleva salvarsi doveva liberarsi di alcuni uomini, in particolare dello stesso Ortolani. Il quale, ha spiegato ieri, aveva molti interessi in quel paese e tra questi la proprietà di un importante istituto di credito, il ' Banco Continental' . Gelli, secondo quanto è stato detto in aula, prese in considerazione la richiesta d' aiuto di Ortolani ma per agire chiese una controparte: l' avvocato doveva iscriversi a quella che lui definì un' associazione culturale. Ortolani ha detto d' aver aderito alla proposta pur non ignorando che di massoneria si trattava. Nonostante ciò gli attacchi di Pecorelli, anche se meno virulenti, continuarono. Nel corso dell' udienza, sollecitato dal presidente della Corte d' assise, Sorichilli, l' ex banchiere ha raccontato di come una quota della Rizzoli e quindi del Corriere della sera diventò di proprietà dello Ior, la banca vaticana, attraverso l' interessamento di Calvi, sollecitato a sua volta dallo stesso Ortolani. "Andrea Rizzoli venne da me e mi disse - ha dichiarato l' imputato - che stava per scadere il termine entro il quale doveva pagare una forte somma di denaro alla famiglia Agnelli. Una considerevole somma di denaro Ma non aveva i fondi per farlo; perciò io mi impegnai, contattando Calvi, a recuperare i 23 miliardi necessari". Fu in questo modo che una quota del Corriere passò di mano. Da quel momento il quotidiano, secondo quanto ha raccontato Ortolani, cominciò a pubblicare articoli "influenzati da Gelli". Uno di questi riguardava un pesante attacco contro la Fiat e la stessa famiglia Agnelli. Un secondo articolo, firmato da Maurizio Costanzo, raccontava di un "burattinaio" che capiva meglio degli altri quello che stava accadendo in Italia. La persona in questione, di cui Costanzo faceva nome e cognome - ha affermato sempre Ortolani - era proprio Licio Gelli. "Costanzo - ha spiegato l' imputato - agiva così perchè voleva ingraziarsi Gelli in quanto aveva bisogno di soldi per aprire il suo giornale, L' Occhio, che effettivamente fu aperto in seguito, e costò alla Rizzoli molto denaro". Il finanziere è poi passato a parlare a lungo dell' onorevole Rino Formica. "Formica", ha raccontato Ortolani, "chiese a Ruggero Firrao (arrestato in Svizzera e proprio oggi sottoposto a interrogatorio per rogatoria da parte dei magistrati che si occupano delle tangenti sulla Sace) di introdurlo presso di me. Io lo invitai a colazione a casa mia e lui mi chiese 500 milioni per finanziare la sua campagna elettorale. In seguito mi tempestò di richieste e io rifiutai di rivederlo". A conclusione dell' udienza il presidente della Corte ha sollecitato Ortolani a parlare della ' Sophilau' , la società di Panama che fece da mediatrice tra Eni e Petromin (l' ente per il petrolio dell' Arabia Saudita) per la fornitura all' Italia di 91.250.000 barili di greggio. La ' Sophilau' si rivelò in seguito essere una società fantasma che smistava il denaro pagato per la mediazione su conti bancari in Svizzera intestati a sconosciuti. Ieri Ortolani ha ammesso per la prima volta il fatto che ad acquistare la società "era stato un finanziere con il doppio cognome legato al Psi". Interpellato, l' avvocato di Ortolani, Luciano Revel, ha confermato che il suo assistito si riferiva a Mach di Palmstein. Una richiesta a Palazzo Chigi Proprio sulla documentazione consegnata ai magistrati dall' ex presidente della Repubblica Francesco Cossiga in relazione all' affare Petromin la corte ha emesso un' ordinanza con la quale si chiede al presidente del Consiglio se conferma il segreto di Stato sugli omissis che vi sono contenuti. Stamani riprenderà l' interrogatorio del finanziere proprio sull' argomento ' Sophilau' . In serata sono giunte le precisazioni e le smentite delle persone citate nel corso dell' udienza dall' ex finanziere. Maurizio Costanzo ha affermato che "nel 1980 il giornale L' Occhio era uscito da un anno e io non me ne ocupavo più". Non solo. "L' intervista pubblicata dal Corriere, ha aggiunto il presentatore televisivo, era palesemente a Licio Gelli e lui si definiva, in una risposta, ' burattinaio' ". Replica anche dell' onorevole Rino Formica, citato anche egli a proposito di un finanziamento di 500 milioni. "Si tratta di una storia vecchia e già chiusa. Ortolani fece affermazioni di questo genere nel 1980 con una lettera sul Corriere della sera in cui sostenne di avere avuto da me richieste di finanziamento per il Psi e che, sempre su mia richiesta, il Psi non voleva essere lasciato fuori dall' affare Eni-Petromin". "Per queste affermazioni - ha ricordato Formica - Ortolani fu condannato nel 1982 dal Tribunale di Roma a quattro mesi di reclusione per diffamazione aggravata a mezzo stampa nei miei confronti. Prima di arrivare al processo d' appello, Ortolani ritrattò tutto".

Strane storie e mezze verità sulla maxitangente Eni-Petromin
intervista a Donato Speroni di Roberto Paglialonga11 Ottobre 2009
Siamo in una fase di bagarre energetica. Lo Stato vive una forte destabilizzazione istituzionale. I potentati economici si azzuffano e speculano, gli scandali politici sono all’ordine del giorno. Sembra oggi, ma è il 1979. L’Eni firma un megacontratto petrolifero con i sauditi e subito scoppia l’affaire Eni-Petromin. Per assicurarsi il greggio a prezzi vantaggiosi, infatti, è previsto che dagli uffici di San Donato Milanese sborsino una tangente di oltre 100 miliardi di lire, più o meno 400 milioni di euro attuali. Quattro volte la “madre di tutte le tangenti”, quella per la Enimont. Donato Speroni, giornalista di lungo corso, già al Corriere della Sera e vicedirettore de Il Mondo, direttore poi di Capitale Sud, era al tempo direttore centrale dell’azienda del “cane a sei zampe”, e quella vicenda la visse sulla propria pelle. Ha messo insieme i pezzi del puzzle e ne è nato “L’intrigo saudita. La strana storia della maxitangente Eni-Petromin”, uscito pochi giorni fa per Cooper. 
Speroni, si è messo nel filone degli instant book sul malcostume della politica italiana che furoreggiano ultimamente?
«Beh, instant non direi. Ci ho lavorato quindici mesi e sono trent’anni che penso a questo libro, come si può leggere nell’introduzione, liberamente scaricabile dal sito www.intrigosaudita.it . Gli instant book sono leggerini, questo ha la bellezza di 454 pagine...
Io racconto che lo scandalo Eni-Petromin fu innanzitutto un “errore mediatico”. Non un errore giudiziario, perché non ci fu mai alcun processo; ci fu invece un grave errore di valutazione di alcuni giornali che si fecero manipolare da chi era interessato a far scoppiare lo scandalo. Certo fu un episodio di malcostume».
Per l’affare Eni-Petromin però lei parla di “scandalo non scandalo”. Perché rivangare una vicenda di trent’anni fa allora?
«Per due ragioni. Una oggettiva, di giustizia: la memoria collettiva ricorda la vicenda Eni-Petromin come una storia di finanziamenti ai partiti gestita dalla P2 per comprare alcune testate importanti dell’editoria italiana. Io dimostro che non è così, alla luce di testimonianze importanti, che i giudici valutarono decidendo di non dar corso ad alcuna incriminazione, ma che furono sostanzialmente ignorate dai giornalisti perché arrivarono cinque anni dopo, quando quella storia non interessava più a nessuno. La seconda è personale. Trent’anni fa ero uno dei direttori centrali dell’Eni, responsabile dei rapporti con il governo, la politica, i media. Ho vissuto in diretta la decadenza dell’Eni innescata da questa storia, finché non ho deciso di ritornare al giornalismo come vicedirettore al mio giornale, Il Mondo. Su questa vicenda avevo maturato opinioni, ma non certezze. Ho aspettato di avere il tempo per ricostruirla con calma. Insomma, questo per me era un impegno professionale che ho tenuto in serbo per trent’anni». 
Cerchiamo di capire allora. Cosa successe quando Giorgio Mazzanti arrivò alla presidenza dell’Eni?
«L’arrivo di Mazzanti alla presidenza dell’Eni, nel febbraio 1979, coincise con quello di Khomeini in Iran, cioè con la seconda crisi petrolifera. Mazzanti, collaboratore del premio Nobel Giulio Natta, era un tecnico di valore. E lo è ancora, visto che è ancora consulente internazionale a 81 anni. Però ingenuamente non aveva valutato il peso dei condizionamenti partitici sulle partecipazioni statali. Fece delle promesse ai politici, poi cercò di sfuggire alla stretta dei partiti con una strategia “alla Enrico Mattei”, cercando grandi contratti internazionali sul mercato del petrolio. Ma i tempi erano cambiati e gliela fecero pagare». 
Lei scrive che in parte si è trattato di una storia dei segreti di Pulcinella. In dettaglio, per esempio: se la tangente per il contratto con la Petromin venne effettivamente pagata, e tutto fu dichiarato e trasparente, perché tanto clamore?
«L’Italia era in un regime di controlli valutari. La tangente pagata dall’Agip (per conto dell’Eni) alla società panamense Sophilau fu ufficialmente autorizzata dal ministero del Commercio estero. Era una delle 30mila tangenti che all’epoca gli italiani pagavano ogni anno per fare affari all’estero. Però doveva rimanere segreta. Nel momento in cui qualcuno fece circolare il contratto, i politici di tutti i partiti si insospettirono e ciascuno pensò che i soldi andassero ai suoi avversari, visto che lui non vedeva il becco di un quattrino. Anche perché, diciamolo, l’Eni all’epoca finanziava abbondantemente i partiti attraverso le finanziarie estere, come emerse successivamente. Insomma, nessuno voleva credere che ci fosse una tangente “pulita”, che andava davvero ai sauditi. E questa è l’anomalia di questa storia rispetto ai tanti scandali italiani».
E ancora: visto che le “mediazioni” con gli arabi per assicurarsi contratti vantaggiosi erano la prassi, perché da Riad negarono sempre l’esistenza della tangente e il suo pagamento?
«Perché per gli arabi la mediazione era ufficialmente illegale. Le leggi saudite infatti non consentivano intermediazioni su contratti petroliferi. Anche se, come spiegò l’ambasciatore italiano a Riad, Alberto Solera, in realtà erano la prassi anche nel mondo dell’oro nero. Ma anche Solera questa spiegazione potè darla alla Commissione Inquirente del Parlamento soltanto anni dopo, quando era stato trasferito a Berlino... E non dimentichiamo che su tutta questa storia, per proteggere i rapporti con l’Arabia Saudita, in Italia grava ancora il segreto di stato. Trent’anni dopo!». 
Che cosa non sappiamo ancora di quanto accadde con i sauditi?
«Sappiamo che furono loro a gestire la tangente, che la divisero in sei conti svizzeri nessuno dei quali destinato a italiani. Non sappiamo con certezza, ma possiamo supporre, che una parte importante della tangente non andasse a finanziare donne e champagne dei principi in Costa Azzurra, ma fosse destinata ai palestinesi dell’Olp». 
Il terrorismo palestinese…
«La mia ipotesi, che ho scritto prima di intervistare Cossiga ma che il presidente del Consiglio dell’epoca sostanzialmente conferma trent’anni dopo, è che quei soldi servissero almeno in parte a finanziare l’Olp con la connivenza dei servizi segreti italiani, che in quel momento storico, attraverso il colonnello Stefano Giovannone a Beirut, cercavano di rompere la saldatura tra terrorismo palestinese e Brigate rosse». 
Molti però sostengono ancora che quei soldi fossero funzionali a ungere i meccanismi di partiti politici, consorterie, clan.
«In questa storia partiti, consorterie e clan ci sono tutti. Ed è un periodo di grande corruzione, lo stesso periodo dello scandalo del Banco Ambrosiano, della P2, di una involuzione durata quasi 15 anni che finì con il suicidio di Raul Gardini e Gabriele Cagliari, i protagonisti dello scandalo Enimont. C’è da stupirsi che l’Eni abbia potuto risollevarsi e cambiar pelle. Però lo ripeto: ci sono testimonianze che in questo caso i soldi non sono ritornati in Italia, mentre non c’è alcuna prova del contrario».  
In effetti nel suo libro compaiono praticamente tutti i protagonisti della Prima Repubblica: Craxi, Andreotti, Cossiga, Signorile…
«Andreotti da presidente del Consiglio avallò il contratto, poi passò la mano al primo governo Cossiga, che inizialmente difese l’operato dell’Eni, poi cedette alle pressioni dei socialisti sacrificando Mazzanti, inviso ai craxiani perché considerato vicino a Signorile della sinistra socialista. Craxi fu il mattatore che costrinse Mazzanti alle dimissioni. Quando Mazzanti protestò con lui anni dopo, dicendo “mi avete costretto a dimettermi per i vostri giochi politici, ma io sono un tecnico”, Craxi gli rispose gelidamente: “Lei sbaglia, la presidenza dell’Eni è un incarico politico”».
Quando e perché entra in gioco la loggia P2?
«Licio Gelli cercò di sfruttare la situazione per acquisire maggiore potere e riuscì ad irretire lo stesso Mazzanti, quando questi stava per essere fatto fuori dalla presidenza dell’Eni. Ma posso testimoniare (e nel libro racconto come mai) che Mazzanti non conosceva Gelli e non aveva rapporti con la P2 al momento della stipula del contratto. Io sono convinto che in questo caso il burattinaio dello scandalo stava all’estero: qualcuno che mescolò informazioni vere e false e riuscì a muovere a suo piacimento partiti, giornali e anche mestatori di professione come il capo della P2». 
C’era qualcuno interessato a mettere fuori gioco l’Eni quindi?
«A vari livelli. Oltre al Mossad, il servizio segreto israeliano, per ragioni politiche, non gradivano il ruolo dell’Eni in Arabia saudita né i francesi né gli americani che a Riad per ragioni diverse avevano una posizione privilegiata. In Italia invece giocarono contro Mazzanti sia la diffidenza dei democristiani liberisti dell’Arel guidati da Umberto Agnelli e Beniamino Andreatta che non gradivano un rafforzamento di una impresa di Stato, sia le manovre socialiste che sfruttarono alcuni errori formali nella gestione del contratto per cercare di imporre un loro candidato alla guida dell’Eni: un tentativo che continuò ancora per anni, portando alle dimissioni altri tre presidenti dell’Eni che non si piegavano alla loro volontà». 
Insomma, sapremo mai la verità o anche questa storia è destinata a entrare nel lungo elenco dei misteri italiani?
«Una verità mi sembra appurata: Mazzanti era innocente, la tangente non è stata architettata per finanziare i partiti italiani. Più difficile capire chi ha voluto far saltare questo contratto. Forse un giorno, quando si apriranno gli archivi di qualche servizio segreto estero... Ma in Italia, ripeto, la vicenda è ancora coperta dal segreto di Stato».
Da giornalista si trovò dall’altra parte della barricata. Come visse quei momenti?
«Ho cercato di raccontarlo nel libro, mettendo in ogni capitolo, alla fine della ricostruzione che ho voluto fare in modo oggettivo, un paragrafo di testimonianza personale. Probabilmente ero la persona sbagliata, a quel posto, perché proprio il fatto di essere stato giornalista, capo della redazione romana di un settimanale indipendente e aggressivo come Il Mondo di Paolo Panerai, faceva sì che i politici mi guardassero con sospetto. Direi che il sentimento prevalente fu di rabbia e frustrazione, per veder distruggere un grande disegno di rilancio dell’Eni sui mercati internazionali. La stessa rabbia che Giorgio Mazzanti, nell’intervista che gli ho fatto qualche mese fa, confessa di provare ancora adesso...» 
Speroni, allarghiamo lo sguardo. Strategie di disinformazione, pubbliche calunnie, manovre politiche, indagini senza indizi e accuse senza prove… Ha descritto scenari agghiaccianti. E’ cambiato qualcosa da allora?
«Il clima politico e i rapporti tra politica e informazione mi sembrano ancora peggiori di quelli di trent’anni fa. Forse una cosa è cambiata in positivo. I partiti non pretendono più di comandare a bacchetta le imprese nelle quali lo Stato ha una partecipazione. L’Eni ha una sua autonomia e un suo prestigio internazionale. Ma attenti a non tornare indietro!» 
Un’inchiesta in grande stile, “L’intrigo saudita”, costruita in oltre trent’anni di carriera da quel famigerato 1979. Si legge come un thriller di Ian Fleming. Ma è solo la storia d’Italia, almeno in parte.



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